Il sistema di controllo
penale tra
«fordismo» e «postfordismo»

Giuseppe Campesi

Abbiamo chiuso la prima parte con l'immagine di un esodo, quello dei contadini - soprattutto meridionali - verso il nuovo mondo. Un'altra grande emigrazione conoscerà il meridione d'Italia nel secondo dopoguerra, quando vi sarà da fornire braccia per lo sviluppo industriale dei paesi nord europei (1). Altri migranti incontreremo nel corso della trattazione e saranno, questa volta, i protagonisti assoluti del nostro discorso.

L'Italia - è ormai, da più di dieci anni, evidente - da paese fornitore di un nutritissimo contingente di individui ai flussi di manodopera (per considerare solo i movimenti extranazionali) in movimento verso zone di più avanzato sviluppo industriale, si è trasformato in un paese di immigrazione, diventando la meta di quanti aspirano a partecipare della ricchezza e dell'opulenza del cosiddetto "occidente" sviluppato.

I flussi di persone, com'è ovvio, sollevano problemi di controllo sociale e si è già sottolineato, del resto, come essi abbiano tenuto a battesimo la stessa nascita delle moderne società capitalistiche e dei meccanismi disciplinari ad esse corrispondenti.

Tuttavia, come recentemente ha sottolineato Adriano Sofri (2): "le analogie sono istruttive, e anche moralmente rilevanti, ammesso che si sia disposti a ricordarsi di sé stessi emigranti di ieri davanti agli emigranti di oggi. Ma le differenze pesano di più."

Su tali differenze dovremo necessariamente soffermarci.

Per il momento però lasceremo da parte l'analisi dei flussi migratori contemporanei - su cui torneremo più avanti - per concentrarci sulle caratteristiche dei meccanismi di controllo sociale che i migranti trovano nelle società d'arrivo. Meccanismi su cui le dinamiche dei flussi di popolazione si inseriscono, trovando in essi la base su cui si articola nello specifico la risposta istituzionale al "problema immigrazione".

Vista l'origine dei meccanismi disciplinari è opportuno adesso un preliminare accenno ai tratti che questi sono venuti ad assumere nel corso del XX sec., con un particolare occhio di riguardo all'Italia del dopoguerra.

Modello correzionale e welfare state

Nella prima parte del nostro lavoro ci siamo soffermati sul complesso processo che ha portato, in parallelo, all'assestarsi tanto dei modi di produzione capitalistici, quanto del meccanismo di controllo sociale ad essi funzionale: la «società disciplinare».

Il metodo che abbiamo utilizzato nel ricostruire questa particolare vicenda storica è stato ricavato dai postulati della "criminologia critica", nella quale abbiamo ritenuto di poter rintracciare una feconda sintesi fra gli approcci "costruttivisti" e "materialisti" nello studio dei processi di controllo sociale.

Il pregio di tale metodo di analisi risiede nella sua capacità di evidenziare come "l'emergere di forme determinate della penalità sia il risultato del convergere di forze culturali, politiche e sociali che pur non essendo il riflesso necessario di determinate articolazioni dei rapporti di produzione, a queste ultime sono però intimamente connesse" (3).

C'era parso, così, di meglio poter rendere conto dell'elevata selettività dei sistemi penali moderni i quali, a scapito dell'idea di eguaglianza di fronte alla legge (e, soprattutto, sotto la sua egida), hanno da sempre rappresentato uno strumento di gestione delle masse proletarie e sottoproletarie funzionale ai bisogni di valorizzazione del capitale. Essi, piuttosto che meccanismi di risposta alla criminalità, si sono sempre atteggiati quali strumenti di riproduzione materiale e giustificazione ideologica di una struttura sociale marcatamente polarizzata.

Il percorso che abbiamo svolto sin qui è stato funzionale, dunque, ad individuare la genesi degli strumenti normativi ed istituzionali che si possono ricondurre allo strutturarsi dei meccanismi disciplinari. E lo abbiamo fatto evidenziando la tortuosa strada attraverso cui sono nati la prigione moderna ed i meccanismi polizieschi, concentrandoci in particolare sull'Italia della seconda metà del XIX secolo. Peculiarità di tale complesso di strumenti disciplinari abbiamo visto essere il loro fondarsi su valutazioni di tipo personologico: tutti i meccanismi disciplinari, in quanto strumenti istituzionali funzionanti sulla base di un paradigma "sostanzialista" della devianza, calibrano il loro intervento non in relazione al fatto di reato, ma in ragione delle caratteristiche dell'autore.

Tanto l'esecuzione della pena, quanto lo stesso intervento istituzionale tout court, quando ha per presupposto un parametro personologico, possono dunque essere diversamente modulati in ragione della supposta "pericolosità" di un determinato soggetto, attraverso l'intervento di saperi in grado di evidenziare la sua eventuale "natura" - più o meno - criminale.

L'ideologia del trattamento penitenziario (concepita in epoca classica sotto forma di un'aspirazione pedagogica ed incubata nel corso del XIX secolo, che - nella sua seconda metà - vedrà il fiorire di correnti penalistiche che variamente proclameranno la scientificità del trattamento, fino a reclamare la stessa derogabilità del giudicato penale a vantaggio di una penalità impostata sulle conclusioni tratte a seguito dell'"osservazione" della personalità del reo effettuata dai professionisti del trattamento) giunge tuttavia ad una completa maturazione solo con lo strutturarsi di quello che viene comunemente chiamato «stato sociale» o welfare state, nel XX secolo.

Il progressivo affermarsi di un modello correzionale nonostante il perenne "scacco" del carcere (i cui effetti criminogeni furono evidenti sin dal XIX secolo) è una circostanza che va tuttavia spiegata con le mutate esigenze di controllo sociale che il nuovo ciclo politico-economico implicava e ciò a prescindere dal definitivo formalizzarsi dei "saperi" sul crimine e dal loro, per certi versi decisivo, ruolo nella definitiva diffusione di un'ideologia trattamentale.

Come ci dimostrerà nello specifico il caso italiano, tra fine xix e inizio xx secolo la stessa dinamica produttiva delle grandi nazioni industrializzate, ancora incapace di assorbire ed integrare economicamente e socialmente la gran massa d'individui che andava affollando i quartieri operai delle grandi città, non consentiva - a patto di non voler scardinare il principio della less eligibility - lo sviluppo di quel vasto programma di riforma in senso esplicitamente decarcerizzante che sarà la principale aspirazione del "welfarismo penale".

Tuttavia, l'avvento delle democrazie di massa, avrebbe mutato radicalmente le esigenze di controllo sociale e gli strumenti prevalentemente poliziesco-neutralizzativi che abbiamo visto ampiamente utilizzati nell'Italia liberale - ed in genere allorché si è posto il problema del governo di un nutrito esercito industriale di riserva - si sarebbero rivelati ben presto inadeguati rispetto alle prospettive di sviluppo economico e sociale che le società industriali avrebbero posto con il xx secolo.

Anche se nei principali paesi industrializzati il problema del governo della «questione sociale» e della povertà continuò ancora per qualche decennio ad essere articolato nei termini ottocenteschi - con il ricorso all'immagine delle classi pericolose, dell'inferiorità morale e razziale del povero (4) e l'utilizzo della classica distinzione fra poveri meritevoli (inabili) ed immeritevoli (abili) come fondamento delle politiche sociali - lentamente l'estensione della partecipazione delle masse alla vita politica consentì che queste potessero rivendicare sempre più esplicitamente una quota maggiore nei dividendi del reddito nazionale.

L'abbandono dei vecchi strumenti polizieschi a carattere repressivo e neutralizzativo non è certo immediato, come non è immediata la riforma dei meccanismi assistenziali: ancora a lungo sarebbero esistiti ospizi e case di lavoro per poveri nei paesi anglosassoni, ammonizione, sorveglianza speciale e confino di polizia in Italia; né avrebbe smesso di scorrere il sangue, allorché un esercito industriale sempre più cosciente politicamente avrebbe scatenato scioperi, occupazioni di terre e stabilimenti, proteste di piazza (5). Tuttavia le vecchie strutture di dominio - come quelle su cui si basò anche l'Italia liberale - fondate sull'esplicita egemonia politico-economica di ristrette elite sarebbero alla lunga definitivamente tramontate ed altre, e più sofisticate, strategie sarebbero occorse per mantenere una struttura sociale così fortemente polarizzata, evitando la deriva rivoluzionaria verso cui, con sempre maggiore insistenza, le masse sembravano protendere.

Il tentativo di integrare e coinvolgere nel gioco politico le masse fu alla base del progetto politico giolittiano in Italia e, oltre al suffragio universale, portò ad un primo abbozzo di tutele sociali e previdenziali per la classe lavoratrice, similmente a quanto stava avvenendo, più o meno in contemporanea, in altri paesi occidentali (6).

Come è stato sostenuto (7), però, sarebbe stata la "grande guerra" a strutturare definitivamente quei mutamenti nelle strategie di controllo sociale che già si intravedevano ed in particolare quella capacità di fondare i meccanismi di dominio sulla costruzione del consenso e di un'egemonia politico culturale che, come intuì a pieno Antonio Gramsci (8), fondamentale si sarebbe dimostrata per l'esercizio dei processi di controllo sociale nelle democrazie di massa.

Le esigenze poste dalla prima guerra mondiale diedero modo di sperimentare per la prima volta forme mai viste di "irregimentazione" e di "mobilitazione" delle forze di un'intera nazione, ma fu soprattutto la diffusione dei mezzi di comunicazione (oltre al generale aumento dell'alfabetizzazione) ed in particolare la nascita della radio, a offrire per la prima volta la possibilità di standardizzare il comportamento di grandi masse con un relativamente piccolo spiegamento di energie coercitive.

Inoltre "l'avvento dell'economia di guerra, della mobilitazione industriale, di altri fenomeni in campo tributario, di mercato, o anche direttamente produttivo, rappresentò il culmine di quella tendenza in atto da tempo; ed esso sfociò talora in soluzioni permanenti, come la confisca della proprietà privata nelle repubbliche sovietiche o, fatte le necessarie differenze, come la creazione di istituti di sovvenzione e salvataggio di banche e industrie in Italia e Germania, e fu all'origine di orientamenti di politica economica che si sarebbero chiamati poi keynesismo, new deal, dirigismo" (9).

L'ipotesi è senz'altro suggestiva, tuttavia, se da un lato misure simili d'intervento economico-sociale delle agenzie statali erano già state conosciute, la definitiva deriva verso una forma di stato "interventista" non fece immediato seguito in tutti i paesi industrializzati alla fine delle ostilità.

Ancora nel 1928 H. C. Hoover, candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti d'America, poteva celebrare il dogma del liberismo e dichiarare chiusa la breve stagione "dirigista" dovuta alla guerra: "noi abbiamo irreggimentato in larga misura il nostro popolo provvisoriamente in uno stato socialistico. Ma questo, anche se giustificato in tempo di guerra, se continuato in tempo di pace distruggerebbe non solo il sistema americano, ma anche il nostro progresso e la nostra libertà" (10).

Tuttavia, l'ottimismo del decennio successivo alla chiusura della "grande guerra" (alimentato dall'enorme aumento della produttività del sistema economico americano) e la retorica antistatale di Hoover sarebbero stati spazzati via dal cosiddetto "giovedì nero": il 29.10.1929.

Le ragioni e le conseguenze del crollo dell'economia statunitense furono tali e tante che non è minimamente pensabile affrontarle in questo contesto e peraltro, ai fini del nostro discorso, è sufficiente sottolinearne alcuni punti salienti. Sarà, infatti, sufficiente soffermarsi sulle sue rilevanti conseguenze politiche.

Le elezioni presidenziali del 1932 porteranno al soglio presidenziale statunitense F. D. Roosevelt, candidato del partito democratico, il quale avviò una strategia di governo destinata a segnare un'intera epoca, arrivando a strutturarsi nel secondo dopoguerra in tutte le più grandi democrazie industriali occidentali: il «nuovo metodo» (new deal) prevedeva un deciso intervento dello stato nella vita economica del paese, secondo quelli che saranno i postulati che J. M. Keynes formalizzerà nelle sue opere più compiute, scritte negli anni '40.

La "via di mezzo" - come l'avrebbe chiamata H. Wallace, rispondendo a chi muoveva verso Roosevelt accuse di socialismo - si presentava come la soluzione democratica idonea ad evitare la deriva verso fascismo e comunismo (in cui precipitava l'Europa) ed ovviare agli squilibri che il capitalismo abbandonato a sé medesimo aveva determinato (11). Ciò attraverso tutta una serie di misure il cui "significato sta nel fatto che grazie ad esse è possibile dirigere, stimolare, limitare ed equilibrare le forze che incidono sulla distribuzione del reddito nazionale" (12).

Capisaldi della politica di Roosevelt furono la legislazione sul lavoro e la legislazione sociale, entrambe veramente "sovversive" rispetto alla tradizione americana, che mai aveva conosciuto simili livelli di spesa sociale o di ingerenza dello stato nelle relazioni fra capitale e lavoro (13). In particolare fu per la prima volta esplicitamente attaccato il fondamento di ogni politica assistenziale sino ad allora conosciuta: la distinzione fra poveri meritevoli e poveri immeritevoli di un sussidio e così, già nel 1933, a seguito dell'istituzione del primo meccanismo federale di assistenza (Federal Emergency Relief Administration) circa venti milioni di persone erano sotto l'assistenza delle istituzioni federali.

Con Roosevelt, insomma, si ebbe una prima anticipazione pratica di quella che sarebbe stata la concezione marshalliana di cittadinanza (14) e dell'idea ad essa sottesa che la società avrebbe dovuto farsi carico della povertà e dell'emarginazione. Per la prima volta veniva messo in questione il principio della less eligibility e la connessa esigenza, fino ad allora mai messa in questione, di favorire con ogni mezzo - anche con gli strumenti polizieschi e penali, come visto - lo stimolo al lavoro.

Nonostante tutto però, il tentativo rooseveltiano di fondare su nuove basi i meccanismi di governo della povertà fu solo parziale. I suoi propositi di riforma, come accennato, non furono pensati per realizzare a pieno ciò che Marshall avrebbe indicato quale requisito fondamentale della cittadinanza: "the right to share to the full in the social heritage and to live the life of a civilized being according to the standards prevaling in society"; bensì quali mezzi per assicurare quella pace sociale che il grande crollo dell'economia aveva minacciato seriamente e per evitare che il risentimento degli strati sociali più bassi potesse esplodere in disordini e rivolte (15).

Il principio di fondo su cui si fondava da secoli l'idea di un meccanismo restrittivo di assistenza ai poveri non fu, infatti, completamente intaccato dalle riforme degli anni '30 poiché esse avrebbero strutturato l'intero sistema su una cruciale distinzione: quella fra assistenza (dedicata ai minori in situazioni difficili, con la sola madre o senza genitori, ed agli invalidi) e previdenza (dedicata agli anziani ed ai disoccupati temporanei).

Questo semi-welfare in sostanza "modified but not erase archaic distinctions between the worthy and unworthy or the able bodied and impotent poor; it created walls between social insurance and public assistance that preserved class distinction and reinforced the stigma attached to relief or welfare (16)" e, sopratutto, costituì un compromesso non troppo velato tra l'esigenza di lenire la povertà e l'emarginazione e l'esigenza di mantenere in vita lo stimolo al lavoro.

Una simile distinzione conobbe, tra anni '20 ed anni '30, anche l'Inghilterra. Tuttavia aldiquà dell'Atlantico, l'assistenza fu, già dal 1934 (con l'Unemployed Insurance Act), estesa anche ai giovani da poco entrati nel mercato del lavoro - e dunque con insufficienti contributi per accedere alla previdenza vera e propria. Con gli anni '40 poi, sarebbe stato introdotto un sussidio "out of work" che, finalmente, avrebbe delineato i tratti di quella cittadinanza sociale che nel 1950 Marshall avrebbe concettualizzato. Fu così che nel 1948 il National Assistance Act eliminò, a distanza quattro secoli, le case di lavoro trasformando finalmente l'assistenza ai poveri abili in un diritto del cittadino (17).

Anche se la sua più compiuta realizzazione si avrà in Inghilterra, il cui welfare state sarà quella che più di ogni altro si avvicinerà alla effettiva concretizzazione di una cittadinanza sociale, il modello politico pensato da Roosevelt ispirerà, dopo il secondo conflitto mondiale, le strategie politiche di tutte le democrazie occidentali (18).

A questo modello politico corrisponderà una fase di decisa espansione qualitativa e quantitativa del ruolo dello stato e ciò è del resto testimoniato dalla stessa America "rooseveltiana" se si pensa alvertiginoso aumento che conobbe la burocrazia federale statunitense nel solo decennio che va dal 1931 al 1941, passando da 588.000 a 1.370.000 unità (19). Ma soprattutto saranno le strategie di controllo penale ad essere definitivamente stravolte, a favore di un sistema in grado di meglio adattarsi alle rinnovate esigenze della produzione industriale, che proprio tra anni '20 e '30 avrebbe conosciuto una svolta epocale (20). Tali storiche aperture sul piano politico, infatti, si sposarono perfettamente con le rinnovate esigenze del sistema produttivo.

Il nuovo ciclo dell'economa capitalistica poneva esigenze di controllo sociale che non si limitavano più alla semplice necessità di gestire una popolazione in eccedenza. Vi era piuttosto l'aspirazione ad allargare il più possibile la sfera della partecipazione sociale, a raggiungere il massimo livello di integrazione sociale (21) e ciò si esprimeva nell'obbiettivo della «piena occupazione», che la fiducia nella capacità della grande impresa (eventualmente anche sostenuta dall'intervento statale) di assorbire manodopera faceva apparire non del tutto chimerico.

Alla forma politica del welfare state è storicamente corrisposto, infatti, un tipo di produzione industriale basato sui principi del fordismo, dal nome di E. Ford che, per primo nei suoi stabilimenti diede avvio ad una decisa razionalizzazione ed accelerazione del processo produttivo applicando i principi del taylorismo,introducendo la catena di montaggio ed avviando così, per la prima volta, un tipo di produzione su larga scala (22).

In questa fase del capitalismo le esigenze di integrazione di masse d'individui nel processo produttivo aumentano - e con esse le esigenze disciplinari - per diverse ragioni: in primo luogo poiché si tratta di imporre agli operai il regime taylorista-fordista di lavoro in fabbrica, con le sue rigide scansioni ed i suoi massacranti ritmi; in secondo luogo perché la concentrazione industriale alla periferia delle grandi città, come sottolineato, comporta un «accumulo» d'individui senza precedenti nelle metropoli che, ovviamente, necessita di essere governato (23).

La necessità di assorbire un elevato quantitativo di manodopera, dunque, ben si sposava con strategie politico sociali non più volte alle mera neutralizzazione e con quell'apertura politica nei confronti delle masse che caratterizzò il xx secolo. Ma ciò fu favorito anche dal fatto che la produzione di massa avviata dalle nuove tecnologie industriali necessitasse di un mercato, di uno sbocco, che non poteva essere assicurato se non attraverso una politica di "alti salari" (in cui A. Gramsci segnalava uno dei principali fattori nel far accettare ai lavoratori i nuovi ritmi della produzione (24)) e la socializzazione degli individui ad un determinato stile di vita, dotato del necessario corredo di valori consumistici. Occorreva insomma favorire in tutti modi quella che Pier Paolo Pasolini dalle pagine del Corriere avrebbe nel 1974 chiamato «rivoluzione antropologica», individuando correttamente gli effetti che sul costume degli italiani avevano avuto vent'anni di ininterrotto sviluppo industriale, di produzione e consumi massificati (25).

Il vertiginoso aumento della produttività dei sistemi industriali occidentali necessitava di uno stato in grado di sorreggere e stimolare la propensione ai consumi della più ampia parte possibile dei cittadini, propensione che in un certo senso non sarebbe stato possibile "massificare" - secondo le proporzioni che assumeva la produzione nel sistema fordista - se non all'interno di uno «stato del benessere», in cui fosse a tutti assicurata una cittadinanza sociale di base.

Si trattava insomma di una doppia questione che si poneva al potere bio-politico: creare da un lato la forza lavoro adatta al sistema di produzione taylorista-fordista e, dall'altro lato, il consumatore verso cui dirigere l'iperproduttività del sistema.

Non è un caso dunque se l'apogeo del modello correzionale di controllo penale si raggiunge all'interno del welfare state, che è la forma di stato tipica della fase fordista dell'economia capitalistica. In questo quadro, la propensione al massimo livello d'integrazione sociale del sistema penale si esprime nel definitivo trionfo dell'ideologia della "risocializzazione" e delle pratiche istituzionali trattamentali volte al tendenziale reinserimento degli individui in società.

In una fase ascendente del ciclo economico, in cui il benessere prodotto viene distribuito in una sfera sociale più ampia, tendono a prevalere meccanismi penali meno afflittivi, che si esprimono nel «polo» reintegrativo dei meccanismi disciplinari.

A prescindere dal segnalato aumento, con la creazione di nuovi meccanismi di politica sociale, delle agenzie statali deputate alla "presa carico" dell'esistenza degli individui, all'estremo dello spettro disciplinare, sul piano strettamente penitenziario, ciò si risolse nella diffusione di pratiche sanzionatorie outdoor, cioè in un diffuso ricorso allo strumento della decarcerizzazione, attuata mediante misure alternative al carcere (26).

In questa fase storica vi sono le basi strutturali per un complessivo decremento del ruolo del sistema penale nel governo della miseria, presa in carico, ormai, da altre agenzie pubbliche; ma sopratutto, oltre ad una complessiva diminuzione quantitativa dell'intervento penale - che si esprimerà nella grande deflazione carceraria conosciuta nel dopoguerra da molte democrazie occidentali - si pongono le basi per la definitiva diffusione di meccanismi disciplinari qualitativamente diversi, basati sulla decarcerizzazione e finalizzati alla reintegrazione sociale del reo, più che alla sua mera neutralizzazione.

Il modello correzionale di giustizia penale si fonda, in genere, su quello che è stato chiamato "scambio penitenziario" (27) (o «scambio positivo», in contrapposizione allo «scambio negativo» che avverrebbe nella fase giudiziale, allorché viene commisurata la sanzione da attribuire al singolo caso), sulla possibilità cioè, di modificare il giudicato penale in relazione ad altre circostanze rispetto al fatto di reato (in relazione al quale dovrebbe invece avvenire il c.d. «scambio negativo»), come la buona o cattiva condotta del reo, il suo supposto livello di pericolosità, il suo progredire o regredire sulla strada della "risocializzazione". Tali parametri, attraverso cui si effettua una "prognosi" sul futuro comportamento del soggetto, concretizzano un vero e proprio processo sull'autore e consentono di "flessibilizzare" e diversificare la risposta punitiva, rinunciando in tutto o in parte alla sanzione del carcere.

Le pratiche di controllo sociale outdoor, decarcerizzanti, si pongono come uno degli aspetti tipici della diffusione del welfare state: esso, assumendosi il compito specifico di farsi carico della problematicità sociale, attribuendosi compiti di «presa in carico», di «aiuto», estende le maglie del controllo sociale formale ben oltre i classici limiti dell'intervento penale nella vita dei cittadini, attuando una vera e propria dislocazione della penalità nel sociale.

È dunque sostenibile che il modello correzionale di giustizia penale scaturito dalla cultura positivista del XX secolo si sia potuto cristallizzare grazie - oltre che alle propizie condizioni strutturali che, secondo l'insegnamento di Rushe e Kirchheimer, hanno consentito la praticabilità di strategie punitive più soft senza che il sistema perdesse nel complesso la sua efficacia deterrente - alla praticabilità di un'alternatività al carcere ottenuta per mezzo dell'estensione, a seguito della diffusione delle agenzie del welfare, di una disciplinarietà nel sociale non più fondata sul ruolo esclusivo attribuito all'istituzione poliziesca nel governo delle "classi pericolose".

Le agenzie del welfare, però, non rendono meno capillare la rete di controlli formali tesa sull'intero corpo sociale, né elidono la capacità di agire al di fuori delle semplici «istituzioni totali» che i meccanismi disciplinari hanno acquisito con lo sviluppo di quella che è stata chiamata «società disciplinare» (28). Esse mutano la strategia di fondo e, nell'erodere progressivamente il ruolo assegnato alle agenzie poliziesche, puntano prevalentemente all'eliminazione - più che alla mera gestione - della problematicità e marginalità sociale, limitando il più possibile l'intervento neutralizzativo.

Il sistema penal-disciplinare soft che progressivamente il welfare andrà sviluppando non si pone come vera e propria alternativa alle pratiche penal-disciplinari hard, sulle quali esso andrà piuttosto a poggiarsi. Quanto detto, infatti, non deve indurre a pensare che il controllo penale nel XX secolo - ed in particolare nei regimi di welfare - rinunci allo strumento del carcere. Piuttosto è "storicamente verificato che mai i sistemi correzionali di giustizia hanno potuto significativamente rinunciare alla pena detentiva" (29), la quale continuerà ad essere riservata ai soggetti ritenuti irrudicibilmente inassimilabili all'ordine sociale.

Su di un piano, per così dire, soprastrutturale il sodalizio fra cultura - e pratica - del trattamento e welfare state avviene nel quadro di una visione organicistico-positivista della società, che, come in Marschall, porterà ad un allargamento del contenuto della "cittadinanza" ben oltre le classiche guarentigie civili e politiche (30).

In questa visione della società il legame che dovrebbe unire il singolo individuo alla collettività in cui viene ad esistere non è esprimibile attraverso la semplice metafora del "contratto", in base alla quale egli riconosce l'autorità statale solo ed esclusivamente nei limiti in cui questa garantisce le sue libertà fondamentali; tale legame si esprime piuttosto nel concetto di "solidarietà", che vincola il singolo all'intero organismo sociale attraverso il ruolo dello stato, che si pone quale mediatore fra l'interesse individuale e l'interesse collettivo. Lo stato, in tale visione, non si limita al puro riconoscimento dei diritti individuali, ma, si rende interprete del legame di solidarietà che unisce in un tutto l'intero corpo sociale, interviene come protagonista attivo nella realizzazione di una concreta e "sostanziale" uguaglianza fra i membri del consesso sociale (31).

Così, come avvenne sul piano delle politiche pubbliche implementate per il governo della marginalità sociale, il povero non sarebbe più stato, secondo una concezione individualistica dei rapporti sociali, chiamato a rispondere del suo status sociale e del suo disagio. Il meccanismo dell'assistenza avrebbe, infatti, abbandonato progressivamente la sua tendenza a responsabilizzare l'individuo per la sua condizione sociale ed a supportare, con la penalizzazione dello stato d'indigenza (secondo il principio della less eligibility), una struttura del mercato del lavoro vantaggiosa per le esigenze di valorizzazione del capitale; sviluppando invece istituti fondati sull'idea solidaristica della responsabilità sociale per la povertà e finalizzati alla presa in carico ed all'eliminazione della marginalità sociale e non più ad una sua mera gestione.

È su queste basi culturali, oltre che materiali, che si fonda in pieno XX secolo la possibilità di limitare per la prima volta, a distanza di quattro secoli dalla nascita delle case di lavoro e della normativa su "oziosi e vagabondi", il ruolo dei meccanismi poliziesco-disciplinari nel governo della miseria.

L'equiparazione dei cosiddetti "diritti sociali" ai diritti civili e politici - in una visione di progressivo allargamento della sfera dei diritti del singolo - appare tuttavia sotto diversi profili problematica. A prescindere dalle perplessità che potrebbe sollevare il considerare sullo stesso piano diritti la cui portata universalistica è difficilmente discutibile, viste anche le numerose convenzioni internazionali che ne sanciscono, perlomeno sulla carta, l'inviolabilità e diritti il cui grado di riconoscimento è rimesso alla discrezionalità dei singoli stati - senza contare il deciso attacco che come vedremo il welfare si trova ormai ad affrontare in tutto il mondo occidentale - le due categorie non si fondano sugli stessi presupposti: essendo i diritti sociali basati non sul dato ontologico dell'eguaglianza fra gli uomini, bensì sul dato pratico della loro disuguaglianza. Essi come detto non creano eguaglianze formali, ma ovviano a disuguaglianze sostanziali (32).

Peraltro, come giustamente sottolinea Emilio Santoro (33), chi pone sullo stesso piano diritti sociali e diritti civili non considera gli opposti presupposti antropologici che sottendono le due categorie. Sicurezza politica e sicurezza sociale sono, infatti, garantite: l'una dai diritti civili-politici che si fondano sull'idea di un individuo razionale in grado di autodeterminarsi e che necessita quindi della semplice protezione di questa sua sfera intangibile di autonomia; l'altra dai diritti sociali, cioè da un intervento dello stato (che nel primo caso si limitava - ed era anzi tenuto - ad un «non intervento»), delle sue agenzie amministrative che tematizzano e razionalizzano i principali problemi della popolazione.

I diritti sociali si rivolgono ad un individuo irrazionale ed incapace d'autodeterminarsi, essi aprono esplicitamente la via ad un intervento dello stato nella sfera individuale che rappresenta il campo tipico della biopolitica foucaultiana. Sino ad allora, infatti, l'azione del potere biopolitico nel campo della politica sociale era stata affidata ad interventi di tipo penal-poliziesco, la cui selettività a scapito delle "classi pericolose" - basata come sappiamo sulla loro capacità di prendere in carico l'individuo criminale per ciò che esso è - venne sempre mascherata sotto l'egida dell'uguaglianza di fronte alla legge penale. Con il diffondersi dell'ideologia trattamentale, invece, la selettività del sistema di controllo sociale è esplicitamente assunta quale fondamento dello stesso e, in casi estremi, essa ha portato al concretizzarsi d'espliciti progetti di "bonifica umana".

Frutto dell'identico contesto culturale, l'organicismo-positivista, l'ideologia trattamentale sarà il caposaldo fondamentale delle politiche penitenziarie del welfare state, mettendo esplicitamente in discussione l'idea dell'uguaglianza degli uomini sino al punto di far campeggiare fra i diritti che la costituzione garantisce all'individuo il diritto ad essere rieducato, risocializzato (34).

Se da un lato, infatti, l'aspirazione egualitaria che si cela dietro il concetto di "solidarietà sociale" e l'attribuzione alle agenzie statali della specifica funzione di sopperire agli squilibri sociali non contraddice quanto del pensiero liberale è volto a realizzare il valore assoluto della persona umana, ma, anzi, è idonea ad allargare le basi di partecipazione alla vita politica e sociale - che è il presupposto stesso della creazione di un minimo di solidarietà sociale e di democrazia effettiva (35).

Sul piano del controllo sociale le teorie della devianza espresse da quella tradizione culturale - oltre ad aver sorretto e giustificato il diffondersi del modello correzionale di giustizia penale o, peggio, programmi di bonifica umana e di miglioramento biologico del corpo della nazione - hanno, come visto, contribuito decisamente ad interpretare fenomeni di conflittualità sociale in cui si esprimeva il disagio e tutta la problematicità sociale causate dal sistema capitalistico, quali episodi patologici dovuti ad un deficit costitutivo o di socializzazione dei loro autori. Esse, anche al di fuori delle esperienze totalitarie e nella loro versione con meno ipoteche darwiniste, non hanno mai sconfessato, anzi a tratti hanno rinforzato, la tipizzazione quali individui o classi pericolose dei soggetti o degli strati sociali più coinvolti in tali episodi di conflittualità. Sul piano teorico - per quel che riguarda, cioè, il pensiero di T. Parsons e lo struttural-funzionalismo, che rappresenta la teoria sociale che a tale ciclo politico-economico diede un coerente sfondo simbolico -quanto ciò fosse dovuto ad una visione eccessivamente solidaristica e consensuale della realtà sociale si è detto (36). Adesso preme piuttosto sottolineare come tale ottimismo derivasse anche dall'eccessiva fiducia nella capacità delle agenzie del welfare di compensare gli squilibri sociali e di lenire la conflittualità e la problematicità sociale: il manifestarsi di un episodio di devianza non può, in tale contesto, non essere espressione di un difetto individuale, di una carenza di socializzazione.

Un continuum d'agenzie statali (ma molte aspettative restano comunque riposte nel ruolo socializzante della famiglia o di altre agenzie di controllo informali) si assume il compito prevenire l'insorgere della devianza attraverso la costante tematizzazione ed il continuo trattamento della «problematicità sociale». All'estremo della scala di istituzioni che prendono in carico sin dai primi anni di vita l'esistenza degli individui vi è il carcere, il cui intervento è riservato ai casi in cui la problematicità sociale si è già risolta (o si ritiene vi sia il "serio pericolo" che si risolva) in devianza criminale.

Come sappiamo però, questo complesso, che è composto dall'insieme delle istituzioni disciplinari, più che conseguire i suoi scopi manifesti (compensare ai supposti deficit di socializzazione) ha l'effettiva funzione di mantenere intatta la struttura sociale esistente, attraverso un ampio ricorso a "trattamenti stigmatizzanti" il cui unico effetto è quello di mantenere tale o ulteriormente abbassare lo status sociale dei suoi clienti (37). Quanti degli appartenenti ai settori di popolazione più problematici, che tipicamente sono gli strati sociali più ai margini - e sempre più esposti, in una società del benessere, a subire una continua frustrazione delle aspettative che una struttura di valori consumistici ingenera - non accetteranno il proprio status sociale (cui si viene, in un primo tempo, educati), verranno presi in carico dalle "istituzioni della risocializzazione" e costretti ad accettarlo. Del resto, l'idea di fondo che sottese le politiche sociali riformate non fu certo quella di realizzare pienamente, se non a parole, l'idea marshalliana di cittadinanza, bensì quella di lenire almeno parzialmente gli squilibri sociali in modo da evitare quella profonda crisi di legittimità che in alcune regioni d'Europa travolse lo stesso sistema democratico. L'antinomia radicale che esiste fra libertà economiche e diritti sociali non ebbe modo di risolversi in completo favore dei secondi, con la compiuta esplicazione di una politica sociale che assicurasse a tutti lo standard di vita diffuso socialmente. Salvo brevi frangenti in cui la scena politica fu egemonizzata da forze radicalmente riformiste (come nell'Inghilterra a cavallo tra '40 e '50 o nell'America della "Great Society" e della "war on poverty" negli anni '60), la spinta verso il ripristino del principio della less eligibility frenò sempre il pieno sviluppo dei diritti sociali: l'esigenza di impedire che lo scarso stimolo al lavoro alterasse la dinamica della domanda e dell'offerta sul mercato rese sostanzialmente ambigui quasi tutti i progetti di riforma sociale, conservando sempre al sistema penal-poliziesco un - seppur ridotto - ruolo nel governo della base della piramide sociale (38).

A conclusione di questo sintetico discorso sui meccanismi di controllo sociale messi in campo dal welfare state, preme sottolineare come la tendenza alla decarcerizzazione, al controllo outdoor, abbia progressivamente relegato il carcere ad una funzione che in tempi recenti vedremo portata alle sue estreme conseguenze, circostanza che ha indotto qualcuno a parlare di radicale mutamento di paradigma nelle strategie di controllo sociale (39).

Abbiamo, infatti, potuto notare come il carcere già durante l'apogeo del modello correzionale tendesse a delegare alle pratiche penal-disciplinari soft, alle cosiddette "strategie di controllo nel sociale", la sua originaria funzione speciale-preventiva; limitandosi alla - fondamentale per la stessa praticabilità delle strategie decarcerizzanti - funzione di "spauracchio", ovvero intervenendo, con funzioni meramente "incapacitative", nei soli casi in cui si avesse a che fare con soggetti non altrimenti disciplinabili. Il trionfo del sistema correzionale si ha durante il welfare, ma esso si esprime nella più ampia diffusione di pratiche di controllo extracarcerarie: "l'imporsi del sistema correzionale di giustizia si realizza più nelle nuove strategie di controllo in libertà che attraverso la pratica della privazione della libertà" (40). Anche in pieno welfare, insomma,il carcere continua ad avere un compito prevalentemente neutralizzativo.

Verso il "postmodernismo penale"

A far corso dalla seconda metà degli anni '70 del XX secolo l'ideologia trattamentale, con il suo seguito di agenzie ed attori della risocializzazione entra in crisi. È soprattutto la considerazione del suo ennesimo fallimento, espressa inequivocabilmente dalla cifra di recidive che i sistemi penali continuavano, nonostante tutti gli sforzi, a produrre incessantemente a darle il colpo di grazia. Ma molto contribuirono anche nuove prospettive criminologiche che, da punti di vista diametralmente opposti, reagirono di fronte alla pretesa di articolare un «trattamento» sull'individuo.

Del contributo dei teorici "costruttivisti" si è detto nella prima parte, la loro radicale critica anti-istituzionale, tuttavia, finì per convergere con la critica di quanti sostenevano di voler abbandonare ogni pretesa terapeutica, non perché ritenuta un'ingerenza arbitraria nella sfera individuale, ma in quanto pratica punitiva foriera di permissivismi fuori luogo. Tuttavia peccheremmo di eccessivo "idealismo" se volessimo ricondurre tutti i mutamenti nelle strategie di controllo sociale a tali fattori "ideologici", soprastrutturali; così come non fu il semplice formalizzarsi delle scienze umane e criminologiche a gettare le basi per la nascita di un sistema penale basato su strategie correzionali e decarcerizzanti.

È opportuno allora riconsiderare tali mutamenti nel quadro strutturale che, a partire dagli anni '70, si è andato delineando in tutto l'occidente (a cominciare dalle aree di cultura anglosassone), per poi valutare quanto la cultura criminologica (teoretica e non) di stampo "neoautoritario" abbia saputo offrire un universo simbolico in grado di legittimare il funzionamento del sistema penale post-welfare.

Un dato balza subito agli occhi a chi si appresti a valutare le strategie di controllo sociale implementate nelle democrazie occidentali a far corso dall'ultimo quarto del secolo XX: un consistente processo di carcerizzazione, che, dopo decenni di decremento della popolazione carceraria, ha ripopolato le prigioni di tutto l'occidente (41). Solo per restare al caso degli Stati Uniti - paese nel quale il processo «ricarcerizzazione» ha raggiunto proporzioni tali da far parlare, a ragione, di "nuovo grande internamento" - è sufficiente pensare che nel ventennio 1975-1995 il totale dei detenuti nelle varie case di reclusione statunitensi (di contea, statali e federali) passava dalle 380.000 unità del 1975, alle (circa) 1.500.000 unità del 1995, per poi sfondare il tetto dei due milioni nel 1998 (42).

Sin dall'inizio del forte trend di carcerizzazione, nella metà degli anni '70, fece la sua comparsa una vasta letteratura criminologica d'impronta marxista, che prese a correlare, secondo l'ormai classico paradigma elaborato da Rusche e Kirchheimer, i mutamenti nella struttura economica ed il funzionamento del sistema di controllo penale, cercando di valutare le variazioni nei tassi di carcerizzazione in relazione alle ristrutturazioni produttive che in quel periodo il capitalismo avviava ed ai tassi di disoccupazione che iniziava a produrre. In particolare si rilevò come la profonda crisi, che avrebbe in qualche anno stravolto le basi della struttura sociale, stesse già iniziando ad avere profondi effetti sulla dinamica dei processi di controllo sociale.

Era, infatti, l'inizio di un processo che avrebbe portato al superamento del modello produttivo taylorista-fordista - e della forma di stato che ne aveva accompagnato e sostenuto lo sviluppo - e già se ne intravedevano le conseguenze sociali: il progressivo formarsi alla base della piramide sociale di una categoria di individui ai margini o completamente esclusi dal mercato del lavoro e progressivamente abbandonati a loro stessi dal ritirarsi del welfare.

L'attenzione degli osservatori si concentrò, dunque, sul ruolo del sistema penale nel governo delle nuove forme di povertà, nella gestione del riedito esercito industriale di riserva (43) e tutti concordarono nel rilevare come gli incrementi nei tassi di carcerizzazione fossero tutto sommato slegati da paralleli aumenti nella criminalità effettiva. Il processo di ricarcerizzazione segnalava piuttosto un'inversione di tendenza nelle strategie di controllo sociale: il sistema poliziesco-disciplinare stava progressivamente recuperando quelle funzioni di politica sociale e governo della marginalità sociale che il welfare gli aveva sottratto.

Il progressivo deprezzamento del valore del lavoro e il più generale abbassamento delle condizioni di vita cui un dato sistema costringe la sua base sociale sono, secondo il classico insegnamento di Rusche e Kirchheimer, il fondamento di un incremento dell'afflittività e del complessivo quantitativo di penalità praticata in un dato sistema sociale; ma lo stesso riemergere di una popolazione soprannumeraria, che le ristrutturazioni industriali e la crisi economica hanno determinato a partire dalla metà dei '70, espone l'ordine sociale ad una forte crisi di legittimità, tanto più quando - come nel caso delle democrazie occidentali del secondo dopoguerra - esso si è venuto a costruire sull'idea dell'uguaglianza dei membri del patto sociale e sull'idea che a tutti dovesse essere assicurata una piena cittadinanza.

La patente incapacità di un dato sistema sociale di produrre e distribuire ricchezza per tutti i suoi membri è causa dello scatenarsi di profonde conflittualità sociali, in cui si collocano anche certe forme di disordine sociale e di criminalità legate all'esistenza di un crescente strato di popolazione confinato ai margini della struttura sociale, le quali possono, all'occasione, strutturarsi in forme di rivendicazione più consapevoli. Perché il sistema sociale possa resistere a tale profonda crisi di legittimità causata dall'inasprirsi della stratificazione sociale, deve necessariamente ricorrere ad un incremento della severità ed ad un'estensione dell'intervento penale che vada ben aldilà dell'eventuale maggiore gravità o dell'aumento complessivo degli episodi delittuosi, recuperando quella che abbiamo individuato come funzione disciplinare del sistema penal-poliziesco (44).

Della correttezza di tale prospettiva teorica rispetto ai paesi anglosassoni (Stati Uniti ed Inghilterra in particolare) ci danno conto, peraltro, da un lato il fatto che l'elevato trend di crescita della popolazione detenuta non trovi alcuna corrispondenza in un parallelo aumento dei tassi di delittuosità; dall'altro il fatto che il sistema carcerario sia venuto negli ultimi decenni accentuando la sua classica funzione di contenitore della marginalità economica e sociale: "le carceri americane, infatti, contrariamente a quanto sostiene la vulgata politico-mediatica dominante, sono piene zeppe non di criminali pericolosi e incalliti ma di piccoli delinquenti condannati per questioni di droga, taccheggio, furti o addirittura disturbo della quiete pubblica, provenienti in larga maggioranza dalle frazioni precarizzate della classe operaia, in particolare da famiglie del sottoproletariato di colore residenti nelle città maggiormente colpite dalla trasformazione congiunta del regime salariale e della protezione sociale (45)".

Il modello esplicativo proposto da questi autori, tuttavia, come ogni approccio rigidamente "materialista", possiede tanto dei pregi quanto dei difetti. Da un lato, infatti, scende alla radice della conflittualità sociale (di cui anche la delinquenza è espressione), che è data dai rapporti di produzione e dai rapporti sociali inerenti, focalizzando immediatamente i nodi cruciali da sciogliere ed in questo caso il nocciolo della questione è correttamente individuato nell'avvio del processo che porterà al superamento del modo di produzione fordista e del welfare state, aprendo la via alla deriva neo-liberista. Dall'altro lato, però, la concezione del potere che ne deriva non è idonea a spiegare i meccanismi attraverso cui la variabile economica inciderebbe sulle dinamiche dei processi di carcerizzazione.

In particolare, infatti, si tende ad instaurare una relazione meccanica tra disoccupazione e carcerizzazione simile, quanto a livello di semplificazione, alla relazione che la criminologia ortodossa tende ad instaurare tra disoccupazione, aumento della criminalità e livelli d'imprigionamento: "there is (...) a tendency to explain the relationship between unemployment and imprisonment by implicit subscribing to a conspiracy account in which the powerfull deliberately attempt to fragment, demoralize and discipline the unemployed by increasing the rates of criminalization and imprisonment" (46).

Tornano, per certi versi, in tali "teorie cospirazioniste" alcuni degli aspetti più deprecabili di un certo materialismo volgare che pretenderebbe di poter studiare ed analizzare l'esercizio del potere intendendolo quale esercizio di una mera forza a sanzione di esigenze ed interessi economici. E se pure l'esercizio della penalità negli ultimi venticinque anni è stato agito secondo un meccanismo che pare del tutto simile a quello preordinato al funzionamento delle poorhouses e degli ospedali generali tra XVII e XVIII secolo, resterebbe deluso chi, alla ricerca degli strumenti giuridici di cui il capitale si serve per sanzionare le sue esigenze, pretendesse di rintracciare norme simili ai provvedimenti esplicitamente repressivi contro l'ozio ed il vagabondaggio che Marx, Foucault e Geremek, ci hanno descritto (47).

Né, tanto meno, è possibile asserire che le corti penali abbiano coscienza immediata dell'inflazione nell'offerta di manodopera che le ristrutturazioni industriali determinano, arrivando ad assumere coscientemente la funzione di "amministrare" tale surplus di popolazione, o che esse seguano supinamente gli indirizzi di politica criminale imposti dall'esecutivo. L'enorme aumento della pressione penale sulle classi marginali, infatti, necessita di essere legittimato agli occhi dell'opinione pubblica, necessita delle costruzioni simboliche idonee ad evitare che la selettività del sistema possa mandare in frantumi l'ideologia dell'uguaglianza di fronte alla legge penale e dunque le basi stesse del patto sociale, esponendo l'autorità ad una crisi di legittimità ben più grave di quella di per sé scatenata da una crisi economica.

I processi di controllo sociale e di carcerizzazione vanno, invece, valutati in relazione all'evoluzione della sensibilità pubblica in rapporto al problema della povertà e della disoccupazione. Complessivamente essi non sono altro che "the unintended conseguences of a number of individual decisions" (48), alle quali ogni singolo attore del controllo sociale giunge sulla base degli elementi simbolici per comprendere la realtà che il contesto sociale in cui vive ed opera gli fornisce.

Non si tratterà, dunque, di chiamare in causa semplicemente lo Stato con le sue leggi più o meno repressive, ma anche il quadro simbolico, l'insieme di "vocabularies of motive which are avaliable to the agencies of penal control as they account for their action (49)", la struttura simbolica che orienta e giustifica le politiche criminali, tanto a livello primario che secondario.

È fondamentale, infatti, comprendere in che termini è articolato il dibattito pubblico attorno alla povertà ed alla disoccupazione, capire quale area politico-culturale riesce ad egemonizzare il pubblico sentire: se una cultura di stampo conservatore, che utilizzando un vocabolario punitivo (che tanto più facilmente si diffonde, quanto maggiori sono la gravità della crisi economica e l'intensità della conflittualità sociale scatenatasi) riesce a radicare un approccio penalistico e repressivo nel governo della marginalità sociale; o una cultura liberal, più propensa a spostare il dibattito pubblico sul piano del vocabolario della politica e delle rivendicazioni sociali ed a responsabilizzare l'intera collettività per il crearsi di crescenti sacche di povertà.

Tanto più una visione stigmatizzante della marginalità sociale si diffonde e si radica all'interno di un determinato contesto sociale, tanto più essa verrà a costituire una risorsa simbolica data per scontata dagli attori del controllo sociale ed un fattore primario nell'orientamento delle politiche criminali. Tanto più si radica l'idea che associa strettamente povertà, disordine sociale e criminalità, tanto più facilmente la politica sociale scivola verso forme di governo poliziesco dell'universo della marginalità sociale; e ciò vale tanto quando si pensa alle politiche coordinate dall'alto, dagli organi centrali di governo, che quando si pensa all'azione individuale degli attori locali del controllo: "is clear that many people believe that unemployment causes crime and this belief has real consequences, particulary when it affects decisions taken by state officials processing suspected and convicted persons" (50).

Sono fattori ideologici, come i saperi e gli stereotipi sul crimine, a legittimare e razionalizzare la marcata selettività del sistema penale ed in questo sarà certamente da valutare il ruolo che una certa criminologia d'impronta «neo-autoritaria» o «revanscista (51)» (e più in generale di tutta la cultura conservatrice che accompagna l'involuzione neoliberista delle democrazie occidentali) ha avuto nel legittimare, anche scientificamente, una certa visione del proletariato e del sottoproletariato urbano statunitense - bollato come massa demoralizzata, criminale e pericolosa - e nel giustificare il ricorso sempre più smodato alla sanzione carceraria quale surrogato delle politiche sociali.

Anche l'analisi dei processi di controllo sociale contemporanei, per riuscire a comprenderne i meccanismi di funzionamento ed il ruolo nel mantenimento dell'accentuata stratificazione sociale, dovrà pertanto passare attraverso l'analisi degli aspetti, tanto strutturali, quanto sovrastrutturali, su cui il controllo si appoggia.

E sarà utile a riguardo concentrarsi inizialmente sul caso di Stati Uniti ed Inghilterra, poiché rappresentano le nazioni guida nella deriva neoliberista e neoautoritaria, e, data l'egemonia militare, economica, politica e culturale che esercitano su tutto l'occidente, sono stati in grado di influenzare - e pare che essa non sia destinata a scomparire facilmente - quasi tutti i paesi industrializzati; per poi poter prendere in considerazione il caso dell'Italia e valutarlo in relazione alla sua specificità.

Postfordismo e neoliberismo. La crisi del welfare state

Cerchiamo adesso di guardare più da vicino quelli che da più parti si definiscono ormai come mutamenti epocali: il superamento da un lato del sistema di produzione fordista e dall'altro del welfare state, il tramonto insomma di un intero ciclo politico-economico.

Le ristrutturazioni industriali che, come accennato, negli Stati Uniti si avviavano già negli anni '70 sarebbero proseguite nei decenni successivi coinvolgendo anche i sistemi produttivi di altri paesi occidentali, arrivando al punto di far decretare la definitiva crisi del modello taylorista-fordista di produzione.

L'informatizzazione del processo produttivo, la delocalizzazione, il decentramento, tutto ciò che viene indicato con il concetto di esternalizzazione della manodopera (52) ha ormai trasformato i grandi poli industriali, con i relativi quartieri operai, in un deserto, modificando significativamente gli scenari urbani contemporanei.

A tale progressiva e costante "riduzione dell'impiego di lavoro vivo" (53) nel processo produttivo, fa riscontro da un lato l'espulsione di sempre maggiori strati di manodopera verso forme di lavoro autonomo e atipico nel settore dei servizi e la progressiva scomparsa del lavoro subordinato "ipergarantito" di vecchia generazione, sul quale incombono flessibilizzazione interna ed esterna; dall'altro il diffondersi di figure professionali nettamente più specializzate, rispetto alle quali la classica soggezione alla disciplina del capitale nel processo produttivo scompare a vantaggio di una maggiore autonomia decisionale ed organizzativa...I cosiddetti «operai in camice bianco». Quest'universo fatto di disoccupazione, sottoccupazione e precariato, che le recenti dinamiche produttive hanno determinato, forma ciò che Alessandro De Giorgi ha felicemente definito "eccedenza negativa post-fordista" (54). Uno strato di popolazione rispetto al quale le garanzie di cittadinanza offerte dal vecchio regime di lavoro e dal welfare vengono a scomparire. Scompare l'impiego, nel senso che le garanzie di reddito e sicurezza sociale sono adesso negate a diversi settori di manodopera che, pur impegnati in attività produttive di vario tipo (anche se precarie o atipiche) si vedono erodere il diritto alla cittadinanza sociale; "ciò che sperimentiamo (...) è una radicale separazione del lavoro, così concepito, da un sistema di governo dei diritti e della cittadinanza ancora profondamente legato al concetto fordista di impiego" (55). Da un lato l'eccedenza negativa postfordista si presenta con i connotati tipici di una surplus population classicamente intesa, dall'altro lato però essa possiede dei caratteri nuovi. La popolazione di cui è composta non comprende semplicemente i disoccupati tout court, ma anche tutta l'area - in continua espansione - della sottoccupazione e del precariato che, al pari delle persone prive di un lavoro, non hanno, a dispetto della loro produttività, accesso ad una cittadinanza sociale piena. Ormai, infatti, "il riconoscimento del diritto alla cittadinanza, all'inclusione sociale e al reddito è subordinato a un lavoro, inteso come impiego, che non ha più un referente materiale" (56).

Questa sempre più ampia sfera di produttività sociale assiste alla progressiva erosione del reddito e delle garanzie che le agenzie pubbliche del welfare assicuravano al "lavoro", a riguardo il ruolo di paesi guida spetta indubbiamente a Stati Uniti ed Inghilterra, che, già a far corso dagli anni '80, avevano ormai definitivamente avviato una decisa politica di riduzione dell'intervento statale nel campo economico e sociale e di flessibilizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro.

In particolare lo stato si ritira dal campo economico lasciando terreno libero al capitale, soprattutto sul piano dell'utilizzo della manodopera, garantendogli spazi per farne un utilizzo "flessibile" in vista del conseguimento della maggior valorizzazione possibile. Ma soprattutto taglia drasticamente le spese che il welfare costringeva a sostenere per garantire un minimo si sicurezza sociale e di servizi pubblici, una cittadinanza sociale adeguata.

Parlando di welfare utilizziamo il termine in parte impropriamente, anche se gli riserviamo un'estensione del suo campo semantico ormai invalsa. Tuttavia, come indicato, le politiche sociali del xx secolo si sono fondate sulla distinzione fra: social insurance, cui accede ogni persona che abbia un impiego stabile che, attraverso il pagamento dei contributi previsti, si assicura una pensione o contro rischi quali disoccupazione e malattie; e welfare, che riguarda le persone in stato di bisogno (dependents), la marginalità sociale, le cui esigenze di vita dovrebbero essere assicurate dalle elargizioni e dai servizi pubblici (57).

Come giustamente sottolinea Loïc Wacquant (58) "adottando una politica d'erosione sistematica delle istituzioni pubbliche, lo stato abbandona alle forze del mercato e alla logica del ciascuno-per-sé interi settori della società, e in particolare coloro che, privi di ogni risorsa economica, culturale o politica, dipendono totalmente da esso per l'accesso all'esercizio effettivo della cittadinanza". Gli effetti della deriva politico-economica neo-liberista, sono infatti particolarmente evidenti sulle classi sociali più svantaggiate ed in particolare il peso della svolta politico-economica si riversa sopratutto sugli abitanti dei ghetti urbani: vere e proprie zone di confino sociale in cui è relegata la base della piramide sociale, che, negli Stati Uniti ed in Inghilterra, è anche fortemente marchiata sul piano etnico e razziale.

In queste realtà sociali il nuovo ciclo politico-economico non ha fatto altro che determinare un drastico peggioramento delle condizioni di vita: al vertiginoso aumento della disoccupazione, dovuto ai segnalati fenomeni di espulsione della manodopera dal processo produttivo, si è accompagnato un parallelo peggioramento delle condizioni salariali ed un aumento della sottoccupazione e del lavoro a "garanzie zero" - impieghi esclusi dall'accesso al sistema della social insurance, in cui si possono far rientrare la stragrande maggioranza dei posti di lavoro creati negli ultimi due decenni negli Stati Uniti (59).

L'avvio di tali processi di pauperizzazione tuttavia non ha riguardato semplicemente il proletariato statunitense che - come segnalato - si è visto erodere contemporaneamente salario e garanzie sociali annesse. È stato soprattutto il sottoproletariato statunitense a veder precipitare verso il basso le proprie condizioni di vita.

Il sistema di assistenza per le persone in stato di bisogno, cui così faticosamente giunsero le democrazie occidentali è stato infatti oggetto di un durissimo attacco, che nel giro di un paio di decenni ne ha ulteriormente ridotto budget e capacità d'intervento, "alla guerra contro la povertà si è sostituita una guerra contro i poveri, che sono diventati il capro espiatorio di tutti i mali maggiori del paese" (60).

Così - a parte le tecniche "budgetarie" di contrazione del welfare, consistenti nella costante e progressiva riduzione dei fondi destinati all'assistenza (come nel caso del programma AFDC, l'assegno alle madri sole con figli a carico, su cui si fondava l'intero sistema d'assistenza statunitense, o del sussidio ai disoccupati in Inghilterra) - un'efficace strategia ampiamente utilizzata dalle amministrazioni sia in Inghilterra che negli States è il cosiddetto "churning", o "sbattimento", che consiste nell'aumentare esponenzialmente i requisiti per accedere ai sussidi o nel peggiorare sensibilmente la trafila burocratica da seguire, in modo da escludere il maggior numero di persone possibile fra gli stessi aventi diritto. Ma, meglio di questi stratagemmi burocratici, vale il sistema scelto da alcuni Stati federali: quello di tagliare più o meno all'improvviso i contributi assistenziali (61)! A questo quadro si dovrebbe aggiungere poi il livello municipale, le cui politiche di disimpegno sociale sono state ancora più marcate, tanto che per i ghetti delle principali metropoli americane è possibile parlare di "desertificazione organizzata (62)", stante la scomparsa assoluta di ogni intervento volto a migliorare i servizi pubblici (sanitari ed educativi), le infrastrutture, gli alloggi, ecc.

Su entrambe le sponde dell'Oceano Atlantico, insomma, si è avviato un processo di riforma restrittiva del sistema assistenziale che ha progressivamente reintrodotto l'antico principio secondo cui solo i "poveri meritevoli" avrebbero potuto accede ai benefici e tale meritevolezza è stata nuovamente ricollegata a quella responsabilità individuale del singolo per la propria situazione disagiata che con lo sviluppo del concetto cittadinanza sociale si era inteso superare (63).

Tali complessi processi strutturali hanno causato un progressiva marginalizzazione economica ed un'incipiente segregazione spaziale delle nuove forme di povertà, quasi sempre etnicamente connotate sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Il processo ha alimentato ulteriormente gli effetti di emarginazione causati dai meccanismi di pauperizzazione scatenatisi a partire dalla deriva politico economica neoliberista, fino al punto di consentire a qualche osservatore di parlare di "apartheid (64)" o di "isolamento sociale" (65) nei ghetti di quella che è ormai considerata, come vedremo, una vera e propria sottoclasse

In questo contesto il ricorso a settori economici "informali" o "illegali" (fra questi il più fiorente è, inutile dirlo, il mercato della droga), è quasi automatico per chi voglia compensare le conseguenze che il crollo del mercato del lavoro salariato e la dismissione del welfare hanno determinato. Ma, più in generale, c'è anche chi ha parlato di "terzomondializzazione dell'economia del ghetto", individuandone gli indici più evidenti nella "generalizzazione dell'artigianato illegale e del lavoro a giornata; nella moltiplicazione dei piccoli mestieri sottoproletari (straccivendolo, venditore ambulante, raccoglitore di lattine, rivenditore di giornali al dettaglio, guardiano di macchine, fattorino); nella rinascita dei sweat-shops, del lavoro a domicilio pagato a cottimo, e nel fiorire di un ventaglio di traffici più o meno legali - vendita del proprio sangue, prostituzione usura (chiamata loan-sharking), traffico di buoni alimentari o di tessere per l'assistenza sanitaria ecc" (66).

Scomparsi - con la scomparsa della vecchia struttura produttiva basata sulla grande fabbrica, in cui forte era la presenza sindacale - gli antichi canali di socializzazione e le risorse identitarie che le associazioni di lavoratori fornivano un tempo al proletariato urbano, ai lavoratori - e sopratutto ai sottoproletari - statunitensi ed inglesi di oggi residua la sola possibilità di aderire ad una sottocultura di strada fortemente antagonista; mentre i processi di segregazione etnica e l'isolamento in cui si è confinati rendono ancor più facile la maturazione della convinzione di non poter sperare nulla dalla società in cui si vive e la creazione e stabilizzazione di identità fortemente devianti.

Come è stato sostenuto, infatti, "the underclass is the group which combines desolate living conditions and the lack of traditional bonds even of class with low skills and hopeless employment prospect. The result is cynicism towards the official values of a society bent on work and order. The underclass is not a revolutionary force, but one wich will make its presence felt by crime, riots, and also by forming a volatile reserve army of militancy on either extreme of the political spectrum (67)" Come già ai primordi della questione sociale l'antica surplus population, l'odierna sottoclasse possiede solo strumenti prepolitici di rivendicazione sociale: il riot, come forma di reazione violenta generalizzata, e la microcriminalità, che in maniera diffusa ed atomizzata in mille episodi slegati l'uno dall'altro, rappresenta la forma di una sorta di sommossa costante e quotidiana.

Il problema, però, è individuare i supporti ideologici che hanno giustificato la deriva neoliberista e, soprattutto, le sue implicazioni neoautoritarie in termini di controllo sociale, che si manifestano negli elevati tassi di carcerizzazione segnalati (68) e nel ritrarsi dall'intervento nel sociale delle agenzie statali cui corrisponde, come suggerito, il riespandersi dell'intervento penal-poliziesco in chiave di surrogato delle politiche sociali:

Per concludere questo breve discorso vorremmo solo attirare l'attenzione su un dato: l'attrattiva che rappresenta per noi europei il sistema economico americano è dovuta ai suoi elevati livelli di produttività (dei tassi di occupazione si è detto). Tuttavia il processo di "pauperizzazione" che abbiamo descritto dovrebbe perlomeno far riflettere. Esso è espressione, secondo l'insegnamento marxiano, dell'estrema polarizzazione che ormai connota la struttura sociale degli Stati Uniti; "in effetti, i frutti della crescita economica dei due ultimi decenni sono andati a una minuscola casta di privilegiati: il 95 percento del surplus di 1,1 miliardi di dollari prodotto fra il 1979 e il 1996 è finito nelle tasche del 5 percento degli americani più ricchi. Di conseguenza, oggi l'ineguaglianza dei salari e dei redditi, come quella dei patrimoni, ha raggiunto il suo più alto livello dagli anni della Grande depressione" (69).

La criminalizzazione della miseria negli Stati Uniti. Derive del postmodernismo penale

Stati Uniti d'America ed Inghilterra, che per prima ha seguito i cugini d'oltreoceano su questo terreno, hanno - come accennato - smantellato progressivamente il sistema di garanzie sociali che il welfare assicurava. Da un lato ciò si è riflesso sul piano dei rapporti fra capitale e lavoro e delle garanzie sociali che al lavoro vengono assicurate, dall'altro sul piano delle politiche assistenziali agite in favore dei settori ai margini del mercato del lavoro stesso.

Al primo aspetto - al peggioramento cioè delle condizioni esistenziali del proletariato statunitense - abbiamo accennato ed abbiamo anche segnalato come ciò si risolva in una progressiva "pauperizzazione" che determina lo scivolamento di ampi settori della working class verso una condizione sottoproletaria.

Assume quindi una certa importanza capire come sia stata attuata e giustificata la drastica riduzione degli interventi assistenziali negli Stati Uniti e quali risvolti sociali essa abbia avuto; ed a questo proposito verrà in questione tutto quel dibattito sulla cosiddetta underclass che negli anni '80, prima negli Stati Uniti e poi anche in Inghilterra, ha pervaso la questione della riforma dell'assistenza sociale.

Se nel corso del XX secolo la tendenza era stata quella del conseguimento del massimo grado di integrazione sociale attraverso il lavoro, o comunque, attraverso l'intervento compensativo dello stato, che si assumeva concreti compiti di assistenza della marginalità sociale (70); gli ultimi decenni del secolo paiono riproporre oltre al già segnalato avvio di nuovi processi di pauperizzazione e marginalizzazione, una riedizione delle politiche sociali ottocentesche di contenimento e controllo del redivivo «esercito industriale di riserva», "man mano che si disfa la rete di sicurezza (safety net) dello stato caritatevole si tesse la maglia dello stato disciplinare (dragnet), chiamato a rimpiazzarlo nelle regioni inferiori dello spazio sociale (71)".

La svolta nelle politiche economiche e sociali è stata sorretta dal diffondersi di un clima morale adatto a giustificare ed alimentare l'esigenza di una stretta disciplinare sulle classi marginali ed in primo luogo dal ritorno prepotente dell'antica concezione liberale e liberista dello Stato. Fu l'area conservatrice, infatti, ad egemonizzare il quadro politico tanto in Inghilterra che negli Stati Uniti, creando un blocco sociale sufficientemente convinto che quel rugged individualism che ispirava la visione del mondo tanto di Reagan che della Thathcer, sarebbe stato in grado di condurre il sistema economico dei due paesi fuori dalla crisi. Lo Stato si sarebbe dovuto scrollare di dosso ogni responsabilità fino ad allora affidatagli in campo economico e sociale, evitando di intaccare con il suo intervento la libera iniziativa economica. Tanto nel suo ingerirsi nei rapporti fra capitale e lavoro che nel farsi carico dell'esistenza di sacche di povertà, esso alterava pesantemente la dinamica del mercato del lavoro, frenando lo sviluppo e la produttività delle imprese.

Così, ridotto nuovamente a mero tutore del libero mercato, lo Stato riacquista in pieno la sua antica funzione di garante del principio della less eligibility e del ripristino della responsabilità individuale del singolo per la propria condizione disagiata: "individuals must be encouraged to take responsability for their own destiny and those who are unable to cope or who are morally deficient should not expect sympaty" (72).

L'idea della responsabilità sociale nei confronti della povertà sarebbe stata scardinata dal diffondersi di tutta una serie d'opinioni pronte a sostenere decisamente che la povertà e la disoccupazione fossero l'effetto di una deficienza morale dell'individuo più che di cause strutturali. Nel diffondere tali assunti ideologici, fondamentali per giustificare il programma di dismissione delle garanzie sociali assicurate fino ad allora dallo stato, fu centrale il ruolo di intellettuali neoconservatori di diversa levatura, nonché di varie associazioni o fondazioni che ne finanziarono e sostennero la "ricerca". Fu centrale, in particolare, il dibattito creatosi attorno al concetto di "sottoclasse" e soprattutto l'opinione di quanti imputavano l'esistenza di tale categoria di persone ai margini del mercato del lavoro ed esclusa socialmente all'atteggiamento dei poveri stessi, piuttosto che a complessive determinati strutturali (secondo l'accezione da noi utilizzata nel paragrafo precedente).

Una delle prime definizioni in tal senso del concetto di sottoclasse vi comprese al suo interno i poveri percettori di lungo termine di benefici assistenziali; i criminali di strada dediti al mercato della droga; l'hustler dipendente dall'economia informale/illegale; nonché gli ubriaconi, i vagabondi, gli sbandati ed i malati mentali (73). Una tale visione presenta molto in comune con l'idea tipicamente ottocentesca di poter fondere in un'unica categoria, implicante un severo giudizio morale: la povertà, il crimine, l'emarginazione e la malattia; tuttavia in Auletta non è ancora chiaro fino a che punto tali connotati patologici della sottoclasse siano causa o effetto dell'emergere di un simile strato sociale (74).

È il lavoro di Charles Murray, Losing Ground, a non lasciare adito ad alcun dubbio: la povertà torna ad essere strettamente legata all'insufficienza morale dell'individuo. Tale opera riveste un ruolo fondamentale nel dibattito sulla sottoclasse perché fornisce un abito pseudo-scientifico alle politiche che Reagan intendeva portare avanti e, soprattutto, al suo programma di progressivo disimpegno delle agenzie pubbliche nell'assistenza ai settori marginali della società (75). Le argomentazioni portate a suffragio del nuovo corso politico neoliberista, pur se contrabbandate come profonde innovazioni, avanguardia della politica sociale mondiale, suonano sinistramente come un ritorno al XIX secolo. Non ha remore infatti Murray - la cui "opera" è stata sostenuta da un'imponente campagna mediatica che l'ha resa il testo fondamentale nel dibattito scientifico sulla riforma dell'assistenza pubblica - nel sostenere argomentazioni che non è difficile qualificare come malthussiane, asserendo che l'aumento della povertà negli Stati Uniti sia una diretta conseguenza delle politiche assistenziali che dagli anni '60 consentono a tali settori marginali di popolazione di vivere e riprodursi nella deprivazione materiale e nella depravazione morale.

In particolare egli sostenne che tutte le misure pensate per combattere la povertà avessero sortito un effetto diametralmente opposto: aumentare le famiglie monoparentali e la disoccupazione dei giovani afroamericani. Egli, insomma, cercò di dimostrare come il sistema dell'assistenza avesse, eliminando il significato stigmatizzante e penalizzante della dipendenza - che, come visto, è sin dal XVI secolo alla base della politica sociale nell'occidente capitalistico - disintegrato gli stimoli al lavoro e fatto perdere di vista l'antica idea individualistica che la disoccupazione e la povertà siano dovute, non già a fattori economico-sociali, bensì a deficienze individuali. Tale popolazione continua a riprodursi nel disordine morale che la scarsezza di valori religiosi e la riluttanza al lavoro determinano, mentre la carenza di socializzazione alle proprie responsabilità e la debolezza del processo di disciplinamento che il welfare ha determinato, hanno inesorabilmente alimentato una "cultura della dipendenza".

Ma non è tutto! Lo stesso Murray scriverà a quattro mani con lo psicologo Richard Herrnstein (già autore con James Q. Wilson di un volume dall'eloquente titolo: Crime and Human Nature) The Bell Curve: Intelligence and Class Structures in American Life, volume in cui si arriva a sostenere che le condizioni di deprivazione in cui versa la base della piramide sociale americana, siano da imputare ai difetti di quoziente intellettivo riscontrabili in quelle categorie di persone (76). Inutile dire come tutto ciò si riflettesse, per i nostri autori, nei tassi di criminalità e di violenza che il proletariato ed il sottoproletariato statunitense esprimono: slegati dal complesso socio-strutturale in cui si "producono" essi sono «naturalizzati» similmente a quanto non fece l'antropologia criminale rispetto alle "classi (razze) inferiori" nel XIX sec. In quest'ottica "le politiche di tipo sociale sono inutili al fine di migliorare lo stato sociale delle minoranze e ridurne il coinvolgimento in comportamenti criminali, in quanto questi ultimi sono ricondotti a una presunta inferiorità di tipo intellettuale (77).

Nell'opera di gente come Murray (che ispirerà anche il dibattito inglese sulla sottoclasse) ritornano antiche distinzioni fra "cattivi" e "buoni" poveri, torna l'antico concetto di "assistenza restrittiva", l'antica idea di una politica sociale repressiva e stigmatizzante attraverso cui scongiurare l'emergere di una underclass di emarginati, totalmente dipendente dalle sovvenzioni statali. Ma soprattutto torna l'idea dell'esistenza alla base della piramide sociale di una «classe pericolosa» moralmente (o anche biologicamente) inferiore, rispetto al cui disagio economico e sociale lo Stato e la collettività non hanno alcuna responsabilità, se non quella di riattivare un processo di disciplinamento idoneo a stimolare tali individui al lavoro.

Sono tuttavia i lavori di Lawrence Mead (78) a cristallizzare in forma compiuta tale progetto di ridisciplinamento del proletariato urbano. Teorizzatore dei cosiddetti «obblighi di cittadinanza», anch'egli levò un'aspra critica dei vecchi programmi di welfare,ritenendoli eccessivamente permissivi poiché non in grado di costringere i poveri al rispetto dei propri doveri - e segnatamente il sacro dovere di lavorare - consentendogli un'esistenza da parassiti.

Basandosi, anch'egli, sull'assunto che la disoccupazione e la povertà fossero il portato di carenze morali personali e non di fattori strutturali, economici, che esulano dalla portata dell'individuo, egli arriva a teorizzare un vero e proprio paternalismo di stato, asserendo "l'esigenza di uno stato forte che, e come un tutore morale inflessibile, sappia sconfiggere la passività dei poveri attraverso la disciplina del lavoro e il rimodellamento autoritario del loro stile di vita non funzionale e dissoluto: «le politiche tradizionali di lotta contro la povertà adottano un approccio compensatorio, tentando di rimediare al deficit di reddito e qualificazione di cui soffrirebbero i poveri a causa delle condizioni svantaggiate del loro ambiente sociale (...) all'opposto, i programmi paternalistici insistono sugli obblighi. L'idea centrale è che i poveri necessitino non tanto di sostegno, quanto soprattutto di una salda strutturazione» (79)".

Con l'opera di Mead siamo ormai agli anni '90 e le politiche di disimpegno statale dal sociale ormai abbondantemente avviate negli Stati Uniti si consolidano anche in Europa e soprattutto in Inghilterra, dove tengono addirittura a battesimo la "nuova sinistra europea".

Così il cosiddetto workfare - vera e propria forma post-moderna di "assistenza restrittiva" - è l'ultima frontiera nelle riduzioni degli interventi statali a sostegno della marginalità sociale, esso, affiancandosi ai già citati strumenti deflativi, si basa su di un principio molto semplice: l'assegnatario di una sovvenzione è tenuto, se non vuole perdere il sussidio, a dimostrare di aver cercato invano un lavoro; tale onere implica l'obbligo di accettare qualsiasi lavoro, quali che siano le sue condizioni contrattuali, pena l'esclusione dal beneficio. Ma, più in generale il nuovo paternalismo verso i settori marginali si esprime anche in tutte le previsioni che condizionano l'elargizione dei sussidi al mantenimento di una irreprensibile condotta di vita (80).

Quello che sembra emergere è una progressiva tendenza a "trasformare i servizi sociali in strumenti di sorveglianza" (81) sulle classi povere, veri e propri strumenti di controllo indiretto sulla vita degli strati popolari, che per mantenere quanto resta dei sussidi che lo stato elargisce a loro favore sono tenuti al rispetto di rigidi obblighi di condotta e soprattutto ad accettare qualsiasi lavoro venga loro offerto.

Le nuove strategie di controllo sociale si articolano proprio a partire dal mutamento nel paradigma dell'assistenza sociale, i più stretti controlli favoriscono infatti il diffondersi di un nuovo "socialpanottismo" (82) proprio a partire dalle esigenze di ridistribuire con più parsimonia i sussidi che lo stato elargisce, o quel poco di intervento pubblico che ancora residua.

Paradossalmente l'"incasellamento disciplinare" che il welfare state recava quale conseguenza della sua vocazione a farsi carico della problematicità sociale, non scompare (anzi!), nel momento in cui si aspira a ridurre l'intervento nel sociale delle agenzie pubbliche. Tale riduzione, infatti, passa attraverso la capacità dell'amministrazione di individuare i "meritevoli" di aiuto, quindi attraverso un necessario potenziamento dei controlli sulla vita degli strati marginali di popolazione, la cui condotta va valutata sotto ogni profilo.

È in questo quadro che possono essere lette le banche dati informatiche di cui si stando dotando anche paesi europei, avanguardia nella deriva post-moderna del socialpanottismo, prossimi a chiudere in una "tenaglia informatica" tutti gli abitanti dei cosiddetti «quartieri difficili»; condotta morale, situazione familiare, eventuale rispetto degli "obblighi di cittadinanza", ogni informazione utile alla valutazione che l'amministrazione effettua nel decidere se elargire o meno gli interventi assistenziali, è così facilmente accumulabile e reperibile (83).

Al complesso disciplinare creato dal riedito sistema della "assistenza restrittiva" si aggiunge però, per quanti non sono disposti ad accettare le rigide imposizioni che il volto neoliberale e neoautoritario dello stato gli erge contro, un sistematico processo di criminalizzazione della miseria e della disoccupazione, il cui esito è evidente nei tassi di carcerizzazione su cui ci siamo soffermati: "l'istituzione carceraria opera sempre più di concerto con gli organismi e i programmi volti a portare assistenza alla popolazione diseredata" essa "assume un ruolo centrale nel governo della miseria, al crocevia fra il mercato del lavoro dequalificato, i ghetti urbani e i servizi sociali riformati per supportare la disciplina della condizione salariale desocializzata" (84).

La sua è tuttavia una funzione non manifesta, nel senso che a differenza delle antiche poorhouses - che nel XIX secolo abbiamo visto trasformarsi in prigioni nel senso moderno del termine - in cui si entrava a causa dell'esplicita criminalizzazione della condizione di disoccupato (gli "oziosi e vagabondi" di cui abbiamo parlato nella prima parte del nostro lavoro), non è attualmente riscontrabile negli ordinamenti delle democrazie occidentali una fattispecie penale che criminalizzi esplicitamente la miseria e la disoccupazione (anche se, come già segnalato, la locuzione "ozioso e vagabondo" tarderà a scomparire dall'ordinamento penal-poliziesco italiano).

Sarà forse il caso, allora, di provare a chiarire quali sono i supporti ideologici in grado di legittimare il trattamento penale della miseria che lo stato neoliberale sta attuando con progressiva efficacia. Quali linee di politica criminale e quali saperi criminologici ne consentono la praticabilità.

Con gli anni '70, dunque, il clima muterà radicalmente. Al periodo di aspri conflitti sociali e di radicale critica antistituzionle farà seguito un riflusso ideologico conservatore e neoautoritario di cui non si è ancora vista la fine.

La crisi dei «modelli trattamentali» di giustizia penale, aldilà delle verifiche empiriche circa i fallimentari risultati realizzati e delle profonde modifiche strutturali su cui ci siamo soffermati, si è verificata anche a causa delle radicali contestazioni cui tale sistema fu sottoposto. Tali critiche provennero peraltro da direzioni esattamente opposte, nel senso che il loro fondamento politico-ideologico era assolutamente antitetico (85).

Da un lato, infatti, vi erano posizioni - inquadrabili nel convergere degli approcci «costruttivisti» e «garantisti» - che sottolineavano come in democrazia, dove il pluralismo è un valore di per sé, l'idea di imporre modelli di comportamento, o meglio stili di vita, modi di essere, fosse inconcepibile, denunciando inoltre la pericolosa funzione normalizzatrice insita nell'idea stessa del trattamento individuale, il quale peraltro non si vede come possa praticarsi altrimenti che attraverso metodi discriminatori (86). Dall'altro lato però si andavano sviluppando degli approcci al problema del crimine che, se da una parte paiono convergere con lo "scetticismo criminologico" delle correnti più radicalmente antistituzionali e garantiste - dato che nelle opere degli alfieri della «nuova destra criminologica (87)» "al delinquente deprivato, o scarsamente socializzato, o penalizzato dall'essere vissuto in un ambiente ostile, si sostituisce un soggetto sempre capace di scelta razionale (rational choice)" (88) - dall'altro lato esse cominciavano ad esprimere quel sentimento di disprezzo, di distanza, nei confronti di quella underclass che gli ambienti conservatori avrebbero come visto ben presto individuato come «classe pericolosa» (89).

Si andava nuovamente delineando nel sentire comune il profilo di quello che un tempo era il cosiddetto "ozioso e vagabondo": un soggetto che, più che subire il peso di dinamiche strutturali non controllabili, per deficienza morale o intellettuale si auto esclude dal mercato del lavoro, preferendo strategie di sopravvivenza più vantaggiose nell'immediato, quali il ricorso ai sussidi statali o all'attività illegale.

Questo coacervo di argomentazioni criminologiche sulla cui base si fonderà la deriva punitiva delle politiche sociali statunitensi ed inglesi è solo con gran difficoltà districabile in una serie approcci dotati di una qualche coerente matrice teorica (90). Esso, comunque, ruota sempre attorno all'esigenza di potenziare l'efficacia deterrente del sistema penale e, in un'ottica a metà strada tra il deterrente e l'incapacitativo, si basano sull'idea che la prigione possa funzionare nel processo di disciplinamento di tale strato sociale demoralizzato ed abbandonato all'ozio.

Tuttavia, come suggerisce Dario Melossi, anche quando questa «criminologia della rivincita» si presenta apparentemente antitetica sul piano dei presupposti teorici, essa può essere ricondotta ad una comune matrice di fondo, che, nell'insieme, la distanzia profondamente dagli «approcci critici» che si contesero il campo almeno fino alla fine degli anni '60: un profondo disprezzo per l'oggetto della sua analisi, per il deviante (91).

Dato questo minimo comune denominatore i tanti approcci al problema del crimine di stampo conservatore che dagli anni '70 si sono contesi il campo sono stati felicemente distinti in: criminologie dell'altro e criminologie del sé (92), in cui "il criminale o torna a divenire un «altro», un «mostro» diverso da noi per tare ereditarie, psicologiche o educative, che si deve allontanare e contenere o addirittura nei casi estremi, eliminare, oppure, nelle versioni apparentemente più benigne, una realtà da cui si prescinde e dalla quale, in una visione cinica dei rapporti sociali, bisogna soltanto imparare a difendersi" (93).

Criminologie del primo tipo sono ovviamente rappresentate dai lavori dello psicologo Herrnstein con Wilson e Murray cui si è fatto riferimento e, più in generale, sono il presupposto implicito di tutta la citata letteratura sulla sottoclasse. Tuttavia torna un'immagine quasi lombrosiana del delinquente, incapace di autocontrollo e pericolosamente proclive ad assecondare le pulsioni ai facili piaceri, anche nel lavoro A general Theory of Crime, scritto a quattro mani da Michael R. Gottfredson e Travis Hirischi (94).

Le criminologie del secondo tipo al contrario, posta una certa concezione del criminale quale essere profondamente malvagio ed asociale, partono dall'assunto dell'ineluttabilità del crimine per porre l'accento sulle necessità di contenimento e governo dello stesso. Si tratta come è evidente di approcci puramente «tecnocratici» che puntano alla gestione quanto più efficiente possibile di una realtà, il crimine, considerata ineliminabile, rispetto alla quale si pone il semplice problema di ridurre il rischio di vittimizzazione.

È questo il caso dei teorici della cost-benefits analysis (95), per i quali il delinquente è visto come un soggetto in grado di calcolare accuratamente i vantaggi e gli svantaggi che dall'azione criminale potrebbero derivargli ed orientare di conseguenza la sua azione. I delinquenti non sarebbero stati più considerati vittime di loro stessi o di una società profondamente ingiusta, bensì soggetti malvagi che, valutando perfettamente costi e benefici che dal reato gli sarebbero potuti derivare, a causa dell'eccessivo permissivismo del sistema penale trovavano più vantaggioso il comportamento criminale rispetto ai costi ed agli inconvenienti che avrebbe potuto implicare.

In tale prospettiva si tratterà di elevare le controspinte, cioè potenziare la risposta istituzionale, rendendola non solo più intensa ma anche più efficiente, in modo da controbilanciare la spinta criminale. Da un lato attraverso cospicui incrementi dell'afflittività della sanzione penale e ciò ha dato motivo a qualcuno di sostenere che un simile approccio rappresentasse un ritorno a Beccaria (96)tout court; dall'altro per mezzo di un aumento del «controllo situazionale», con l'individuazione e l'eliminazione delle "occasioni" che favoriscono il verificarsi di episodi delittuosi e di vittimizzzione (97).

Le opere degli alfieri della severità penale, come detto, sono comunque sottese da un'immagine del criminale quale soggetto intimamente malvagio, esse rielaborano in termini pseudo-scientifici il sentimento d'ostilità e distanza che l'ambiente conservatore e neo-autoritario prova verso la marginalità sociale e le forme di disordine sociale e delinquenza riferibili a quegli ambienti.

In breve tempo però, tale poco mascherata ostilità, si sarebbe concretizzata in teorie che esplicitamente avrebbero propugnato, più che una semplice severità penale, la "neutralizzazione" di tale pericoloso strato sociale: in piena revanche conservatrice "una penologia di tipo «attuariale» ha riscoperto il valore del vecchio concetto di provenienza positivistica di «pericolosità»" (98).

Tale nuovo indirizzo criminologico, con la correlativa proposta di politica criminale, postula l'utilizzo della pena detentiva non più con finalità retributive, di deterrenza o riabilitative, bensì con l'esclusivo scopo di incapacitare i delinquenti più pericolosi. Conformemente all'idea di fondo che muove le "criminologie del sé" "il suo obbiettivo non è di eliminare il crimine ma di renderlo tollerabile" (99).

L'idea, tipicamente tecnocratica, è quella di migliorare al massimo la capacità sistemica di selezionare i delinquenti pericolosi, neutralizzandoli a dovere, riservando le risposte penali meno afflittive ai delinquenti considerabili meno pericolosi.

Delle due forme proposte: neutralizzazione collettiva (in base alla quale una pena detentiva fissa sarebbe stata applicata a tutti gli autori di un particolare tipo di reato, ritenuto evidentemente sintomo di particolare pericolosità) e neutralizzazione selettiva (100) (in base alla quale le pene detentive più lunge sarebbero dovute essere applicate ai delinquenti ritenuti più pericolosi, indipendentemente dal reato commesso), parve più praticabile la seconda, dato che la prima avrebbe determinato il rischio di un eccessivo sovraffollamento carcerario.

Come è stato giustamente sottolineato "l'uso improprio della cultura e della prassi trattamentale da parte della nuova penologia è incontenibile quanto irresistibile" (101), con la deriva "incapacitativa", infatti, la «nuova penologia (102)» riscopre il classico problema della prognosi di pericolosità, il problema del come riuscire ad operare delle prognosi sul comportamento criminale di un soggetto evitando di incorrere in errate previsioni (103), con tutte le implicazioni di natura etica che un rischio del genere comporta.

La soluzione prospettata da Greenwood consta nell'individuare una serie di circostanze che - a parer suo - consentirebbero di operare tali prognosi con una certa sicurezza nel buon esito dell'operazione (104). Esse peraltro, esprimendo una posizione socialmente emarginata, mero disordine morale o semplicemente una non regolare condotta di vita, non paiono poi tanto dissimili dall'insieme di elementi che già la criminologia classica individuava quale anticamera del delitto e che noi abbiamo inquadrato nel comprensivo concetto di «infrapenalità».

L'individuo pericoloso è tuttavia preso in carico dalle istituzioni penali non in vista di un suo reinserimento sociale, quanto piuttosto quale soggetto ritenuto radicalmente ed ineluttabilmente asociale. La fede nella possibilità di poter operare corrette prognosi di pericolosità determina la presunzione di poter ridurre, attraverso tali strategie incapacitative, il numero complessivo dei reati commessi con un relativamente piccolo dispendio di risorse economiche.Partendo dall'assunto che il più grosso contributo alla consistenza dei tassi di delittuosità è fornito da pochi individui, si presume di poter ridurre l'incidenza di tali tassi attraverso l'individuazione e l'incapacitazione di tali «offensori ad alto potenziale di rischio» (High Rate Offenders).

La razionalità del sistema non è più valutata in relazione al parametro della riduzione delle recidive, piuttosto tale parametro, che in una penalità di tipo correzionale segnalava il fallimento del sistema, nella nuova razionalità tecnocratica indica il fatto che i clienti delle istituzioni penali sono stati correttamente individuati, "l'importanza che la recidiva ha avuto un tempo nel valutare l'efficacia del trattamento correzionale è ora presa in considerazione quale misura del funzionamento del sistema (105)".

L'efficacia del lavoro delle corti penali o del sistema penitenziario non è più valutata in termini di reintegrazione sociale, bensì, tecnocraticamente, in termini di "livelli di produttività" ed efficienza della macchina penale.

"Tutto l'arsenale correzionalistico subisce un radicale ribaltamento di funzione e di senso; il trattamento e la terapia, come l'aiuto, perdono ogni riferibilità nei confronti del fine special preventivo. Il trattamento, la terapia e l'aiuto diventano risorse utili per garantire il governo della questione criminale ai livelli di compatibilità del sistema della giustizia penale. Risorse utili, per differenziare le popolazioni devianti in ragione del rischio criminale, per incapacitare selettivamente i più pericolosi, per articolare lo spettro custodiale, per economizzare le risorse" (106).

La «nuova penologia» non rinunzia a fare riferimento a classici concetti quali quello di pericolosità, non rinunzia all'utilizzazione di una più o meno sofisticata semiologia della tendenza a delinquere, anche se - essendo la carcerazione finalizzata alla mera incapacitazione del soggetto preso in carico, essendo il carcere ormai fine a se stesso e non più mezzo attraverso cui praticare un trattamento sull'individuo - il sapere che lo sorregge prende ad interessarsi più che al criminale stesso, alla gestione del rischio criminalità, "il nuovo sapere criminologico mira a razionalizzare le operazioni del sistema che governa i criminali, non si occupa di criminali" (107).

Una simile prospettiva rende progressivamente obsoleto lo strumento dell'osservazione scientifica della personalità che era affidato ad una equipe di esperti ed il correlativo trattamento individualizzante, posto che, già nella sua originaria formulazione, la teoria dell'incapacitazione selettiva si avvicina molto ad un meccanismo per operare vere e proprie «presunzioni di pericolosità».

Del resto, come è stato segnalato (108), quando tale teoria trova eco fra gli attori istituzionali tende ad essere accompagnata dall'individuazione di precisi criteri attraverso cui effettuare la valutazione di pericolosità, dall'elaborazione di guidelines che possano ridurre i margini di errore; in questo si assisterebbe al progressivo abbandono del metodo «clinico» (individualizzante) a favore di un metodo «attuariale» (deindividualizzante), cioè all'adozione di un metodo non più basato sull'osservazione individuale, bensì su tabelle statistiche che indicano il livello di "rischio criminale" della determinata categoria di soggetti cui appartiene la persona da valutare.

In tal maniera ognuno è iscritto in una "classe" cosiddetta di rischio e presenterà determinati livelli di pericolosità a seconda dell'incidenza di quella classe sul numero dei delitti commessi. Tanto maggiore è il livello di rischio che presenta la classe cui appartiene il soggetto, tanto più severa sarà la pena che il giudice è autorizzato a comminare.

Tuttavia, nella prassi applicativa l'esigenza incapacitativa - ormai molto sentita anche dagli attori istituzionali - tende a scivolare verso parametri presuntivi ancora più rozzi, come la regola - che negli Stati Uniti inizia a prendere il sopravvento su parametri di valutazione più sofisticati - mutuata dal baseball del "trhee strike and you're aut", in base alla quale alla terza recidiva reiterata aggravata si va incontro a pene smisurate, che, anche per reati come lo scippo, possono condurre al carcere a vita (109).

Certo l'incidenza di tali prospettive attuariali nelle effettive strategie di controllo sociale è un dato che andrebbe valutato empiricamente (110), tuttavia ci pare, a prima vista, di poter affermare che tale deriva della «nuova penologia» non faccia altro che rivestire di una presunta evidenza statistica il sentimento di distanza ed ostilità verso quelle che, ormai da più parti, prendono ad essere inquadrate come vere e proprie nuove "classes dangereuses". Come ebbero modo di rilevare alcuni studiosi di Harvard che provarono a verificare la validità emipirica degli schemi di predizione elaborati da Greenwood, "alla base della incapacitazione selettiva vi è la visione specificamente illiberale che le persone differiscano per la loro capacità di commettere reati e questa differenza non è il risultato di complessi processi sociali ma qualcosa di inerente l'individuo" (111).

Come segnalato, la criminologia della revanche riporta in auge echi lombrosiani che credevamo sepolti definitivamente. Svincolata dalla complessità dei rapporti sociali in cui si determina, la criminalità torna ad essere una questione di bassezza morale o, perché no, di inferiorità razziale. Il criminale un individuo pericoloso, malvagio, affetto da qualche deficit, morale, intellettivo, razziale che lo rende inassimilabile al consesso sociale.

Torna insomma il mito della classe barbara, immorale, fuori legge! E non è un caso che la revanche criminologica si accompagni alla revanche sul piano delle politiche assistenziali ed al ritorno dell'immagine di un sottoproletariato abbandonato all'ozio ed al crimine.

Le elaborazioni più sofisticate della «nuova penologia» tuttavia paiono aver inciso relativamente nel determinare il nuovo corso di politica criminale avviato dagli Stati Uniti ed in Inghilterra. La giustificazione del ricorso smodato alla sanzione detentiva non avviene tanto dall'"alto", grazie a sofisticate elaborazioni operate da ristrette élite intellettuali, sono piuttosto le elite politiche che, articolando un discorso diretto con i propri elettori, fanno della penalità, della "sicurezza", l'oggetto di uno scambio politico, favorendo in questo una legittimazione dal "basso" (giustamente definita populista (112)) dell'ipertrofia carceraria, cui successivamente si sovrappongono giustificazioni col piglio della scientificità.

Ciò avviene nel quadro di quella «democrazia d'opinione», in cui più dei presupposti ideologici e dell'organicità della rappresentanza politica, conta l'enfasi "massmediatica" nel raccogliere consensi. In tale contesto tutta la politica criminale è impostata su sentimenti elementari quali «paura», «insicurezza», «rancore», che trasformano la penalità in una risorsa politica di centrale importanza per la conquista del consenso, secondo il classico assunto durkheimiano, che vede nel diritto penale e soprattutto nell'individuazione del «nemico pubblico» una fondamentale funzione coesiva.

Esemplificativo è, ancora, il caso dei paesi anglosassoni dove la diffusione di una "nuova ragione penale" - idonea a giustificare il rinnovato ruolo dell'amministrazione carceraria nella gestione della miseria e della marginalità sociale che la "destrutturazione sociale" seguita alla dismissione del welfare ed alle ristrutturazioni produttive ha determinato - è passata soprattutto attraverso la capacità delle forze politiche conservatrici di egemonizzare il dibattito pubblico sui problemi posti dalla nuova marginalità sociale ed a costruirlo in termini di delinquenza e criminalità, aiutate in questo anche da agenzie pubbliche e private ed, in ultimo, da intellettuali di varia levatura (113).

Si pensi alle politiche di law and order attraverso cui la destra conservatrice riuscì ad egemonizzare il panico morale scatenatosi con la crisi economica e l'aumento dell'insicurezza e della conflittualità sociale. Spostare sul piano del "vocabolario punitivo" il dibattito pubblico - grazie al continuo ricorso all'immagine di un'ondata di disordine e criminalità che minaccia la civile società, alimentata dalla presenza di una classe pericolosa che necessita di essere costretta al lavoro anche attraverso un aumento della severità e dell'efficacia deterrente del sistema penale o, comunque, incapacitata e resa innocua - consentì, infatti, un doppio risultato: da un lato consentì una facile conquista del consenso dei ceti medi, fra i più esposti agli effetti della deriva politico economica neoliberista e delle problematicità sociali che essa scatenò; dall'altro consentì di avviare un pesante processo di disciplinamento del proletariato alle nuove condizioni esistenziali, giustificando lo smodato ricorso alla sanzione carceraria e la spaventosa selettività del sistema, con il ricorso all'immagine dell'esistenza di una "classe pericolosa".

La propaganda della destra riuscì così ad equiparare nel sentire comune tutte le forme di conflittualità sociale scatenatesi: dalle proteste operaie al disordine urbano, tutto, ormai, veniva imputato al declino morale della classe lavoratrice. E tale ribaltamento coinvolse certamente anche il sentire delle corti penali e, più in generale, tutti gli attori del controllo sociale, che presero ad associare strettamente disoccupazione, povertà e crimine (114).

In questo quadro, il ruolo dell'intellettuale non ne risulta affatto sminuito, poiché è sempre ad esso che ci si rivolge per ricoprire di un velo di scientificità le proposte di politica criminale che assecondano le pulsioni scatenate dalle efficaci campagne di stampa. Ma ciò nulla toglie al carattere populista a tali operazioni di vero e proprio marketing politico.

Si pensi al ruolo che nella diffusione dell'ideologia della "zero tollerance" ebbero le varie agenzie di consulenza ed i rispettivi "pensatori" che, come visto, si erano già resi protagonisti nel legittimare le politiche di disimpegno dal sociale dello stato: "tutti coloro (...) che ieri militavano, con l'insolente successo che si può constatare sulle due rive dell'atlantico, a favore di «meno stato»per quanto riguarda i privilegi del capitale e l'utilizzo della manodopera, esigono oggi con altrettanto ardore «più stato» al fine di mascherare e contenere le conseguenze sociali deleterie, nelle regioni inferiori dello spazio sociale, della deregolazione delle relazioni salariali e del deterioramento delle garanzie sociali" (115).

Così il Manhattan Istitute, cui si deve il merito di aver lanciato Murray ed è attualmente la principale «fabbrica di idee» della nuova destra, che avviò nei primi anni '90 una serie di conferenze sul tema della «qualità della vita», cui partecipò anche Rudolph Giuliani, che sul tema della sicurezza urbana avrebbe basato tutta la sua vittoriosa campagna elettorale del 1993. In particolare Giuliani sarebbe diventato l'alfiere incontrastato della «tolleranza zero» ed uno dei principali fautori del processo di esplicita criminalizzazione della marginalità sociale, delegata al fido W. Bratton, capo del N.Y.P.D. durante la reggenza Giuliani (116).

A supporto delle proprie proposte di politica criminale, tuttavia, l'equipe di Giuliani non mancò di appoggiarsi all'elaborazione di un qualche autorevole esperto. Venne infatti chiamata in causa la teoria del "vetro rotto", elaborata circa un decennio addietro da quello che Wacquant definisce "il pontefice della criminologia conservatrice statunitense": James Q. Wilson. Essa si adattava, infatti, alla perfezione ai programmi di eliminazione del degrado e dell'inciviltà, fondati sull'assunto che fosse questo il terreno di coltura della delinquenza grave: l'universo della marginalità sociale, dei microcriminali, dei mendicanti e dei senzatetto. Fu infatti questa realtà sociale ad essere investita frontalmente della politiche securitarie di W. Bratton e del suo, potenziato, N.Y.P.D.

Anche C. Murray e L. Mead, del resto già diffusori nel mondo del loro credo sull'assistenza restrittiva, ebbero modo di propagandare all'estero (in una conferenza tenuta presso l' Istitute of Economic Affairs in Inghilterra) le politiche criminali "neutralizzative" già ampiamente avviate nel loro paese, ciò sottolineando quali risultati in termini di riduzione del tasso di criminalità abbia dato la nuova strategia, consentendo di incapacitare molti pericolosi criminali. W. Bratton sarà poi ospitato dall'I.E.A., attento divulgatore della dottrina della tolleranza zero, e ribadirà come le agenzie repressive per ottenere significativi risultati debbano indirizzarsi verso comportamenti di per sé non delinquenziali, ma considerati anticamera del crimine (quella che abbiamo chiamato «infrapenalità»): "le forze dell'ordine in Inghilterra e negli Stati Uniti sono sempre più concordi nel ritenere che comportamenti criminali e proto criminali (subcriminal) come lo spargimento di rifiuti, gli insulti, il graffitiamo e i vandalismi, devono essere decisamente repressi, per impedire che possano svilupparsi comportamenti criminali più gravi" (117)

La nuova "doxa punitiva" si diffonde ormai in Europa (e lo vedremo per l'Italia) passando attraverso l'Inghilterra, dove coinvolge anche i governi laburisti, i quali non hanno remore nel dichiarare incondizionata adesione alla deriva punitiva dell'assistenza sociale: "è importante affermare a chiare lettere che non siamo più disposti a tollerare le infrazioni minori. Il principio di base, d'ora in avanti, sarà questo: si, è giusto essere intolleranti nei confronti dei senzatetto che vagano per le strade" (118).

L'ossessione securitaria si diffonde incontrastata sorretta da una teoria criminologica che abbandona esplicitamente gli ideali del "welfarismo penale" - riabilitazione e risocializzazione - per rifunzionalizzare l'intero apparato penale (compresi probation e parole, che rappresentano i tipici esempi dell'ideologia trattamentale e risocializzante praticata attraverso lo strumento della decarcerizzazione) a finalità di mero controllo e neutralizzazione. È questa la penologia tecnocratica che abbandona ogni finalità special-preventiva positiva, in vista della gestione del «rischio criminalità» e delle «classi» che ne sono portatrici, che adotta quali principali strumenti d'azione neutralizzazione e controllo situazionele. "L'efficacia dell'azione punitiva non è più ormai in ragione di telos esterni al sistema (...) ma in ragione di esigenze intra-sistemiche" (119).

Verso un nuovo paradigma di controllo sociale?

Il discorso che abbiamo brevemente svolto a proposito delle derive del postmodernismo penale nelle società contemporanee - ed in particolare a proposito delle nazioni guida in tali processi evolutivi, la cui esperienza non manca di farsi sentire con la sua influenza sino alle "province" più remote dell'Impero, qual è l'Italia - ci ha consentito di rilevare alcuni mutamenti di non poco conto che il mondo "sviluppato" sta conoscendo a livello della sua struttura sociale.

A quello che sembra ormai il tramonto di un intero modello produttivo (il sistema basato sulla centralità della grande fabbrica fordista) fanno necessariamente da contr'altare delle nuove articolazioni nei rapporti sociali corrispondenti e negli ordinamenti che a tali rapporti danno una forma giuridica, cristallizzandoli.

Tali mutamenti sono ovviamente sorretti dallo sviluppo di forme culturali ed intellettuali in grado di legittimarli e giustificarli ed a tal proposito ci siamo sommariamente soffermati sulla vulgata neoliberista che, incontrastata, si diffonde ormai in lungo e in largo fra le due sponde dell'Atlantico.

Sul piano più specifico del controllo sociale alcuni recenti contributi interpretativi (120), seppur con la cautela dovuta quando si cerca di descrivere tendenze ancora in atto, hanno provato ad interpretare le evoluzioni nelle politiche criminali che sorreggono i sistemi penali contemporanei nel quadro dei segnalati mutamenti strutturali, ritenendo di poter individuare nelle nuove strategie (in merito alle quali gli Stati Uniti rappresentano un'avanguardia indiscussa) un radicale mutamento di paradigma rispetto al passato.

Sarebbe, in particolare, in atto un processo che porterà in un futuro più o meno prossimo al completo superamento di quella che abbiamo identificato come «società disciplinare».

Secondo quest'interpretazione, infatti, i meccanismi disciplinari - in quanto fondati su un sapere individualizzante preordinato all'inserimento controllato dei corpi nell'apparato produttivo - nel quadro strutturale delineato dal regime postfordista perderebbero ogni ragione d'esistere. Le mutate esigenze della produzione, infatti, determinano un quadro strutturale nelle società contemporanee connotato non già da una "carenza" di forza lavoro, bensì da una sua strutturale "eccedenza", il che renderebbe superate le esigenze di disciplinamento e creazione di una forza lavoro consona alle esigenze del processo produttivo ed ai bisogni di valorizzazione del capitale. Cesserebbe di darsi, in questo quadro, ogni ragione d'esistenza dei meccanismi disciplinari e della relazione sapere-potere che li sorregge.

Il controllo di tali eccedenze postfordiste avverrebbe, in particolare, attraverso meccanismi che rifuggono dall'utilizzazione di saperi individualizzanti in grado di articolare la risposta a seconda delle esigenze di risocializzazione che il singolo soggetto presenta (121), limitandosi piuttosto all'accantonamento, alla neutralizzazione di masse più o meno ampie di individui selezionate in ragione del loro supposto livello di pericolosità (122).

L'autore a questo proposito conclude asserendo che ciò che connota i meccanismi di controllo sociale della postmodernità è il loro essere fondati su di un non-sapere, appunto perché, limitandosi allo "stoccaggio" di strati più o meno ampi di popolazione eccedenti senza porsi il problema di un loro reinserimento sociale, renderebbero tutto il complesso di conoscenze su cui si basavano i trattamenti "risocializzanti" - i quali, dunque, costituirebbero «il» tratto peculiare del nesso sapere-potere disciplinare - destinato ad una pronta obsolescenza (123).

L'idea del superamento dei meccanismi disciplinari ci pare tuttavia problematica da sostenere sotto diversi profili.

In primo luogo c'è da sottolineare che le ristrutturazioni avvenute all'interno del sistema di produzione capitalistico, se da un lato sembrano aver definitivamente sepolto il cosiddetto "operaio massa" che caratterizzava il regime di produzione della grande fabbrica fordista (e con esso l'esigenza di adattare ai ritmi di quel modello produttivo un gran numero di individui), sostituendovi figure professionali nettamente più specializzate e, conseguentemente, più autonome nell'organizzarsi i tempi ed i modi della loro prestazione lavorativa - che d'altra parte non è minimamente paragonabile alla meccanica ripetitività delle operazioni manuali cui erano costretti gli operai di vecchia generazione - avviando un deciso processo di "riqualificazione" del lavoro operaio, sempre più equiparabile al lavoro impiegatizio. Dall'altro lato, "la tendenza all'innalzamento della qualificazione del lavoro e al superamento delle divisioni gerarchiche riguarda soprattutto le imprese di medio-grandi dimensioni dei settori industriali avanzati. Questo non esclude, quindi,la persistenza di fenomeni di dequalificazione e precariato del lavoro diffusi in altri settori e presso altre fasce dimensionali d'impresa" (124). Inoltre l'enorme espansione registrata nel settore dei servizi - che in Italia già nel 1991 contava circa 12.800.000 di impiegati a fronte dei 6.900.000 impiegati nel settore industriale (125) - secondo alcuni osservatori avrebbe incrementato l'universo del lavoro precario e della sottoccupazione, che per molti individui assume ormai il carattere di una duratura prospettiva di vita, cui è difficile sperare di sottrarsi attraverso l'accesso ad un tipo d'impiego stabile e garantito...Al quale, peraltro, pare sia stata già fabbricata la tomba (126).

Com'è stato giustamente rilevato, il riassestarsi dei meccanismi di controllo sociale ed, in particolare, la loro stretta sulle classi marginali "esprime una politica di criminalizzazione della miseria funzionale all'imposizione della condizione salariale precaria e sottopagata come obbligo di cittadinanza e alla concomitante riformulazione dei programmi sociali in senso punitivo" (127); ed è proprio a partire dalla riformulazione in senso restrittivo dei diritti di cittadinanza che si pone l'esigenza per la stessa stabilità del sistema sociale di un «ridisciplinamento» della forza lavoro. In particolare ciò riguarda quella che qualcuno ha identificato come nuova "classe operaia in formazione" (128) e qualcun altro tende a chiamare "proletariato postfordista" (129), il quale, lo si chiami come si preferisce, dev'essere socializzato ad una condizione di cittadinanza di seconda classe sul piano delle garanzie sociali e del reddito.

Ad primo sguardo, dunque, non sembrerebbero scomparse le esigenze disciplinari. Il passaggio al postfordismo porrebbe piuttosto in termini rinnovati tali esigenze rispetto alla fase welfarista-fordista. A nostro avviso, infatti, a far corso dagli anni '70 si sono determinati dei mutamenti tanto sul piano strutturale che sul piano culturale, i quali hanno decisamente concorso a far si che le attuali esigenze di disciplinamento sociale contemporanee fossero soddisfatte attraverso un rinnovato vigore di quello che abbiamo nella prima parte definito come «polo negativo» dei meccanismi disciplinari. In breve: il nuovo ciclo politico-economico «neoliberista» e «neoautoritario» sembrerebbe restituire vigore a pratiche penali invalse nella fase "liberista" delle società occidentali, durante il XIX secolo.

In questo, peraltro, è possibile intravedere il funzionamento del classico principio della less eligibility: al crollo della cittadinanza sociale deve far seguito un parallelo processo di riassestamento al "ribasso" delle pratiche di controllo sociale. Condizioni di vita e di lavoro più dure devono essere rese appetibili (appunto maggiormente «eleggibili») rispetto ad una situazione di "dipendenza" dai servizi sociali (che, come visto, tornano a distanza di un secolo a riassumere i tratti punitivi che avevano progressivamente - nel passaggio dalle società liberali ai sistemi di welfare -perso) o, peggio ancora, rispetto alle possibilità di sopravvivenza offerte dai mercati o dalle attività illegali.

Troppo morbide, in questo quadro di ridisciplinamento degli strati sociali più bassi, si sarebbero rivelate le strategie penali "decarcerizzanti" o volte alla reintegrazione sociale. Il recupero dell'efficacia deterrente del sistema di controllo penale avviene, infatti, attraverso la riattivazione (o se si vuole l'espansione) del polo disciplinare negativo, meramente neutralizzante, e la tendenza all'inasprimento del regime carcerario (130).

Ci pare, inoltre, impossibile ragionare su tali meccanismi neutralizzativi - che restano pur sempre un'articolazione interna allo spettro disciplinare - prescindendo dal nesso sapere-potere e ciò per diverse ragioni.

Asserendo, infatti, che il potere nelle società contemporanee si fonda su di un non-sapere si priva inspiegabilmente il processo di egemonizzazione del dibattito pubblico attraverso le categorie di criminalità e pericolosità - meccanismo fondamentale perché, tanto più nelle società contemporanee, che qualcuno ha autorevolmente definito società dell'incertezza (131), consente di costruire capri espiatori di comodo verso cui canalizzare ansie, insicurezze ed aspettative frustrate di una parte sempre maggiore dello strato sociale - della sua linfa vitale: i saperi sul crimine.

Questi, come ha evidenziato l'analisi del caso degli Stati Uniti d'America e dell'Inghilterra, assumono un ruolo di primo piano nel recente dibattito sviluppatosi attorno al problema della criminalità dei ceti marginali e della cosiddetta "sicurezza urbana" (132), posto che tende a diffondersi e radicarsi nel senso comune un'interpretazione delle statistiche penitenziarie e del sentimento d'insicurezza di stampo "neo-positivista". Sempre più spesso, infatti, nell'opinione pubblica, ma anche - come visto - nei discorsi accademici, si tende a perdere di vista la distinzione tra paura in astratto (relativa ad un sentimento d'inquietudine generale, piuttosto che alla specifica paura di incorrere in un qualche episodio di vittimizzazione) e paura in concreto (riferibile invece all'effettiva paura di restare vittima di un reato), ricollegando meccanicamente l'insorgere del sentimento d'insicurezza ad una presunta recrudescenza della criminalità e quindi ad un automatico aumento della cosiddetta paura in concreto. A riguardo è fondamentale la lettura del dato statistico, poiché simili interpretazioni del sentimento d'insicurezza, basano su questo la propria evidenza e sulla base dello stesso arrivano a costruire tutta un'eziologia criminale e complesse argomentazioni sulla particolare propensione a delinquere dei soggetti maggiormente colpiti dall'attività di controllo sociale.

Viceversa la grezza evidenza numerica, il dato statistico, andrebbe sottoposto ad un attento lavoro di «decostruzione» poiché esso, rappresentando, piuttosto che il riflesso meccanico di una realtà oggettiva, il frutto dell'attività delle agenzie di controllo sociale, è un dato condizionato da tutto quell'insieme di fattori che contribuiscono alla "costruzione sociale del sentimento d'insicurezza" e della criminalità di quanti sono ritenuti i responsabili di tutti pericoli da cui i cittadini onesti si sentono minacciati (133).

È chiaro dunque come l'insicurezza vada studiata in rapporto a fattori diversi dalle semplici statistiche sulla criminalità, essa va correlata piuttosto a tutto quell'insieme di fattori in grado di mutare la percezione che gli individui hanno della realtà che li circonda: come i mutamenti di congiuntura politico-economica, gli sconvolgimenti sociali che alterano la struttura economica ed i riflessi sul quadro politico-culturale che hanno i mutamenti strutturali (fra cui, ovviamente, anche i saperi sul crimine, l'immagine sociale della criminalità dominante).

In quest'ottica il crescere del sentimento d'insicurezza nelle metropoli contemporanee è il portato tanto della perdita di quella che viene chiamata «sicurezza ontologica» - legata al rapido mutare dell'ambiente che circonda l'individuo, con tutto il bagaglio di abitudini e familiarità relazionali che si porta dietro - tanto del deterioramento delle strutture del welfare, la cui riforma in senso neo-liberale e restrittivo sta progressivamente sradicando le reti protettive che fornivano stabilità all'esistenza individuale (134).

Tali fenomeni sono soprattutto evidenti nell'esplosione del sentimento d'insicurezza e di paura fra le classi sociali che più di altre stanno subendo i costi della ristrutturazione politico-economica: le categorie più esposte ai fattori di cambiamento, più precarizzate nella loro esistenza, tendono ad articolare la loro pulsione irrazionale, la loro insicurezza, nel senso di un aumento della repressione e dell'esclusione sociale dei soggetti già precipitati (o sul punto di precipitare) nel baratro della marginalità sociale. Il tipico canale della richiesta politica di cambiamento, la strada delle rivendicazioni di tipo "economico, sanitario, occupazionale, rivolte allo stato sociale" (135), risulta così completamente ostruito dalla stereotipizzazione in termini di delinquenza e criminalità del dibattito sulle problematicità sociali poste dalla deriva neo-liberista.

Inoltre, la canalizzazione di tali sentimenti d'insicurezza verso le agenzie poliziesche, non ha il solo effetto di confermare gli stereotipi, riproducendoli nella realtà statistica, ma anche quello di aumentare ulteriormente le spinte verso un governo repressivo delle tensioni sociali, poiché i riflessi statistici dell'azione penal-poliziesca - e le interpretazioni di stampo «neo-positivista» che se ne offrono - incrementano ulteriormente la spirale dell'insicurezza. È questo, peraltro, il tipico meccanismo di funzionamento dei processi d'egemonizzazione e costruzione del consenso attraverso cui le elites politico-economiche dominanti riescono a dirottare insofferenze e recriminazioni che potrebbero dirigersi nei loro confronti - se solo la base della piramide sociale acquisisse una coscienza autonoma dei termini della questione - verso un gruppo subalterno, costruendolo come gruppo sociale destabilizzante e pericoloso per l'ordine. "In entrambi i casi la colpa è sfruttata come risorsa politica, cioè diretta a procurare vantaggi in termini di potere" (136) e ciò soprattutto nei periodi di crisi sociale, poiché tale meccanismo (che è quello tipico di ogni stereotipo criminale) sposta il dibattito pubblico su di un piano di discorso che, attraverso la creazione di una sorta di "panico morale" (cioè la creazione di un allarme attorno ad un determinato problema idoneo a convogliare ansie e paure), privilegia la criminalizzazione e la stigmatizzazione delle categorie sociali più vulnerabili, assunte quali responsabili del crescente senso d'insicurezza.

I saperi sul crimine, protagonisti assoluti in tali processi di egemonizzazione del dibattito pubblico, continuano - anche nel quadro del processo di criminalizzazione della miseria e dell'esplosione del problema «sicurezza urbana» cui abbiamo assistito nell'ultimo quarto del secolo XX - ad esercitare la loro importantissima funzione di "chirurgia sociale", che, nelle società contemporanee, significa separare - impedendo che si costruisca una coscienza comune circa la loro posizione sociale rispetto alle nuove frontiere del processo di produzione di plus-valore - quanti accettano il regime di lavoro flessibile, precario, a "zero garanzie" e quanti preferiscono dirottare le proprie energie verso il fiorente "terziario illegale" dei bazar urbani (137).

È chiaro, infatti, che affinché la cosiddetta "eccedenza negativa postfordista" accetti il suo ruolo - fondamentale per le attuali esigenze di valorizzazione del capitale - di forza lavoro sfruttabile in maniera flessibile ed a costi ridottissimi, sono sempre fondamentali quei saperi sul crimine che si condensano in uno stereotipo criminale in grado di spostare i problemi posti dalle nuove conflittualità sociali (determinate in primo luogo dal vuoto di garanzie sociali che accompagna tale iperflessibilizzazione, dal deficit di cittadinanza sociale che ormai connota ampi strati della stessa forza lavoro) su un piano di discorso relativo a "criminalità e pericolosità". Tutto ciò realizza in pieno quella che già Foucault aveva indicato come la funzione del concetto di "delinquenza": la separazione delle plebi proletarizzate (o neo-proletarizzate, visto che si tratterebbe di un nuovo proletariato) dalle plebi non proletarizzate; le quali tendono a scivolare (quando la loro pulsione alla ribellione non è sufficientemente incanalata verso forme di protesta maggiormente consapevoli) verso mercati del lavoro informali o illegali cui devolvere la soddisfazione delle loro aspirazioni frustrate.

Ci pare inoltre troppo rigida l'identificazione del concetto di "sapere" con una pratica istituzionale volta all'educazione ed al disciplinamento degli individui - posto che quando si parla di «saperi individualizzanti» pare si faccia appunto riferimento a tutte quelle pratiche istituzionali che vedevano coinvolti, in varia maniera e con varie responsabilità, dei "professionisti della risocializzazione".

È infatti chiaro quanto una simile nozione di "sapere" appaia riduttiva - pur prescindendo dal fatto, già segnalato, che anche una mera "neutralizzazione", tanto più se aspira ad essere "selettiva", necessita di qualche strumento concettuale attraverso cui operare (ma sopratutto attraverso cui giustificare agli occhi dell'opinione pubblica e dei soggetti che più di altri potrebbero vivere situazioni di empatia con i selezionati) la selezione stessa. Essa, riferendosi ai saperi dei "professionisti della disciplina" espunge dal suo campo semantico saperi (anche parecchio formalizzati) che non si risolvono immediatamente in una pretesa terapeutica, ma puntano piuttosto verso strategie, per così dire, "chirurgico-eliminative" (ciò che pare connotare le strategie contemporanee di controllo sociale). Inoltre espunge dal suo campo anche quell'immensità di «saperi pratici» o «non teoretici» che in concreto contribuiscono in misura non indifferente a creare l'"immagine sociale dominante di criminalità" (cui spesso seguono, non precedono, i saperi più formalizzati) (138).

Da un altro punto di vista è certamente innegabile che la razionalità tecnocratica della criminologia "attuariale", privilegiando il dato statistico, quantitativo, parrebbe eliminare in via definitiva l'intervento dei saperi individualizzanti (l'analisi qualitativa, clinica, sul singolo individuo) nel controllo istituzionale della criminalità. Tuttavia gli stessi rapporti dell'Home Office inglese - in cui meglio si esplicata in un discorso istituzionale la deriva attuariale - paiono semplicemente esprimere l'esigenza di offrire parametri più vincolanti per un potere discrezionale che - evidentemente - le corti già possedevano: il potere di selezionare i clienti del sistema penale in ragione del loro supposto livello di pericolosità (139). Ciò che è stato individuato con il termine "attuariale", inoltre, ci appare più una tecnologia che potrebbe essere applicata al sistema penale in vista di una sua maggiore razionalizzazione, che il meccanismo che ha consentito quella svolta nel "ciclo punitivo" seguita alla svolta nel "ciclo politico-economico" che ha riportato in auge la propensione del sistema di controllo formale alla mera neutralizzazione con funzione di difesa sociale.

Tale funzione piuttosto pare al momento essere svolta per mezzo dell'influsso che una certa visione degli strati sociali subalterni - costruitasi nei paesi anglosassoni grazie a tutto il dibattito sulla underclass che, rielaborando in termini ideologici un certo sentimento diffuso, un certo stereotipo criminalizzante proveniente dagli strati più profondi della società civile, ha fatto regredire tutto il dibattito su questione sociale e criminale ai suoi termini ottocenteschi - ha sull'esercizio del potere discrezionale/dispositivo che il sotto-sistema penale di polizia offre alle agenzie di controllo sociale (140)

Così è nel caso della jail, che equivale al nostro carcere preventivo, che è andata perdendo il suo carattere di istituto con finalità endoprocessuali per acquisire una spiccata propensione poliziesca ed un ruolo centrale nel gestione della "plebaglia", delle nuove classi pericolose (141). Essa in ordinamenti come l'italiano, dal radicato carattere poliziesco, ha sempre funzionato quale mezzo di difesa sociale contro le classi pericolose affidato alla discrezionalità di un organo atecnico sotto il profilo criminologico. La magistratura, infatti, in questi casi fa esercizio del potere discrezionale affidatole ricorrendo alle visioni stereotipe del crimine diffuse socialmente, le quali sovente rimandano all'idea dell'esistenza di una classe pericolosa, consentendo così che la selettività del sistema, più che per mezzo di un vero e proprio esame "clinico", abbia a realizzarsi grazie a tipizzazioni dallo spiccato carattere classista ed, in certi casi, razziale.

Per altri versi invece, la stessa tabella d'indici prospettata dal padre della «selezione incapacitativa», P. Greenwood, per mezzo della quale individuare i soggetti più pericolosi, pare - come già rilevato - non rinunciare all'esigenza di valutare le caratteristiche specifiche dell'individuo preso in carico, tendendo piuttosto a formalizzare dei criteri attraverso cui valutarne in via presuntiva la pericolosità.

In particolare poi, sono indicate una serie di circostanze che vengono a costituire nel complesso una sorta di "antecedente infraliminare della penalità". Tutta una serie di comportamenti di per sé non valutabili penalmente, ma, nell'insieme, idonei a legittimare prognosi sfavorevoli. L'infrapenalità - cioè l'individuazione di elementi a partire dai quali valutare la persona indipendentemente da un suo comportamento penalmente sanzionabile - è una sfera della vita individuale su cui, da sempre come visto nella prima parte, sono chiamati a concentrarsi gli attori istituzionali di sistemi penali sottesi da una concezione "sostanzialista" della devianza e conseguentemente costruiti in maniera, più o meno pregnante, sul paradigma dell'autore o basati su un'epistemologia dell'induzione giudiziaria poco solida.

L'infrapenalità rappresenta, peraltro, il campo tipico su cui fa presa quello che abbiamo identificato come potere normalizzatore, un potere nell'ambito del quale sono i saperi sul crimine (siano essi di stampo teoretico o meno) a contribuire all'identificazione dei devianti - e ciò indipendentemente dal fatto che siano destinati ad un trattamento "terapeutico" finalizzato al loro "reinserimento" sociale o, piuttosto, meramente incapacitati.

Probabilmente la rilevanza particolare che viene attribuita a quelli che Alessandro De Giorgi chiama "saperi individualizzanti" può essere dovuta alle seguenti ragioni: in primo luogo essa è dovuta ad una certa lettura dell'opera di Foucault secondo cui lo sviluppo di una finalità disciplinare e correzionale della pena parte dalla fase esecutiva (: "regno del non diritto"; in contrapposizione alla fase commisurativa: "regno del diritto") ed in questa dispiega principalmente i suoi effetti, alimentando selettività ed incertezza del diritto penale. In secondo luogo (ed è circostanza determinata dalla prima) potrebbe essere dovuta ad una interpretazione riduttiva del meccanismo disciplinare: se infatti per disciplinare s'intende il sistema che si pone una finalità special-preventiva positiva, cioè di reintegrazione sociale dei suoi "clienti" attraverso il trattamento penitenziario, allora è evidente che il tramonto del welfare e dell'utopia correzionale, che in quel sistema sociale si è espressa al meglio delle sue potenzialità, è il tramonto della società disciplinare tout court.

Tuttavia, come accennato, è riduttivo circoscrivere il funzionamento dei meccanismi disciplinari alla sola fase esecutiva. Non è infatti solo con l'osservazione scientifica della personalità del condannato operata dai professionisti del trattamento penitenziario che si esaurisce il meccanismo disciplinare (142).

Parrebbe insomma più corretto sostenere che la crisi del welfare abbia portato ad una crisi della special-prevenzione positiva, che rappresenta solo uno dei poli dei meccanismi disciplinari. In sostanza il suo polo negativo, neutralizzante, avrebbe assunto un rinnovato vigore e, appoggiandosi - come da secoli ormai avviene - sul vasto strumentario di polizia (143) (nel funzionamento del quale il nesso sapere-potere assume come visto ancora tutta la sua rilevanza), svalutato le strategie correzionali (e con esse il ruolo dei professionisti del trattamento risocializzante), relegando sempre più il carcere ad una funzione di mero contenimento.

All'ideologia correzionale pare ormai residuare un ruolo di mero strumento di "marketing burocratico" (144), campeggiando solo nelle parole degli attori istituzionali (e questo solo dove si ha ancora il pudore - o dovremmo dire l'ipocrisia? - di mascherare la funzione che ormai residua al carcere).

Incalza dunque la nuova funzione del sistema penale, il quale tende a fare un uso sempre più smodato delle strategie poliziesco-neutralizzative ed, in questo quadro, ai saperi sul crimine resta il ruolo di legittimare un sistema sempre più scopertamente selettivo e discriminatorio nei confronti della marginalità sociale, costruendola come strato sociale barbaro, immorale, fuori legge...votato ineluttabilmente al delitto.

Sembra, insomma, che le strategie di controllo sociale che hanno caratterizzato l'ultimo quarto del XX secolo si siano progressivamente riassestate su canoni di funzionamento che ricordano straordinariamente le pratiche del XIX secolo. Ciò, negli Stati Uniti e nella stessa Inghilterra, si evidenzia nel tipo di tecniche preventiveutilizzate: tutte tese alla prevenzione situazionale (145), all'azione sull'ambiente fisico in cui s'intende conseguire una significativa riduzione degli episodi di criminalità (o comunque l'eliminazione delle situazioni e degli individui percepiti come problematici o pericolosi) attraverso dispositivi di sicurezza, la militarizzazione ed il pattugliamento continuo del territorio urbano, ecc.

Un tale approccio al problema della sicurezza, com'è ovvio, da un lato incrementa significativamente il classico tipo di azione preventiva, attuata mediante strategie penali (di cui abbiamo sin qui descritto il rinnovato carattere poliziesco-neutralizzativo) tra cui spicca, oltre alla carcerazione preventiva, anche il ruolo predominante che è venuta assumendo la cosiddetta "negozialità" all'interno del sistema penale statunitense, che ne ha esponenzialmente incrementato la propensione poliziesca e burocratica, consentendo di sostenere il peso di un elevato traffico penale (146); dall'altro lato, sul piano delle strategie - per così dire - pre-penali o non-penali, rappresenta un'enorme regresso rispetto alle strade battute in sistemi di welfare.

L'azione situazionale, infatti, non prendendo in dovuta considerazione quanto contribuiscano ad alimentare il senso d'insicurezza soggettivo i radicali stravolgimenti dovuti al mutamento del ciclo politico-economico e lasciando le dinamiche strutturali a sé stesse, percorre una strada che porta direttamente alla legittimazione della fortificazione e dello stato d'assedio sui generis cui sono sottoposte molte città contemporanee. Il che non può che avere effetti perversi sulla stessa percezione che i cittadini hanno della propria sicurezza, oltre ad abbassare vertiginosamente il clima morale delle nostre città, precipitandole in una spirale di violenza.

Certo il welfarismo penale, con la sua vocazione alla prevenzione speciale positiva, al trattamento penale dell'individuo, offriva risposte sul piano individuale a contraddizioni e problematiche dalla portata strutturale, la cui soluzione sarebbe dovuta passare attraverso strategie d'intervento non penali. Anch'esso, dunque, tendeva per certi versi a spostare le politiche di "prevenzione" sul piano dell'intervento penale, adottando una strategia d'azione in grado di agire semplicemente sui sintomi della problematicità sociale. I rischi insiti in ogni meccanismo special preventivo (sia pure nel senso di una «special-prevenzione positiva») sono stati più volte sottolineati: sia che agisca "post delictum" (attraverso una diversificazione del trattamento penitenziario), che "ante-praeter delictum" (per mezzo dei meccanismi polizieschi) esso determina una ingiustificabile selettività del sistema penale, costruendolo come sistema esplicitamente diseguale (147).

Tuttavia, se è vero che una seria politica di prevenzione rispetto all'insorgere di episodi di problematicità e conflittualità sociale è attuabile solo al di fuori delle strategie d'intervento penale, come politica di coerente presa in carico; c'è anche da dire che - seppur timidamente e, verrebbe da dire, forse un po' ipocritamente - il welfare,come sistema sociale, si muoveva verso simili strategie.

Sin dall'inizio del nostro lavoro, infatti, avevamo individuato nel processo che ha portato all'assestarsi dei meccanismi disciplinari, il lungo percorso attraverso il quale l'originaria e comprensiva funzione di polizia si è gradualmente specificata, delegando progressivamente le sue competenze relative al "benessere", alla "felicità" ed alla "sicurezza" dei cittadini ad altre agenzie amministrative: le agenzie del welfare. È stato così che alla figura del "gendarme" cui (assieme a "padrone" e "parroco") era affidata la "tutela" delle "classi laboriose", cominciarono ad affiancarsi altre figure istituzionali (maestri, operatori sociali di vario genere, agenzie assistenziali) che in linea di massima tendevano a restringere l'area dell'intervento poliziesco (tipicamente repressivo ed escludente) a favore di strategie volte alla maggiore integrazione sociale possibile. Tale movimento fu certamente espressione di quel lungo processo evolutivo attraverso cui si era arrivati ad affermare il principio della responsabilità sociale rispetto alla marginalità sociale, allargando parallelamente il contenuto semantico del concetto di cittadinanza fino al punto di rigettare le antiche strategie meramente poliziesche e penali di governo della povertà.

Il riformismo, inoltre, aveva se non altro il pregio di lenire la conflittualità sociale e gli estremi che presentano tutte le società marcatamente polarizzate, oltre ad assicurare - più o meno alla generalità delle esistenze individuali - un minimo di "sicurezza" contro gli inconvenienti della vita.

Se da un lato è vero che, come sistema sociale, il welfare non aveva di certo la capacità di assicurare l'assoluta "sicurezza" dal crimine eliminandolo (tanto meno questa capacità ebbero - né alcun sistema sociale avrebbe potuto avere - gli stati socialisti); dall'altro lato è evidente che il fiorire di pulsioni irrazionali, come la paura e la repulsione nei confronti della marginalità sociale, è circostanza indubbiamente alimentata da una complessiva perdita di sicurezza in cui la destrutturazione del welfare getta ampi strati sociali (dalle classi medie in giù) (148).

Nell'ultimo quarto del secolo XX pare invece essersi avviato un movimento inverso rispetto a quello cui abbiamo assistito almeno fino al 1970, il cui esito sembra essere la costruzione di ordinamenti sociali estremamente "escludenti", sul modello degli stati liberali ottocenteschi. All'arretrare delle agenzie del welfare corrisponde, infatti, il crearsi di spazi d'incertezza e d'insicurezza in relazione ai quali le agenzie poliziesche recuperano antiche funzioni. Competenze e funzioni che, come un tempo, paiono preordinate alla esclusiva tutela della sicurezza degli inclusi, rispetto al pericolo rappresentato dagli esclusi da quel patto sociale oramai riformato in senso sempre più restrittivo.

È così che mutano gli scenari delle metropoli contemporanee: battute in lungo e in largo da gendarmi della tranquillità pubblica, disseminate di telecamere a circuito chiuso, separate in zone inaccessibili per le «nuove classi pericolose». "Ghetti volontari" si aggiungono ai già esistenti "ghetti involontari" (149), in cui il nuovo pauperismo è fisicamente isolato.

"Esclusione sociale ed autoreclusione finiscono per disegnare il quadro di città segregate" (150), in cui arretrano progressivamente gli spazi pubblici a tutto vantaggio di quello che Mike Davis ha chiamato "nuovo apartheid sociale": "quasi quattro milioni di americani, per la maggior parte bianchi e conservatori, vivono così in universi chiusi, protetti da barriere, da vigilantes e da rigidi regolamenti interni. Le strade sono private, le scuole sono private, la polizia è privata, le stesse fognature sono private (...) le enclavi così costituite, che separano gli abbienti dai nullatenenti, tendono a balcanizzare sempre più un paese già lacerato dalle divisioni razziali, etniche e sociali" (151).

L'ossessione per la sicurezza moltiplica i controlli, potenzia la sorveglianza e gli ostacoli fisici (le barricate (152)) atti ad evitare l'incontro fra esclusi ed inclusi dal nuovo ordine sociale, a scongiurare il manifestarsi di certi episodi di conflittualità. Si vuol occultare, rendere invisibile «l'altra città», quella di una vita quotidiana fatta di giornaliera sopravvivenza, gli esclusi dal sogno (153), gli indesiderabili, tutta un'umanità considerata inferiore ed inadatta al livello di civiltà urbana auspicato da quello che S. Palidda ha chiamato "cittadinismo perbenista" (154).

Ma c'è anche la paura, certo, la paura delle disuguaglianze, del parossismo di una povertà che si riaffaccia dopo decenni in cui si era ritenuto debellato il pauperismo estremo, in cui il concetto di «povertà assoluta» pareva sempre sul punto di non trovare più, nelle nostre civiltà del benessere, un referente materiale.

Così come le autorità municipali già nel XV e più poi nel corso del XVI secolo compresero - di fronte agli imponenti fenomeni di pauperismo che le evoluzioni economico-sociali determinarono - che, onde evitare le esplosioni incontrollabili di violenza popolare, sarebbe stato opportuno separare accuratamente i ricchi dai poveri e limitarne per quanto possibile gli incontri per le vie cittadine; o, perlomeno, fare in modo che questi potessero avvenire in condizioni di assoluta sicurezza per il ricco, con la confortante presenza di un gendarme (155). Così le metropoli contemporanee vedono il fiorire - grazie anche alle enormi potenzialità tecnologiche a disposizione - di un'architettura urbana segregante e panoptica, che tende ad escludere dai luoghi in cui si esplica la nostra civiltà dei consumi gli have not, il nuovo pauperismo (156).

Del resto è da sempre che le contraddizioni e gli squilibri delle società marcatamente stratificate si pongono in tutta la loro drammaticità nelle realtà metropolitane, ove vi sono maggiori occasioni per ricchezza e povertà di venire a contatto. Da sempre le metropoli dell'occidente capitalistico sono attanagliate da una sorta di "paura di vivere insieme" (157). Lo stesso complesso disciplinare - come ampiamente segnalato nella prima parte di questo lavoro - nasce per esigenze di governo e gestione delle energie conflittuali scatenate dallo sviluppo capitalistico, dall'industrialismo e dalle grandi concentrazioni urbane. La società disciplinare è frutto della paura e della volontà di dominare tali fattori di rischio senza intaccare le strutture sociali che le determinano.

Della stessa paura sono certamente espressione i suburbi che cingono le inner cities statunitensi, da cui, nel dopoguerra, presero a fuggire in massa i ceti medio-alti (tendenzialmente bianchi) (158). Esito estremo di tale processo è forse la proliferazione dei già citati villaggi fortificati in cui ormai si rifugia l'alta borghesia statunitense.

È tale paura che il battage mediatico sull'insicurezza urbana porta al centro dell'arena politica per farne un oggetto di scambio: la paura dell'altro, di tutto ciò che è percepito come non appartenete alle piccole comunità che organizzano la difesa privata del loro spazio urbano. La paura del diverso, dell'escluso, la cui rabbia, reazione o il cui semplice disagio si teme e s'intende occultare, mantenere lontano, per timore che possa esplodere.

Il controllo sociale nell'Italia repubblicana

Il modello esplicativo proposto per interpretare i mutamenti nelle strategie di controllo sociale avviati nell'ultimo quarto del XX secolo è prevalentemente pensato avendo riguardo alle evoluzioni della realtà statunitense ed, in parte, inglese (posto che furono i primi a seguire i cugini d'oltre oceano sulla strada del neo-liberismo); applicarlo meccanicamente all'Europa continentale - e segnatamente all'Italia - risulta in linea di massima più complesso e comunque impone di segnalare anche le, spesso profonde, differenze riscontrabili.

Volgendo lo sguardo in casa nostra, infatti, la cristallina purezza del modello teorico viene messa a durissima prova dalle radicali specificità che le vicende del nostro pese presentano; conviene allora apprestarci ad affrontarle.

A tal fine sarà opportuno riprendere sommariamente le fila del discorso, avviato nella prima parte di questo lavoro, sui tratti originari del sistema penale italiano, un discorso che abbiamo interrotto soffermandoci sulla svolta di fine XIX secolo, allorché, tramontata momentaneamente ogni possibilità di un riflusso autoritario, Giolitti si apprestava ad esplicare il suo complesso programma politico riformatore, con delle aperture democratiche senza precedenti per la giovane nazione.

La prima questione che si pone è, dunque, capire sino a che punto l'Italia abbia conosciuto una fase di «modernismo» o «welfarismo penale», se, insomma, quel progetto riformista avviato da Giolitti, volto all'integrazione delle masse nella vita democratica del paese, abbia avuto modo di svilupparsi - al termine di quella lunga parentesi (1915-1945) segnata dalle due guerre e dall'intermezzo fascista - anche in un sistema penale teso a privilegiare quale strategia di controllo sociale la "decarcerizzazione", in vista di un lento e progressivo reinserimento sociale dei suoi clienti. Un sistema basato quindi su una vasta rete di istituzioni di controllonel sociale in grado di ridimensionare l'importanza - nella sua economia complessiva - del momento strettamente carcerario quale strumento di politica sociale e di fondare quest'ultima su strategie non poliziesche.

Degli auspici riformatori sotto la cui egida nacque la Repubblica si è detto, è da valutare adesso se questi si siano concretizzati o meno in una coerente politica criminale e penitenziaria.

4.4.1: Sottosistema penale di polizia. L'eredità fascista Descrivendo le strategie di controllo sociale dell'Italia post-unitaria e liberale segnalammo la preferenza accordata dalle elites del tempo agli strumenti special-preventivi negativi (polo neutralizzativo dello strumento penal-disciplinare), rappresentati dall'enorme strumentario poliziesco che la giovane monarchia costituzionale seppe mettere in campo nel gestire le tensioni sociali che percorrevano la nostra penisola.

In particolare, descrivemmo i tratti di un sotto-sistema penale di polizia cui erano riferibili diverse funzioni: prevenzione ante delictum, ed è il caso di tutte le "misure di prevenzione" contro le "classi pericolose" che le varie normative di Pubblica Sicurezza disciplinarono fino al T.U.P.S. Crispino, nel 1889; cautela ante judicium, cui erano preordinate quelle che al giorno d'oggi chiamiamo "misure cautelari" e che già dal XIX secolo colpivano con particolare attenzione i soggetti "pericolosi"; funzioni eccezionali di tutela dell'ordine pubblico, garantite dalla possibilità - non disdegnata affatto dagli esecutivi del periodo postunitario - di dichiarare all'occasione, in precise circostanze di tempo e di luogo, lo stato d'assedio, facendo valere la legge marziale. Inoltre, nel determinare la deriva disciplinare del nostro sistema di controllo sociale, si affiancavano a tali istituti esplicitamente polizieschi diverse norme del sotto-sistema penale ordinario che, a causa di difformità variamente intense rispetto ai principi di stretta legalità e stretta giurisdizionalità, consentivano che la sanzione penale seguisse a giudizi basati sul mero sospetto, su presupposti vaghi o valutativi, nonché privi delle dovute garanzie processuali.

Quale rilevanza assunse questo sotto-sistema poliziesco nel governo della "questione sociale" (e specificamente "meridionale") si è evidenziato.

In quest'epoca, peraltro, il sistema carcerario (159) appare improntato ad un regime di violenza ed inutile vessazione che corrisponde perfettamente all'impronta repressivo-neutralizzativa del sistema penale dell'Italia d'allora. Come giustamente segnalava Dario Melossi (160) - nonostante (su di un piano, per così dire, ideologico o soprastrutturale) si fossero già adeguatamente diffuse le dottrine di Cesare Lombroso e la loro applicazione in chiave di politica penale e criminale rintracciabile nei testi del fondatore della "Scuola Positiva" Enrico Ferri, il quale come accennato proponeva una radicale torsione in senso correzionale del nostro sistema - la realtà sociale italiana, caratterizzata dall'enorme esercito industriale di riserva rappresentato dalle masse contadine meridionali (la cui esistenza era dovuta al permanere nel Mezzogiorno di rapporti sociali pre-capitalistici), non rese probabilmente così impellente l'esigenza di approntare uno strumento in grado di recuperare al processo produttivo il maggior numero possibile di braccia (come invece avvenne in sistemi sociali maggiormente carenti di forza lavoro attiva). Il lavoro in Italia rimarrà a lungo, come vedremo, un bene altamente inflazionato.

Il nostro carcere, dunque, anche in epoca giolittiana rimase uno strumento di puro contenimento della marginalità sociale, "il disprezzo per una forza-lavoro perennemente sovrabbondante ne farà uno strumento terroristico di controllo sociale" (161). E "solo negli anni immediatamente precedenti all'avvento del fascismo, la crescente penetrazione dei postulati della scuola positiva, secondo cui, in tema di trattamento carcerario, i detenuti debbono essere oggetto più di cura che di repressione, più di rieducazione che di punizione, si tradurrà in alcune circolari ministeriali volte a rendere meno cupo e afflittivo il clima carcerario" (162).

Solo nel primo quarto del secolo XX, insomma, la "rivoluzione" scientifica operata nel campo delle discipline penalistiche da Lombroso e Ferri comincia a sortire qualche effetto anche sul piano della concreta politica criminale. È del resto nel 1919 che venne istituita la commissione Mortara, con il compito di riformare l'impianto del codice penale e, solo due anni dopo, Enrico Ferri pubblicò sulla rivista "di famiglia", il testo del progetto di codice penale passato alla storia con il suo nome (163).

Per la prima volta in Italia veniva così alla luce un progetto di codice interamente fondato sulla rilevanza accordata all'uomo delinquente e non più all'atto delinquente, i fondamentali principi d'ascendenza illuministica della materialità e dell'offensività ne uscivano completamente svuotati a favore di un diritto, di un processo e di una sanzione penale basati sulla classificazione scientifica, sull'individuazione clinica e sulla cura del delinquente naturale.

È chiaro però che, come segnalammo nella prima parte di questo lavoro, una certa torsione sostanzialista del nostro sistema penale era già rintracciabile sul piano pratico, dato il profilo ampiamente antigarantista che il sistema costruito in epoca liberale assunse e, in particolare, il suo spiccato carattere poliziesco. Nemmeno sul piano teorico, tuttavia, l'abdicazione dai principi del convenzionalismo penale è interamente imputabile allo scientismo dei positivisti, poiché su questa strada si era già abbondantemente avviato l'organicismo d'impronta idealista, che non poche responsabilità ha avuto nel far scivolare l'Italia liberale verso una forma di democrazia autoritaria.

Alla svolta di fine XIX secolo la cultura liberale italiana aveva ormai subito una profonda involuzione e ciò è testimoniato dalla deriva statalista della nostra cultura giuridico-penale, approdata infine - con gli inizi del XX secolo - al "tecnicismo giuridico (164)". Quest'indirizzo, come ogni sorta di «legalismo etico», pose da un punto di vista intrasistemico la questione della legittimità delle norme, rinunciando ad ogni riferimento assiologico, esterno, svuotando così di ogni significato la questione dei diritti individuali. È chiaro che, ridotta la questione della legittimità delle norme ad una faccenda di mero «vigore», il giuristi poterono assumere quell'atteggiamento agnostico in parte responsabile della successiva tragedia fascista.

L'attacco al principio illuministico della «stretta legalità penale» fu insomma concentrico e provenne da due tradizioni culturali apparentemente antitetiche nei presupposti, ma convergenti negli esiti: la costruzione progressiva di un sistema penale sostanzialista in cui azione ed evento perdono ogni rilevanza, non più fulcro dell'intero sistema penale che descrive, accerta e punisce fatti di reato, bensì mero elemento sintomatico della personalità deviante dell'autore.

"La crisi della garanzia dell'azione segna (...) una perdita del valore della persona umana: degradata da un lato a specie animale, dall'altro sublimata e negata attraverso la sua identificazione con lo stato" (165). Esito estremo di tale processo d'involuzione del potere punitivo, della sua "aspirazione a tramutarsi in occhio clinico e in terapia sociale rivolti non più alle azioni ma ai soggetti devianti" (166), è l'avvento, nei paesi di più deboli tradizioni democratiche, dei fascismi e di sistemi penali dalla matrice totalitaria.

Se da un lato, però, sul piano delle strategie di controllo sociale, il duplice livello di legalità su cui si era fondato il nostro sistema penale non scomparve a favore di un sistema interamente poliziesco (167); è, d'altra parte, certo che il sistema di polizia italiano, già di per sé parecchio esteso, vide un'enorme espansione delle sue prerogative nel senso dell'accentuazione di uno dei caratteri fondamentali di ogni fascismo (168)- da cui peraltro non era esente l'«autoritarismo liberale» post-unitario: la naturale paura della differenza ed il disprezzo per i deboli dal contrassegno elitista.

La monumentale opera di riforma legislativa condotta a termine durante il "ventennio" merita in ogni caso qualche accenno, poiché sarà su queste norme che a lungo in epoca repubblicana (ed in parte tuttora) si fonderà il nostro sistema di controllo sociale.

Così, se da un lato parecchi sono i segni di continuità fra la politica criminale fascista e le strategie di controllo sociale dell'Italia liberale, dall'altro lato è certo che il regime seppe condurre al meglio quella politica di eliminazione coattiva degli avversari politici che già Crispi aveva inaugurato con i provvedimenti eccezionali del 1894: con la L. nº 2008 del 1926 ("Provvedimenti per la difesa dello stato"), infatti, da un lato si crearono strumenti assolutamente inediti nella storia del nostro paese, ma dall'altro lato si stabilizzarono definitivamente precedenti esperienze istituzionali del tutto eccezionali (169).

L'opera continuò con le nuove leggi di Pubblica Sicurezza che riformarono in senso parzialmente peggiorativo i testi crispini, anche se, ancora una volta, non si fece altro che istituzionalizzare definitivamente prassi già sperimentate in situazioni d'emergenza dall'Italia liberale (170).

Il testo del 1926 - poi riscritto con poche modifiche nel 1931 (R.D. 18.06.1931 nº 773, in parte ancora in vigore) - infatti, introduce nuove fattispecie di pericolosità politica ricalcate su quelle sperimentate da Crispi nel 1894, così come la possibilità di inviare qualcuno al confino di polizia (ampiamente utilizzata nella lotta al brigantaggio, istituzionalizzata, poi con la garanzia della "progressione", nel 1889 e di nuovo allargata in via eccezionale nel 1894). Il peggioramento della disciplina è però evidente nel fatto che la competenza per l'adozione di tali misure torni ad essere esclusivo appannaggio degli organi amministrativi e nella scomparsa delle pur timide garanzie procedurali che Crispi aveva inteso introdurre...E, ovviamente, nella nascita dell'Ovra, la polizia politica del regime (171).

Il Testo Unico di Pubblica Sicurezza fascista sarà destinato ad una lunghissima vita, esso, infatti, resterà in vigore fino al 1956 ed ancor oggi alcune sue disposizioni sono leggi della Repubblica.

In particolare il Titolo VI ("Disposizioni relative alle persone pericolose per la società") si apriva con un Capo intitolato: "Dei malati di mente, degli intossicati e dei mendicanti", ove erano disciplinati l'obbligo di denuncia all'Autorità di Pubblica Sicurezza, in capo agli esercenti una professione sanitaria, dei malati di mente o infermi psichici "pericolosi per sé e per gli altri", nonché degli alcolizzati o cronici intossicati da sostanze stupefacenti (172).

Nello stesso titolo erano poi disciplinate tutte le altre misure di prevenzione: il Rimpatrio con foglio di via obbligatorio, che può tuttora essere emesso nei confronti di tutte le persone "sospette" che, richieste, non diano "contezza di sé" all'Autorità di Pubblica Sicurezza, o anche nei confronti delle "persone pericolose per l'ordine e la sicurezza pubblica o per la pubblica moralità" (173).

L'Ammonizione, la quale poteva essere disposta - con diverse prescrizioni accessorie sul tipo delle analoghe ottocentesche (vivere onestamente, non dar luogo a sospetti, darsi un lavoro o una residenza fissa, non frequentare case di prostituzione, osterie o bettole, l'obbligo di presentarsi periodicamente presso i locali uffici di pubblica sicurezza o di farsi trovare in casa in determinate ore del giorno, ecc.) e sanzione dell'arresto da tre mesi ad un anno in caso di contravvenzione - a queste categorie di soggetti:

  1. oziosi e vagabondi validi al lavoro non provveduti di mezzi di sussistenza o sospetti di vivere con il ricavato di azioni delittuose;
  2. "persone designate dalla pubblica voce come pericolose socialmente o per gli ordinamenti politici dello Stato" (174);
  3. diffamati per alcuni specifici delitti ed assolti per insufficienza di prove.
E, infine, la figura principe di tutto il sistema, grimaldello insostituibile nella lotta all'antifascismo ed agli oppositori politici: il Confino di polizia. Previsto per un tempo non inferiore ad un anno e non superiore a cinque, era comminabile ai già ammoniti o diffamati, qualora risultassero pericolosi per la sicurezza pubblica; nonché, direttamente, senza passare per l'ammonizione, a "coloro che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un'attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello stato o a contrastare o a ostacolare l'azione dei poteri dello stato, o un'attività comunque tale da recare nocumento agli interessi nazionali". La misura, comminata da un organo amministrativo (175) cui spettavano anche amplissimi poteri di arresto preventivo dei "confinandi", poteva essere accompagnata da una serie di prescrizioni la cui contravvenzione comportava l'arresto da tre mesi ad un anno.

Nell'applicare le misure previste dal nuovo sistema, insomma, "l'autorità di pubblica sicurezza giudicherà desumendo non più solo dalla classe sociale a cui appartiene il soggetto, o dai suoi trascorsi penali, ma anche dalla suo noto o presunto orientamento politico" (176).

Se il diritto di polizia assume la fondamentale funzione della lotta al dissenso, arricchendosi di nuove fattispecie che si affiancano alle risalenti, dirette a colpire la marginalità sociale, non meno vistoso è l'arretramento in chiave poliziesca dei restanti settori del sistema penale.

Anche in questo caso, com'è tristemente noto, a lungo avranno vigore durante l'epoca Repubblicane (seppur con le innumerevoli modifiche che vedremo) i codici che portano il nome dell'allora guardasigilli.

In primo luogo c'è da sottolineare quanti e quali segni di continuità - seppur conditi da uno spiccato autoritarismo - mostrasse, rispetto al diritto penale dell'epoca liberale, il codice fascista. Segno inequivocabile di tale continuità era la sproporzionata tutela che il regime accordava al diritto di proprietà, tipica espressione di un mai sopito elitarismo e di un profondo disprezzo per i ceti marginali. C'è da presumere infatti che proprio alla disciplina ed al controllo di queste classi sociali il legislatore fascista pensasse allorché sanciva pene draconiane per i reati contro il patrimonio (Titolo XXIII, Libro II, del codice penale), o prevedeva una serie di contravvenzioni idonee ad incriminare il semplice sospetto di commissione di un reato contro il patrimonio (177).

Traspare in maniera inequivocabile dal rigore sanzionatorio con cui è tutelato il patrimonio la scala di valori sottesa al codice fascista: esso è espressione di un universo morale ancora tipicamente borghese e si differenzia dal diritto penale dell'epoca liberale solo per la supertutela che accorda alla personalità dello stato (178).

Ma non erano certo questi i momenti più qualificanti del nuovo diritto penale.

Lo svuotamento del principio di stretta legalità, già abbondantemente avviato in epoca post-unitaria, trova adesso la sua sublimazione in chiave autoritaria nel codice penale fascista (R.D. nº 1398, 19.10.1930), concepito quale strumento di difesa sociale...Esigenza rispetto alla quale le libertà ed i diritti individuali svaporano. La dottrina fascista dello stato "insegna del resto che l'individuo non è se non un elemento infinitesimale e transuente dell'organismo sociale, e che, pertanto, a tale organismo, e allo stato, che ne è l'organizzazione giuridica l'individuo deve subordinare i propri interessi e la sua stessa esistenza" (179).

Un sincretismo d'impronta reazionaria partorisce un testo che "accosta istituti consolidati della tradizione classico-liberale, che il tecnicismo aveva ripulito dalle incrostazioni metafisiche, ai principi elaborati dalla scuola positiva" (180), realizzando definitivamente quella che è comunemente considerata una totale dissoluzione soggettivistica del fatto di reato o, se si preferisce, una pressoché completa subiettivazione del diritto penale (181).

Aldilà del cosiddetto «doppio binario» sanzionatorio - su cui qualche parola dovremo pur spendere - che ne è la più fulgida espressione, l'accentuazione del carattere sostanzialista del diritto penale prosegue lungo una strada avviata dalle normative poliziesche dell'epoca liberale e già sposata dal regime nelle disposizioni eccezionali del 1926, attraverso la parziale adozione dei due modelli del «tipo normativo d'autore» e del «delinquente naturale» (182).

Tuttavia, più che nella rilevanza accordata all'atteggiamento interiore - si pensi a tutte le fattispecie di "attentato" - o nell'arretramento della soglia di punibilità fino al pericolo presunto - come in tutti i reati associativi (dove è pur sempre l'elemento teleologico a far da scriminante fra rilevanza ed irrilevanza penale del fatto) - o nelle fattispecie costruite con l'utilizzo di termini vaghi o valutativi - come nei reati di "vilipendio", "oltraggio", o nelle formule come "offendere la morale familiare", "manifestazioni o grida sediziose" - o, cosa più grave, nelle fattispecie di sospetto o che incriminano stili di vita marginali (183), la torsione sostanzialista del sistema penale si concretizza soprattutto nell'enorme rilevanza accordata all'elemento della "personalità" del reo (184).

La «capacità a delinquere» (art. 133 c.p.) e la «pericolosità sociale» (art. 203 c.p.) trovano infatti nel codice fascista "riconoscimento legislativo in relazione a molteplici istituti e concetti di diritto penale, che per l'appunto presuppongono ed esigono l'indagine sulla personalità del reo rivelata dal reato" (185): l'esercizio della discrezionalità nella determinazione della pena (art. 133 c.p.), nella concessione delle attenuanti generiche (art. 62-bis c.p., aggiunto nel 1944), nella concessione della sospensione condizionale della pena (art. 164 c.p.) o del perdono giudiziale (art. 169 c.p.). Si pensi poi alle figure penali costitutive costruite su parametri provenienti dalla tradizione culturale della scuola positiva: come la declaratoria di abitualità o professionalità nel reato (artt. 103 e 105 c.p.) nonché di delinquente per tendenza e last but not least, l'estrema rilevanza accordata alla recidiva (artt. 99 e ss. c.p.).

Simili istituti, la cui adozione è frutto del cosiddetto "compromesso (186)" fra le due scuole di diritto penale che si divisero il campo tra XIX e XX secolo, furono funzionali, come del resto le Misure di Sicurezza, alla costruzione di un sistema ancor più affittivo, nell'ottica "della difesa sociale di fronte a personalità socialmente pericolose" (187). L'idea di special prevenzione che ebbe il fascismo, infatti, non fu affatto nel senso di un reinserimento sociale dei "pericolosi", bensì nel senso di una loro neutralizzazione.

Ciò si evince in particolare anche dall'analisi del Titolo VIII, Libro I, del Codice Penale, che contiene la disciplina normativa delle "Misure amministrative di sicurezza"; peraltro ancora interamente in vigore (188). Secondo l'impostazione positivista tali strumenti intervengono in ragione della pericolosità del soggetto e, dunque, non sopportano limiti massimi di durata: esse durano indefinitamente sino a quanto la supposta pericolosità sociale non sia scomparsa e l'individuo non sia ritenuto pronto a fare in suo reingresso in società. Nella disciplina fascista però tali misure subivano anche dei limiti minimi inderogabili, posto che la revoca era considerato un provvedimento eccezionale ed infatti poteva essere emanato solo dal Ministro della Giustizia (dal 1953 la competenza sarà poi affidata ad un Giudice di Sorveglianza) (189).

Nell'impostazione compromissoria datane dal codice Rocco le Misure di Sicurezza seguono la commissione di un reato (o "quasi reato", ex artt. 49, 115 c.p.) e, dunque, aldilà del presupposto soggettivo dato dalla pericolosità del soggetto (art. 203 c.p.), necessitano di un elemento oggettivo per poter essere disposte (190).

Tali misure si applicano tendenzialmente post delictum, in funzione del valore sintomatico che si attribuisce all'episodio delittuoso, possono, tuttavia, essere applicate in funzione di cautela ante judicium e, allorché, spirato il termine di durata minima, si debba riconsiderare la pericolosità del soggetto in vista di una eventuale proroga della misura, praeter delictum.

Le Misure in questione, inoltre, sono: totalmente sostitutive della sanzione penale, qualora siano applicate a persone prosciolte per infermità psichica, sordomutismo (191) o minori di anni quattordici (192); parzialmente sostitutive della pena qualora si tratti di soggetti condannati a pena diminuita perché affetti da parziale infermità psichica, cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti ovvero sordomutismo (193); aggiuntive rispetto alla pena comminata a soggetti pienamente imputabili quali i minori imputabili (194), i delinquenti dichiarati abituali, professionali o per tendenza (195) o in altri specifici casi previsti dalla legge (come per gli stranieri, per i quali è prevista la misura dell'espulsione dallo stato); in questi ultimi casi la misura viene eseguita dopo che il soggetto ha scontato la sanzione penale.

Come è stato giustamente sottolineato, più che ad effettive esigenze di «terapia»o «cura» di soggetti pericolosi in vista del loro reinserimento sociale, "l'affiancamento alla pena retributiva della misura di sicurezza indeterminata, subordinata all'accertamento di un elemento comunque incerto come la pericolosità sociale, era, politicamente, funzionale agli interessi di una difesa a oltranza degli interessi statuali, in larga misura sganciata dal rispetto dei principi di garanzia della legalità e della tassatività" (196). Si trattava in sostanza della possibilità di neutralizzare a tempo indeterminato soggetti ritenuti in una maniera o in un'altra particolarmente pericolosi e ciò nonostante tutte le misure di sicurezza detentive (197) fossero formalmente basate su di un regime di detenzione che prevedeva isolamento notturno e vita in comune di giorno (198) ed, in ogni stabilimento, fosse previsto il lavoro con una funzione esplicitamente pedagogica.

Nell'intenzione del legislatore fascista, infatti, "il lavoro deve avere carattere prevalentemente curativo o educativo secondo gli scopi speciali dei singoli stabilimenti; ed avere per oggetto l'avviamento ad una occupazione che, tenuto conto dei precedenti personali e familiari dell'internato, può consentire a lui di vivere onestamente allorché sia rimesso in libertà" (199).

A distanza di anni un giudizio sull'effettiva efficacia special-preventiva positiva delle misure di sicurezza è inevitabilmente negativo, poiché mai a tale rivoluzione ideologica seguì un concreto processo di creazione delle strutture, del personale e dei mezzi idonei a realizzare lo scopo rieducativo e di reinserimento sociale che sulla carta esse si prefiggevano, né probabilmente mai vi furono le condizioni strutturali che lo rendessero appetibile per il nostro sistema (200).

Le strutture previste dal codice, quando vennero improntate, rappresentarono lo strumento di controllo sociale più vergognoso che la stessa legislazione fascista avesse partorito; si pensi per es. al caso dei «manicomi giudiziari»: "carceri-ospedali o ospedali-carceri dove si consuma una doppia violenza istituzionale - carcere più manicomio - e dove giacciono dimenticati dal mondo, oltre ai comuni prosciolti per infermità di mente, anche i condannati a pena differita e gli imputati impazziti in attesa di giudizio" (201).

Che la politica special-preventiva del regime fosse improntata ad una mera neutralizzazione del pericoloso - e ciò nonostante i propositi dei guardasigilli Rocco (prima) e Grandi (poi) che non mancarono di riferirsi al lavoro carcerario come strumento di emenda o (per usare le parole del Ministro Grandi) «bonifica umana» - è testimoniato dal regolamento carcerario (R.D. nº 787 del 18.06.1931). Il quale, spazzate via le timide riforme del 1922, fece regredire i nostri stabilimenti penitenziari ad una situazione se è possibile peggiore del 1891, istituendo un regime di violenza ed intimidazione costante, il cui unico scopo era la vessazione e la totale spersonalizzazione del detenuto (202).

Il lavoro se pur previsto, pare - in epoca fascista - più orientato allo sfruttamento di una manodopera a bassissimo costo cui l'amministrazione aveva possibilità d'accedere (come nel caso dei lavori di bonifica che il regime avviò) (203), anche se, successivamente - in epoca repubblicana - esso perse ogni rilevanza regredendo a forma di privilegio concedibile ai più meritevoli e disciplinati e, quindi, a mero strumento di governo dell'istituzione totale (204).

Aldilà dei programmi ideologici, l'enorme sovrappopolazione relativa che, come vedremo, continuò a connotare anche in epoca repubblicana la nostra struttura sociale, impedì al lavoro carcerario di assumere l'importanza che assunse in altri contesti del mondo occidentale, "nel nostro sistema penitenziario il lavoro non ha mai assunto funzioni pedagogiche o produttive" (205). E, del resto, quale efficacia deterrente avrebbe potuto conservare l'istituzione penitenziaria se al suo interno fosse stato possibile accedere ad un bene così scarso all'esterno.

Il carcere fascista (rimasto intatto fino al 1975, come vedremo) conserva quali uniche funzioni quella intimidatoria e quella neutralizzativa, accantona dall'arena sociale per quanto più tempo possibile i soggetti ritenuti particolarmente pericolosi, la marginalità sociale ed il dissenso politico.

All'estrema accentuazione del ruolo della personalità del reo nel diritto penale non è tuttavia corrisposta la creazione di un processo che prevedesse gli adeguati strumenti tecnici per effettuare il giudizio sulla pericolosità dell'imputato.

A parte l'istituto della perizia psichiatrica, funzionale all'accertamento della capacità d'intendere e volere dell'imputato, infatti, nessun'altro strumento d'indagine sul carattere dell'individuo venne concesso in dotazione al giudice penale.Lo «sbarramento» frapposto all'ingresso nel processo della perizia criminologica dall'art. 314 c.p.p. suscitò lo sdegno degli esponenti della scuola positiva, i quali non mancarono di sottolineare che "l'istruttoria è concepita ancora come se il diritto sostanziale non avesse subito alcuna modificazione, vale a dire che essa è diretta unicamente alla ricerca delle prove del fatto, senza alcuna preoccupazione di accertare quali siano le condizioni bio-psichiche dell'imputato e tanto meno, di stabilire le cause da cui è derivato il reato" (206).

A giudizio degli studiosi positivisti l'ingresso dei saperi criminologici nel processo penale, oltre ad essere uno dei momenti più qualificanti di tutta la loro proposta di riforma del sistema penale (e quali interessi corporativi fossero in ballo è del tutto evidente), era l'unico fattore in grado di eliminare le incertezze nell'applicazione del diritto (207) e di realizzare definitivamente un processo «tecnico (208)».

Tuttavia, come sottolineato, l'auspicata sublimazione scientifica della discriminazione sociale non si ebbe ed il giudizio sulla personalità e sulla pericolosità del soggetto - richiesto per la determinazione della pena o la concessione della sospensione condizionale, nonché per la disposizione delle misure di sicurezza (qualora non fosse stato effettuato in via presuntiva del legislatore) - restò appannaggio esclusivo del giudice penale, il quale, senza che l'ordinamento gli richieda la benché minima formazione criminologica, è chiamato - ormai dal 1930 - ad effettuare diverse «prognosi di pericolosità ».

Il codice di procedura fascista, però, si distingue anche per altre peculiarità - a cominciare dall'iter che portò alla sua nascita, in cui il Parlamento fu totalmente esautorato delle sue funzioni e relegato ad un ruolo meramente consultivo, rispetto ad un testo tracciato del tutto indipendentemente dal Ministero e dai suoi consulenti (209) - quali l'impronta rigidamente inquisitoria ed autoritaria e la completa lesione delle libertà individuali.

Partorito nel 1930 dalla penna di Vincenzo Manzini, rappresenta rispetto al codice del 1913 un netto peggioramento: ispirati come sappiamo entrambi al «sistema misto», il nuovo codice aumenta la rilevanza dibattimentale della fase istruttoria, delle cui risultanze è possibile dare completa lettura ed esautora totalmente la difesa dell'imputato dalla prima fase del procedimento. Ad essa è infatti impedito di partecipare in alcun modo alla fase istruttoria ed alle attività che in essa si compiono (interrogatori, esami testimoniali, perquisizioni ecc.) (210).

Notevoli erano poi i poteri istruttori concessi al personale di polizia giudiziaria, il quale poteva motu proprio: procedere alla perquisizione dell'arrestato in flagranza, dell'evaso ovvero degli stabili in cui avesse fondato motivo di ritenere che l'indiziato o l'evaso si fosse rifugiato o che vi fossero cose da sottoporre a sequestro o tracce del reato facilmente deperibili; nonché interrogare senza alcun limite l'arrestato o il fermato.

L'aspetto più sconvolgente della disciplina codicistica risiede tuttavia nelle illimitate possibilità di comprimere la libertà personale dell'imputato (o anche il semplice indiziato) che il codice concedeva grazie agli amplissimi poteri di arresto, cattura e fermo.

Il potere d'arresto è previsto, come nel 1913, nei casi di flagranza di reato, anche se c'è da dire che la versione dell'istituto scritta dal Manzini si presenta in una formulazione da un lato sicuramente più precisa rispetto alla versione precedente, essendo caduto il riferimento al «clamore pubblico» (211); dall'altro lato però, in relazione a taluni reati l'arresto è facoltativo e va effettuato "tenuto conto delle qualità morali della persona e delle circostanze del fatto", che, com'è intuibile, è formula ancor più generica anche del riferimento che il codice del 1913 faceva agli "oziosi e vagabondi".

La convalida del provvedimento dev'essere effettuata dal Pretore o dal Procuratore del Re (entrambi due organi d'accusa, anche se il pretore svolge, per i reati di sua competenza, contemporaneamente la funzione di organo requirente e giudicante, in perfetto stile inquisitorio) entro novantasei ore. Questi sentito l'arrestato, se non devono disporre la liberazione dello stesso, dispongono che rimanga in stato d'arresto a disposizione dell'Autorità competente.

L'istituto del fermo era viceversa ignoto al codice del 1913, esso è, nel 1930, un potere concesso all'Autorità di Pubblica Sicurezza anche fuori dai casi di flagranza di reato nei confronti delle"persone gravemente indiziate di un reato per cui sia obbligatorio il mandato di cattura, in attesa del provvedimento dell'Autorità Giudiziaria, alla quale dev'essere data immediata partecipazione del fermo"; valevano per il resto le norme sull'arresto in flagranza in quanto compatibili.

Nel 1944 sarà poi previsto che l'Autorità giudiziaria debba provvedere sulla libertà del detenuto entro sette giorni, anche se l'inadempienza non dà luogo alla liberazione del fermato, bensì ad un semplice controllo disciplinare. Sempre lo stesso provvedimento, poi, introdurrà un'ipotesi di fermo sganciata da alcun indizio di reato, stabilendo che l'Autorità di pubblica sicurezza ha la possibilità di fermare "le persone la cui condotta appaia particolarmente pericolosa per l'ordine e la sicurezza pubblica". Ovviamente, come già accennato, l'Autorità era nel frattempo libera di «torchiare» a suo piacimenmto l'arrestato o il fermato.

Ultimo istituto afferente ai poteri precautelari disciplinato dal codice del '30 era l'ordine o mandato d'arresto (a seconda che ad emanarlo fosse stato, rispettivamente, il Procuratore o il Giudice Istruttore), che seguiva la convalida dell'arresto in flagranza o del fermo e aveva efficacia limitata a venti giorni, trascorsi i quali senza che fosse stato emanato un provvedimento cautelare o una sentenza di condanna alla detenzione, cessava di avere alcun effetto. I presupposti della misura erano identici a quelli previsti per la misura cautelare vera e propria, vediamoli dunque.

Espressione tipica del potere cautelare,l'ordine o mandato di cattura era disciplinato in maniera assolutamente illiberale, con una normativa che, rispetto allo stesso codice del 1913 (che pure non spiccava quanto ad attenzione per le libertà individuali), rappresenta una drastica reformatio in peius. La cattura era, dati i sufficienti indizi di colpevolezza, obbligatoria: rispetto ai delitti contro la personalità dello Stato puniti con reclusione non inferiore nel minimo a due anni e nel massimo a dieci e per tutti i delitti comuni puniti con la reclusione nel minimo non inferiore a cinque anni e nel massimo a dieci; facoltativa: per tutti i delitti, se dolosi, puniti con pena della reclusione non inferiore nel minimo ad un anno e nel massimo a tre, se colposi, nel minimo a due anni e nel massimo a cinque e per tutti i delitti, qualunque fosse la pena edittale prevista, addebitati a soggetti sottoposti a misure di prevenzione, senza domicilio o residenza fissa (leggasi: oziosi e vagabondi), recidivi reiterati o specifici. In ogni caso andavano valutate le "qualità morali e sociali della persona e le circostanze del fatto" (212).

Scomparve ogni termine di durata massima, conformemente all'idea che la libertà fosse una graziosa concessione dell'Autorità, mentre i limiti temporali previsti per la fase istruttoria davano luogo, in caso di mancato rispetto degli stessi, ad un semplice controllo disciplinare (213).

La cattura facoltativa era ovviamente revocabile qualora fosse venuto a mancare il presupposto oggettivo dei gravi indizi e non vi fosse un pericolo di fuga, la necessità di disporre dell'imputato a fini probatori o il pericolo d'inquinamento delle prove (circostanze che, seppur in via indiretta, venivano a costituire degli ulteriori presupposti per la cattura facoltativa). Era infine prevista la libertà provvisoria, qualora giudice o procuratore ritenessero applicabile al fatto di reato un quantum di pena già scontato in custodia.

Se questi erano i caratteri del sistema penale ereditato dal regime fascista, all'indomani dell'approvazione della costituzione repubblicana ci sarebbero stati tutti i presupposti - sul piano dei principi - per un radicale mutamento di paradigma. Per un radicale arretramento del sistema poliziesco e penale dal campo della politica della politica sociale ed, in particolare, del governo della povertà.

Tuttavia lo scandaloso regolamento penitenziario ereditato dal fascismo resterà immutato per circa trent'anni, la riforma penitenziaria arriverà solo nel 1975, e, d'altra parte, degli altri due comparti che compongono ogni sistema penale - il settore penale sostanziale (o di "criminalizzazione primaria") ed il settore penale processuale (o di "criminalizzazione secondaria") - fu solo il secondo a venire riformato rispetto ai testi ereditati dal fascismo e peraltro in tempi recenti.

Non è il caso adesso di diffonderci sulle ragioni della mancata riforma del sistema penale (e, fino al 1988, anche processuale penale), sul perché il nostro legislatore repubblicano abbia, in questo cinquantennio di storia patria, abdicato dalla sua potestà in materia di politica criminale, delegando tale importante funzione agli sporadici interventi della Corte Costituzionale o intervenendo occasionalmente in ambiti parecchio circoscritti (214). Adesso preme piuttosto sottolineare quale evoluzione conobbe il nostro sotto-sistema penale di polizia con l'avvento della Repubblica, anche alla luce dei principi in materia penale sanciti dal legislatore costituente (215)

Se da una parte gli artt. 25.3 e 27.3 Cost. paiono aver messo al riparo da ogni dubbio di legittimità costituzionale le Misure di Sicurezza e tutti gli istituti del codice penale in cui è data rilevanza alla personalità del condannato, consentendo piuttosto di alzare il tono della critica ai giuristi d'ispirazione positivista che reclamavano l'eliminazione del divieto di perizia criminologica sancito, come visto, dal codice di procedura (216). Norme costituzionali come gli artt. 13, 16, 17, 18, 21 e 24.2 nonché lo stesso art. 27 esponevano al fuoco della critica diversi istituti ereditati dal fascismo: tutto il codice di procedura penale, per la sua impronta spiccatamente inquisitoria, per la lesione della libertà personale e del diritto alla difesa che perpetrava; il codice penale allorché puniva il dissenso politico puro e semplice, limitava la libertà d'associazione e riunione, prevedeva la pena di morte o pene detentive draconiane; nonchè l'ordinamento penitenziario, per il carattere disumano del regime di detenzione e l'assoluta assenza di strumenti decarcerizzanti; e, in ultimo, tutte le misure di polizia, poiché consentivano agire limitazioni alla libertà personale in via amministrativa, senza alcun provvedimento giurisdizionale.

Fu proprio della legittimità del diritto di polizia che la neonata Corte Costituzionale fu immediatamente chiamata ad occuparsi e lo fece attraverso due pronunzie (le sentenze nº 2 e nº 11, del 1956) che, seppur prevalentemente attente alla lesione del principio di giurisdizionalità, mossero degli elementi di critica ai presupposti delle misure stesse che, qualora adeguatamente sviluppati, avrebbero potuto portare alla definitiva eliminazione di tali istituti polizieschi dal nostro sistema (217).

Il legislatore repubblicano, viste le abrogazioni effettuate dalla Corte e l'esplicito invito ad adeguare la materia al dettato costituzionale, decise di riscrivere la disciplina delle misure di prevenzione e lo fece attraverso la L. nº 1423 del 1956.

Nonostante alcuni passi delle sentenze della Corte fossero tali da smuovere l'intera impalcatura che, sin dall'unità, in Italia sorreggeva l'agire poliziesco, la novella legislativa non mutò affatto la sostanza di questi istituti, pur eliminando gli odiosi riferimenti alla pericolosità politica e reintroducendo alcune delle garanzie che il fascismo aveva inteso eliminare; ma vediamo brevemente la nuova disciplina.

Innanzitutto le figure soggettive cui le misure di polizia si applicano:

gli oziosi ed i vagabondi validi al lavoro; coloro che sono abitualmente e notoriamente dediti a traffici illeciti; coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti; coloro che siano "ritenuti" dediti al favoreggiamento o allo sfruttamento della prostituzione o alla corruzione dei minori o al contrabbando, o al traffico di stupefacenti, o alla gestione di bische clandestine o alle scommesse abusive nelle corse; coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica o al buon costume. La legge prevedeva da un lato due misure di competenza del questore: la diffida, cioè l'ingiunzione a cambiare condotta di vita, con l'avvertenza che in caso contrario si sarebbe fatto luogo all'applicazione di una delle altre misure previste; ed il foglio di via obbligatorio, emanato nei confronti di uno dei soggetti indicati se "pericoloso per la sicurezza o la morale pubblica", in base al quale è fatto obbligo di tornare al luogo di residenza vietando, per non più di tre anni, il rientro nel comune da cui si è allontanati (pena: l'arresto da un mese ad un anno).

Dall'altro tre misure di competenza dell'Autorità giudiziaria, la quale sarebbe intervenuta, su proposta del questore, nei confronti dei soggetti già diffidati che non avessero rispettato l'ingiunzione a cambiare condotta, qualora fossero ritenuti pericolosi per la sicurezza e la morale pubblica. Tali misure erano: la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza; il divieto di soggiorno; e l'obbligo di soggiorno, previsto solo per i casi di particolare gravità e con la possibilità di disporre in via cautelare l'arresto del confinando.

La riforma stabilì inoltre la possibilità di accompagnare tali provvedimenti con tutta una serie di prescrizioni (218) e reintrodusse quel minimo di garanzie procedurali che già Crispi avrebbe voluto nel suo T.U.P.S. (219).

Se, da un lato, non si può negare che la nuova disciplina rappresenta un netto miglioramento rispetto al testo fascista, dall'altro lato è altrettanto innegabile che le garanzie introdotte non cambiano in nulla la sostanza di tali istituti: le misure poliziesche, costruite secondo il canone delle norme costitutive, fondate su ipotesi di pericolosità o, peggio, di mero sospetto, oltre ad essere una patente lesione dei principi di «stretta legalità e giurisdizionalità», manifestano una perdurante volontà politica intesa a criminalizzare la marginalità sociale, gli stili di vita non conformisti e ad anticipare la sanzione penale fondandola sul mero sospetto di un reato commesso allorché non vi siano sufficienti elementi per avviare un'azione penale (220).

Com'è stato già sottolineato (221), la lesione del principio di stretta legalità svuota di senso tanto lo stesso principio di giursdizionalità, che la garanzia del diritto alla difesa: se il giudice, infatti, non è chiamato ad accertare dei fatti ma ad esprimere un giudizio sulla persona, sul suo stile di vita, egli non esercita un'attività giurisdizionale bensì amministrativa, agendo sulla base di parametri totalmente discrezionali, cui la stessa difesa nulla può opporre, se non generici richiami alla clemenza (222).

In proposito una ricerca empirica ha dimostrato come la giurisprudenza di merito, nel motivare i provvedimenti preventivi, utilizzasse solitamente delle formule di stile che, rispetto ai presupposti richiesti dalla legge, si riducevano a delle mere tautologie; evidenziando in questo una spiccata tendenza alla burocratizzazione del processo preventivo. Quando l'argomentazione si faceva più articolata, poi, non si andava oltre il riferimento alla «pubblica voce», al «si dice», al giudizio della comunità locale, ovvero agli stereotipi criminali d'impronta pseudo-sociologica largamente diffusi nell'opinione comune, che vedono in ogni soggetto marginale un potenziale criminale (223). La stessa previsione del diritto alla difesa riusciva completamente svuotata dall'estrema rilevanza che, nei procedimenti in questione, assumevano le "informazioni di polizia" (spesso basate sul giudizio della comunità locale, come accennato): unica base su cui la giurisprudenza di merito sembrava fondare la decisione sulla pericolosità del soggetto (224).

Da questi sommari rilievi risulta evidente quale efficacia dirompente potessero avere, rispetto all'intero sotto-sistema penale poliziesco, le considerazioni sui difetti di tassatività che la Corte aveva abbozzato nel 1956. Con le sue successive pronunzie, tuttavia, la stessa corte ha mutato completamente registro, mirando, piuttosto che ad una attenta verifica della legittimità del diritto di polizia, al salvataggio del sistema così come disciplinato dal legislatore repubblicano.

In particolare, con la fondamentale pronunzia nº 23 del 1964, essa ha inteso escludere (in evidente contraddizione con le sue stesse pronunzie precedenti) categoricamente che la sistemazione data alla materia nel 1956 soffrisse di una scarsa determinazione nei suoi presupposti, così: la nozione di oziosi e vagabondi non è stata ritenuta né vaga né equivoca poiché è "obbiettivamente identificabile, in base a nozioni di comune conoscenza e tenendo conto delle finalità della legge e delle misure di prevenzione, chi abitualmente non svolge alcuna attività lavorativa o, senza una ragione, non fissa la propria dimora, pur essendo in condizioni di trarre dal lavoro i necessari mezzi di sussistenza". Le figure di cui al nº 2, 3, 4, non sono state ritenute basarsi su semplici sospetti poiché "l'applicazione di quelle norme (...) richiede una oggettiva valutazione di fatti, da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona, o che siano manifestazioni della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni soggettive o incontrollabili". Il riferimento alla morale pubblica o al buon costume, infine, "si riferisce a quei comportamenti abituali che offendono quelle norme del costume proprie della comunità, la cui violazione costituisce un indice di pericolosità sociale, indipendentemente dal carattere delittuoso o non dei singoli fatti in cui essi si concretano" (225).

In questi reiterati riferimenti a "comportamenti che, pur non costituendo reato, siano sintomatici..." è evidente quella che indicammo come la funzione stessa del concetto di pericolosità: consentire l'intervento istituzionale, in chiave disciplinare e normalizzatrice, su una vasta schiera di comportamenti e stili vita marginali che, pur cadendo fuori dalla norma penale, afferiscono alla sfera di quella che abbiamo definito infrapenalità. Essi, inoltre, esprimono il perdurare intatta di una concezione criminalizzante della povertà, che chiama l'individuo ad assumersi la responsabilità per la sua condizione sociale disagiata.

In questo primo ventennio di storia repubblicana - per certi versi virtuoso sotto il profilo dell'introduzione di garanzie rispetto all'azione dell'Autorità - si è persa l'occasione di bandire definitivamente, nel silenzio della Costituzione, dal nostro ordinamento giuridico norme e prassi di polizia tipicamente disciplinari. Successivamente, infatti, non vi sarebbero state altre occasioni per la Corte di tornare sulla questione del fondamento costituzionale della prevenzione ante delictum e, d'altra parte, stava per aprirsi una stagione di forte regresso sul piano della tutela dei diritti individuali da cui, nonostante il nuovo codice di procedura, siamo ben lungi dall'essere usciti (226). Più in generale, come è stato lucidamente sottolineato, nella definitiva legittimazione degli istituti polizieschi si evidenziano le fortissime resistenze opposte alla cancellazione di alcune prerogative così importanti per la stessa azione amministrativa: "attraverso le misure di prevenzione - infatti - si permette agli organi di polizia di mantenere un livello costante di contatti con il c.d. «sottobosco criminale»; si permette, quindi, attraverso soprattutto la possibilità del ricatto e della minaccia - aspetto connesso all'ampia discrezionalità amministrativa - di rafforzare i rapporti simbiotici fra criminalità e forze di polizia" (227).

In questa fase, tuttavia, non furono solo le misure di prevenzione a subire delle modifiche in senso parzialmente garantista. Molti altri istituti polizieschi, infatti, subirono parziali ridimensionamenti.

Il movimento verso la realizzazione di un sistema penale più attento alle garanzie individuali sancite dalla carta Costituzionale, seppur ritardato dalle segnalate resistenze della cultura giuridica, portò - sul piano del diritto penale - alla mitigazione degli insostenibili livelli sanzionatori previsti dal codice del '30 ed - aldilà dell'abrogazione delle norme più odiosamente ed esplicitamente fasciste, o non più consone all'universo morale di un paese in rapido cambiamento, attuati anche grazie a diversi interventi della Corte Costituzionale (228)- al susseguirsi di diversi progetti di sistematica riforma ripetutamente caduti nel vuoto (229).

Per altro verso - sul piano dello scandaloso codice di procedura - si introdussero innanzitutto quei termini di durata massima della custodia cautelare (esplicitamente richiesti ormai dall'art. 13 cost.) che nel 1930 apparvero un limite inconcepibile all'azione inquisitoria: nel 1955 solo per la fase istruttoria (230) e, nel 1970 a seguito di un intervento della Corte costituzionale, anche per le restanti fasi processuali (231); anche se, complessivamente, il codice del 1913 sul punto appariva addirittura più garantista. Nel 1972, poi, si estese l'istituto della "libertà provvisoria" a tutti i "catturati", anche nei casi di cattura obbligatoria.

Nel 1955, inoltre, vennero ristretti i tempi entro cui l'Autorità giudiziaria deve provvedere sulla libertà del soggetto "fermato", prevedendosi un termine di novantasei ore (compatibilmente con la disciplina costituzionale ex art. 13), anche se venne inspiegabilmente confermata la facoltà di proroga, fino a sette giorni, del fermo; e venne inoltre abrogata quella forma di vero e proprio fermo di polizia di sicurezza attuabile al di fuori di qualsiasi indizio di reato.

Sempre nel 1955, poi, vennero introdotte diverse ipotesi in cui era consentita la presenza del difensore dell'indagato durante il compimento di alcuni atti istruttori (come nel caso dell'interrogatorio o della perquisizione domiciliare, tuttavia in atti fondamentali come l'esame dei testimoni o la perquisizione personale la difesa continuava a non essere ammessa), anche se - come sottolineava causticamente un autorevole osservatore - appare "insidioso questo fair play: il legislatore ha ereditato un leviatano inqusitorio e non se ne disfa ma a titolo esorcistico vi immette i riti della difesa" (232).

Nel 1969 infine, sull'onda della declaratoria d'incostituzionalità pronunziata con nel 1968 e di alcuni tragici episodi(tutt'ora avvolti da un fitto mistero) verificatisi nella questura di Milano, venne eliminata l'aberrazione dell'interrogatorio di polizia senza difensore.

4.4.2: «Modernismo penale» all'italiana Con gli anni '70 si apre una nuova stagione per il sistema penale (e sociale in generale) italiano, una stagione di profondo riflusso conservatore ed autoritario. Il movimento verso l'introduzione di alcune fondamentali garanzie per le libertà individuali e di parziale mitigazione dei poteri polizieschi troverà, infatti, una perentoria battuta d'arresto con l'inizio della cosiddetta legislazione d'emergenza.

Tuttavia, se da un lato una simile vicenda istituzionale pare aver segnato l'ennesima conferma di "una delle costanti dell'ordinamento penale italiano, quella delle leggi speciali, straordinarie, di emergenza e ad tempus, che tante volte erano andate e venute nella nostra storia" (233); dall'altro lato gli sviluppi futuri avrebbero indicato un radicale ribaltamento di prospettiva: il sotto-sistema penale ordinario si sarebbe trovato sempre più marginalizzato rispetto alla penalità effettivamente agita in Italia, mentre, viceversa, l'agire poliziesco - legittimato dalle ricorrenti emergenze e dalle pulsioni efficientiste - avrebbe definitivamente acquisito il ruolo di strumento centrale nell'economia complessiva del sistema di controllo sociale, dotandosi di nuovi e più pervasivi meccanismi d'azione.

Torneremo a breve su questa che pare essere una via tutta italiana al post-modernismo penale, prima però ci preme evidenziare quanto il preservarsi intatta della vocazione poliziesca e neutralizzativa del nostro sistema fosse in fondo il portato delle specificità economico sociali - oltre che culturali e politiche - del nostro paese. Specificità che hanno spostato nel tempo di qualche decennio, rispetto alle vicende d'oltre oceano o di altri paesi europei, il cristallizzarsi di un welfare state e di un modello correzionale di giustizia penale, basato sulla finalizzazione in senso special preventivo positivo della sanzione penale. L'Italia pare insomma aver avuto un abbozzo coerente di welfarismo penale solo a partire dalla seconda metà degli anni '70, esattamente in coincidenza con l'avvio dei processi di mutamento strutturale che danno inizio a quella fase dell'economia capitalistica da più parti ormai denominata «post-fordismo» - con i relativi sconvolgimenti strutturali e culturali - ed in paradossale concomitanza con il segnalato avvio di una nuova deriva autoritaria anche all'interno della cultura e della prassi penalistica italiana.

Il particolare sodalizio fra le tendenze politiche cattolico-liberali e progressiste avvenuto in seno all'Assemblea Costituente - che ha portato alla formulazione di un testo aperto a recepire le istanze solidaristiche ed a delineare il profilo del nuovo stato secondo quelli che comunemente sono ritenuti i tratti peculiari del welfare state (234) - si ruppe quasi immediatamente dopo il termine dei lavori dell'Assemblea e, probabilmente anche per il mutato scenario internazionale, i governi che si succedettero alla guida del paese nel suo primo decennio di storia furono caratterizzati da una marcata impronta conservatrice (alludiamo all'era D.C., 1948-1958, durante la quale le forze politiche di sinistra furono totalmente estromesse da ogni funzione governativa). In questa fase si assistette alla marcata tendenza verso lo svuotamento sistematico del significato e della portata delle previsioni più progressiste contenute nella neonata carta costituzionale ed al tentativo di instaurare una forma di Stato molto più simile al modello prefascista, seppur in un quadro repubblicano, che al modello tracciato dalla Costituzione. Tale tendenza non è contraddetta dai (timidi e di facciata) tentativi di riforma avviati negli anni '50: come la riforma agraria (la cosiddetta "riforma Segni") che interveniva in maniera assolutamente non soddisfacente sull'inveterata questione dell'assegnazione della terra ai contadini e dell'eliminazione del latifondo al sud, anche per le immediate esigenze di ordine pubblico che le violente proteste contadine che, già dal 1949, si erano scatenate ponevano (235); trovando piuttosto conferma nel perdurare di quella cultura conservatrice e borghese - di cui le citate sentenze della Corte Costituzionale sono un perfetto esempio - che criminalizza la povertà e relega le politiche sociali sul piano poliziesco e penale.

Un autorevole giudizio, del resto, aveva da subito lucidamente segnalato che "la nuova costituzione italiana rischia di riuscire piuttosto che l'attestazione di una raggiunta stabilità legale, la promessa di una trasformazione sociale che è appena agli inizi. Questo spiega perché molti degli articoli che vi saranno inclusi conterranno invece che la garanzia di diritti già acquisiti e di istituzioni già fondate, propositi e preannunci di rivendicazioni sociali che per ora sono soltanto sogni dell'avvenire" (236).Ed infatti l'attuazione di tutta quella serie di principi che discendono dal disposto dell'art. 3.2 Cost. e dell'art. 4 Cost., meglio specificati nei Titoli II e III della Parte I della nostra carta costituzionale (237), necessitava di una serie di interventi riformatori che, ancora in maniera parziale e frammentata, verranno avviati solo a partire dalla stagione del "centro-sinistra" (che inizia nel 1962 con l'appoggio parlamentare esterno del P.S.I. al governo Fanfani e poi con la partecipazione al primo governo Moro, l'anno successivo), per poi proseguire fino agli anni '70, ma senza mai corrispondere per la verità ad un coerente ed incisivo progetto (238).

Fu solo con gli anni '60, dunque, che si diedero le condizioni anche politiche affinché l'abbozzo di istituzioni sociali (soprattutto nel campo previdenziale) ereditato dall'epoca post-unitaria fosse sviluppato (239); anche se non fu mai eliminata la tara originaria del nostro welfare: il suo connotarsi come «Stato Previdenziale», più che «Sociale», stante l'ipertrofia delle forme assicurative e variamente protettive del lavoro dipendente che lo hanno da sempre caratterizzato (a partire dai classici schemi previdenziali, a finire con le varie forme di cassa d'integrazione ordinaria, straordinaria o i prepensionamenti), a fronte di una totale assenza di forme di tutela per i lavoratori in cerca di prima occupazione. I meccanismi di assistenza pubblica sono, infatti, da sempre riservati esclusivamente alle persone non più idonee all'attività lavorativa (gli inabili) - o al limite alle madri sole con figli a carico - cui il T.U.P.S. fascista, per il retaggio di una pratica secolare, consacrava alcune disposizioni all'interno del titolo dedicato alle "persone pericolose per la società" (240).

È questo un tratto peculiare del nostro stato sociale su cui preme soffermarci, poiché quando si parla di «Stato Previdenziale» s'intende appunto indicare un sistema in tutto e per tutto proteso alla esclusiva tutela dei lavoratori già occupati e completamente dimentico della disoccupazione, se non quando si tratti di insiders che perdono il lavoro per motivi che esulano dalla loro volontà (241). L'assenza di una qualsiasi forma d'assistenza rivolta ai disoccupati in cerca di prima occupazione ben si sposava - nel mantenere elevato lo stimolo al lavoro - con la struttura del nostro mercato del lavoro, che appariva da un lato marcatamente segmentata e dall'altro costantemente attanagliata da un'enorme eccedenza di forza lavoro (242).

Nel dopoguerra, infatti, le particolari condizioni di arretratezza ed i rapporti sociali di stampo pre-capitalistico nel mezzogiorno (che abbiamo visto resistere sotto forma di latifondo per tutto il XIX secolo) non scomparirono e ciò nonostante le (timide) riforme agrarie e l'avvio di programmi di sviluppo come la cassa per il mezzogiorno (243). Fu, infatti, su queste basi che si posero i presupposti per una seconda imponente migrazione di massa e probabilmente è sul persistere di questi profondi squilibri sociali che poggiò lo stesso sviluppo industriale del nord, il quale (come del resto avvenne per altre regioni del nord Europa) poté fare affidamento su una massa sconfinata di braccia da impiegare a buon mercato.

Tutto sommato, però, questi stessi anni sono gli anni del cosiddetto «boom» economico, sono gli anni in cui il nostro paese riuscì a mettersi al passo delle nazioni economicamente più sviluppate: nei decenni che vanno dal 1951 al 1971 l'Italia registrò un tasso di crescita industriale che non ha eguali in tutta Europa e pose le basi per il sorgere di un modello di produzione industriale fordista, centrato sulla grande fabbrica. Ovviamente i mutamenti strutturali non sono senza conseguenze sulla composizione sociale del paese ed, infatti, nello stesso periodo (fase che qualcuno ha chiamato di «fordismo maturo» (244)) appare all'orizzonte l'«operaio massa», "privo di una specifica formazione professionale, giovane di età e immigrato, spesso, dalle regioni meridionali" (245).

In quest'epoca l'Italia è ormai un paese industrialmente maturo, perlomeno al settentrione (il mezzogiorno meriterebbe un discorso a parte e non è certo possibile sviscerare in questa sede le ragioni della sua mancata industrializzazione), e presenta i tratti di una stratificazione sociale tipicamente industriale (con aspri conflitti sociali annessi e connessi), tuttavia conserva la peculiarità di un mezzogiorno che continua, ad un secolo dall'unità, a rappresentare la riserva di manodopera per l'economia industriale non solo italiana. Ciò che ci preme sottolineare - e che più interessa ai fini del nostro discorso - è come in questa fase tipicamente fordista dello sviluppo capitalistico italiano, non si riscontrino né le condizioni strutturali di «carenza» di manodopera, né le strategie di controllo sociale ritenute dalla maggior parte degli osservatori tipiche della fase fordista dell'economia capitalistica, appunto perché idonee al recupero produttivo del maggior numero di braccia possibile.

"Mentre nel resto dei paesi occidentali erano già ampiamente operanti principi di organizzazione fondati sulle ideologie del recupero e del reinserimento, nelle carceri del nostro paese l'internato poteva ancora essere legato al letto di contenzione, rinchiuso in celle col tavolaccio a pane e acqua, assicurato alla camicia di forza" (246) e lo status di disoccupato continuava, così come tra xix e xx secolo, ad essere penalizzata per mezzo dei testi di pubblica sicurezza e delle norme, ivi contenute, dedicate agli oziosi e vagabondi.

L'Italia come anticipavamo, mette a durissima prova il modello teorico utilizzato per distinguere, nell'evoluzione delle strategie di controllo sociale messe in campo dalle nazioni capitalisticamente avanzate, una fase di «modernismo penale» ed una di «post-modernismo penale». Anche perché, nonostante la profonda arretratezza dei suoi strumenti di controllo sociale e, per certi versi, della sua stessa struttura sociale, essa conosce tra il 1948 e la metà degli anni '70 un'epoca di marcata deflazione carceraria (247). La questione, dunque, merita di essere meglio specificata.

Non vi è dubbio, infatti, che l'Italia, anche nella sua fase di "boom" economico, abbia solamente approssimato lo stato di «piena occupazione»: il minimo storico si registra nel 1963, quando il tasso di disoccupazione scende al 3,1 %, in coincidenza però con il picco di espatri, il che ridimensiona di molto l'idea che quel tasso fosse dovuto alla capacità del nostro sistema di assorbire un elevato livello di manodopera (248). Da questo punto di vista, dunque, sostenere che sia esistita una carenza di manodopera è, in riferimento alle vicende di casa nostra, perlomeno complicato. Rispetto alla nostra struttura economico-sociale pare calzare piuttosto (perlomeno fino al momento in cui le proteste operaie non ne spezzeranno il circolo vizioso) la marxiana legge generale dell'accumulazione capitalistica (249). Posto che "l'eccedenza demografica sulla terra soprattutto nel Mezzogiorno rappresenterà uno dei fattori permissivi dell'intenso sviluppo industriale nelle regioni del Triangolo industriale negli anni del cosiddetto miracolo economico" (250).

Certo però il sistema di produzione fordista, nonostante non richiedesse particolari qualifiche professionali, imponeva dei ritmi di lavoro che determinavano una sorta d'intrinseca selettività nell'occupazione industriale. In particolare poi l'aumento di produttività perseguito dalle più grandi aziende a partire dagli anni '60, venne raggiunto senza un incremento corrispondente della forza lavoro impiegata, il che implicò un'ancor più marcata selettività del sistema (251). È chiaro che tale dinamica della produttività implicava seri problemi di disciplinamento della manodopera: come già segnalava Antonio Gramsci (252), il «gorilla ammaestrato» di cui parlava Ford, in grado di sopportare i massacranti ritmi di lavoro imposti, andava indubbiamente creato ex novo ed a riguardo il sistema industriale tendeva a privilegiare un tipo di manodopera con caratteristiche psico-fisiche che denotassero una particolare adattabilità (ed era indubbiamente il caso dei giovani maschi meridionali).

Forse solo sotto questo profilo, dunque, è corretto definire "carente"la forza lavoro italiana in epoca di fordismo maturo, poiché entro certi limiti effettivamente "inadeguata, riluttante" (253). Carente quindi su di un piano "qualitativo", sul piano dell'adattabilità ai ritmi di lavoro imposti e non sul piano "quantitativo" (perlomeno in Italia), posto che fu proprio l'enorme surplus di forza lavoro a fare le fortune del capitalismo nostrano. Se, però, in questa fase storica non è dato riscontrare in Italia l'esistenza di meccanismi di controllo volti al recupero sociale (e produttivo) degli individui, c'è da credere che tali carenze di tipo qualitativo che la selettività della domanda di lavoro nei settori centrali della nostra economia avrebbe dovuto determinare, furono risolte attraverso lo sviluppo delle propensioni disciplinari dell'"istituzione fabbrica". Saranno le lotte operaie di fine anni '60 ad allentare per la prima volta la morsa disciplinare in cui il capitale strinse il lavoro, conquistando, a prezzo di durissime lotte, migliori condizioni di lavoro ed aumenti salariali. In questa sede, però non è possibile, né necessario, andare oltre questi semplici accenni.

In breve: durante l'apogeo del modello di produzione fordista in Italia (periodo che è circoscrivibile in un'epoca forse un po' più ristretta rispetto al cosiddetto "trentennio glorioso", ma che comunque si avvia a partire dalla fine degli anni '50, per durare almeno fino alla metà degli anni '70) non esiste ancora né un Welfare State paragonabile a quello di altri paesi del mondo industrializzato, né, tanto meno, il modello di controllo penale ad esso corrispondente, cioè un sistema di giustizia penale correzionale basato sull'ampio utilizzo di strategie decarcerizzanti e ciò nonostante i propositi costituzionali di stampo riformistico.

Pare pertanto difficile poter spiegare la grande deflazione carceraria avutasi in Italia nei primi decenni del dopoguerra, con l'idea dell'esistenza anche nel nostro paese di un coerente «welfarismo penale» in grado di offrire risposte alle esigenze di manodopera poste dal sistema di produzione di massa. Lo status di disoccupato in cerca di prima occupazione, infatti, continuava ad essere caratterizzato da un totale vuoto di tutela che ben si prestava - in un ottica perfettamente liberista - a rendere maggiormente auspicabile qualsiasi posizione lavorativa rispetto allo stato di totale abbandono e di pauperismo estremo. Inoltre, nel far funzionare il principio della less eligibility, il vuoto di politiche sociali trovava il dovuto supporto ideologico in una concezione liberista e stigmatizzante della povertà, cui calzava a pennello la severità con la quale nostro sottosistema penal-poliziesco continuava a colpire gli "oziosi e vagabondi" e lo zelo con cui la normativa penale e processuale sanzionava tale status, ora criminalizzando esplicitamente l'accattonaggio o il possesso ingiustificato di valori, ora ampliando a dismisura i poteri di fermo e di arresto (nonché di cattura) della polizia giudiziaria, allorché fosse colpito da un qualche sospetto un individuo la cui "condizione morale o sociale" non fosse sufficientemente degna.

Esattamente come accadeva nel XIX secolo le classi marginali, lungi dall'avvantaggiarsi di programmi di riforma sociale, continuavano ad essere esposte ad un severo controllo poliziesco, il minimo segno di disordine morale, il minimo tentativo di sfuggire all'incasellamento disciplinare, di darsi al "vagabondaggio", all'"ozio", continuava a renderli passibili di reclusione.

In aperta contraddizione con i progressisti (anche sul piano delle politiche penitenziarie) propositi costituzionali, la tutela accordata dal nostro sistema alla marginalità sociale continuava a conservare i caratteri di una «tutela poliziesca»: le uniche istituzioni d'"assistenza" in grado di farsi carico della povertà resteranno, anche nel dopoguerra, l'Autorità di pubblica sicurezza e l'amministrazione penitenziaria.

Le ragioni di tale incongruenza rispetto ai valori sanciti dalla costituzione sono ardue da individuare. Indubbiamente la situazione socio economica appena delineata non favorì, a lungo, lo sviluppo di una volontà politica volta a concretizzare una piena cittadinanza sociale e coerenti progetti di riforma del sistema penale e penitenziario; il lavoro, come accennammo, restò per molto tempo un bene assai inflazionato in Italia e, più dell'esigenza di recuperarlo al processo produttivo, valse l'esigenza di governare, nella maniera che presentava minori costi sociali e politici, l'enorme surplus di manodopera (254).

Parallelamente, le spinte riformatrici rimasero a lungo bloccate: negli anni del dominio assoluto della Democrazia Cristiana e fino alla fine degli anni '60 l'Italia presentò, come detto, solo un abbozzo di stato sociale. Del resto il modello correzionale sviluppato in tutti i moderni sistemi di welfare - basato su un largo utilizzo di strategie decarcerizzanti - necessita, come è stato giustamente segnalato (255), di un adeguato sviluppo di quelle agenzie statali socio-assistenziali che l'Italia ancora non conosceva al di fuori dell'esperienza del volontariato e delle istituzioni ecclesiastiche; e peraltro, su questo stesso piano, già abbondantemente fallimentare si era rivelata l'esperienza delle case di lavoro e delle colonie agricole previste come misure di sicurezza dal codice del '30.

È chiaro come in questo quadro il nostro sistema penale abbia continuato a sviluppare quelli che erano i suoi tratti originari, accentuando la sua propensione poliziesca e neutralizzativa, contribuendo a gestire quella massa d'individui che, seppur fondamentale per lo sviluppo del capitalismo nostrano, continuava a porre, specie a seguito degli imponenti processi d'urbanizzazione (ma anche nelle stesse campagne, che prima di spopolarsi nuovamente a seguito della seconda grande emigrazione, videro il sorgere di diversi focolai di protesta, con l'occupazione delle terre e, ancora, molto sangue versato (256)), seri problemi di ordine pubblico e non pochi episodi d'intolleranza e rifiuto.

Il persistere - seppur spogliato dai riferimenti alla struttura biologica e razziale - del classico stereotipo del meridionale criminale testimonia peraltro quali direzioni prendesse l'azione di controllo sociale e come la "questione meridionale" continuasse, in un sentire comune tutto sommato ancora parecchio radicato, ad identificarsi con la "questione criminale". Le statistiche penitenziarie peraltro riflettono esattamente tali processi di criminalizzazione delle masse meridionali ed in generale della marginalità sociale, in perfetta corrispondenza con quella che è la funzione del sistema penale in una società diseguale: nell'ambito della quale "il carcere, come segmento terminale ed essenziale del processo selettivo di produzione e riproduzione delle distanze sociali operato dal sistema della giustizia penale, adempie (...) alla funzione di contenitore della marginalità economica, sociale, culturale" (257).

Era insomma la figura del giovane maschio meridionale ad essere sovra-rappresentata nelle nostre statistiche penitenziarie, in perfetta corrispondenza con i processi di criminalizzazione che sin dall'epoca post-unitaria abbiamo visto avviarsi. È chiaro, infatti, che ad una continuità di fondo nella struttura sociale italiana - passata indenne con tutti i suoi squilibri dall'epoca liberale all'epoca repubblicana - non può che corrispondere una parallela continuità nelle strutture e nelle funzioni dei meccanismi di controllo sociale.

In questo quadro se è possibile parlare del periodo che va dal 1946 agli anni '70, come il periodo della grande deflazione carceraria è probabilmente perché, nonostante l'enorme eccedenza di forza lavoro meridionale ed il vuoto di garanzie sociali che continuava ad accompagnare la condizione di disoccupato, vi furono diverse circostanze ad agire in senso contrario, consentendo così alle nostre statistiche penitenziarie di toccare il loro minimo storico.

A parte il nient'affatto trascurabile ruolo dell'emigrazione, che, come già nel primo ventennio del XX sec. contribuì ad abbassare significativamente il peso demografico dell'eccedenza di forza lavoro meridionale, probabilmente anche altri fattori di matrice prevalentemente culturale agirono in tal senso: in primo luogo il fatto che in questo periodo, ed almeno fino ai fatidici anni '70 (quando inizierà una nuova stagione delle emergenze, l'ennesima della nostra storia patria), l'Italia sia del tutto esente da richieste di elevata penalità materiale, posto che conflitti e crisi sociali tendenzialmente non vengono espressi attraverso un «vocabolario punitivo», e difficilmente i soggetti coinvolti vengono rappresentati attraverso la lente di uno stereotipo criminale e concetti quali "pericolosità" o "delinquenza". Ciò perché era indubbiamente molto radicata e diffusa la percezione della criminalità come questione politica, tanto più che essa normalmente veniva identificata con la "questione meridionale", questione politica per eccellenza. Ma anche perché le stesse classi subalterne, su cui fa solitamente presa lo stereotipo criminale, vivevano allora una fase di estrema politicizzazione e di radicale impegno per la conquista delle riforme, che diede loro modo di sviluppare un senso di diffidenza e sfiducia nei confronti del sistema penale e del suo braccio armato (diffidenza ovviamente ancor più radicata, nelle masse meridionali) entrambi visti come elementi fortemente conservatori (258). Il discorso delle sinistre riuscì probabilmente ad egemonizzare il dibattito sulla povertà e sull'emarginazione delle masse che affluivano verso i centri urbani, evitando che esso scivolasse sul piano del «vocabolario punitivo» ed impedendo che lo stereotipo criminale allora circolante avesse modo di radicarsi ulteriormente nell'immaginario dei ceti medio bassi dei grandi agglomerati industriali.

D'altra parte poi, questa stessa diffidenza nei confronti della violenza istituzionale dovettero provarla anche diversi esponenti dell'elite dirigente del paese, se è vero che molti di loro ebbero a subire la violenza della repressione fascista.

Si spiega forse così la prassi estremamente indulgenziale che connotò a lungo, in risposta ai segnalati elevati livelli sanzionatori del codice fascista, l'attività della nostra magistratura, la quale tendeva ad applicare i minimi di pena previsti e l'azione dello stesso legislatore repubblicano, che fece ampio ricorso allo strumento della politica clemenziale, in consonanza peraltro con certi aspetti della cultura cattolica italiana, indulgente, attenta al valore della persona umana ed aperta verso una certa cultura solidaristica pronta a sottolineare la responsabilità sociale nei confronti del disagio e della povertà (259).

Per mezzo della politica delle amnistie, inoltre, si ottenne l'effetto di regolare il quantitativo di penalità materiale che il nostro sistema penitenziario era in grado di reggere. E l'efficacia di tale strategia di governo dell'istituzione è riscontrabile nel fatto che, nel quadro di una costante riduzione del tasso d'ingressi in carcere, nelle nostre statistiche penitenziarie sia dato rilevare ciclici innalzamenti del tasso di usciti che, per almeno i primi venticinque anni della nostra storia repubblicana, compenseranno perfettamente le entrate (260).

Quest'insieme di fattori impedirono probabilmente che si venissero a riprodurre i livelli di criminalizzazione della questione sociale che l'Italia aveva conosciuto alla fine del XIX e, se pur non mancarono i giovani meridionali di essere sovra-rappresentati all'interno delle nostre patrie galere o di morire ancora sotto il fuoco della Celere (261), non si assistette a quell'enorme processo di carcerizzazione che ci si sarebbe potuti aspettare, stante i livelli di sovrappopolazione relativa che l'Italia nel dopoguerra ancora presentava.

Lentamente, sotto la spinta sempre più insistente dei movimenti sociali, dell'azione delle sinistre e dei sindacati, l'Italia stava avviandosi ormai verso la costruzione di uno stato sociale degno di un moderno paese industrializzato. Con gli anni '70, a conclusione di un lungo ed incerto periodo di riforme, si era ormai dotata di tutti gli istituti tipici del welfare state (se ovviamente si escludono gli strumenti di tutela per i soggetti in cerca di prima occupazione). Ed alle riforme effettuate sul piano previdenziale e dell'assistenza sociale, nel settore sanitario e dell'istruzione - per non considerare la promulgazione di un testo cardine come lo statuto dei lavoratori - si affiancavano i segnalati tentativi di rendere più accettabile un sistema penale dall'impronta pesantemente repressiva.

Come vedremo a breve gli anni '70 segneranno, soprattutto sotto il profilo delle politiche criminali, una radicale inversione di tendenza, tuttavia, ancora in questi anni, l'onda lunga del riformismo - che le proteste sociali erano finalmente riuscite ad accelerare - determina gli ultimi effetti prima del riflusso.

Fra questi vi è sicuramente la riforma penitenziaria. La quale, come è stato giustamente segnalato, fu una "trionfale affermazione della filosofia della risocializzazione" (262), che veniva a concretizzare il principio costituzionale sancito dall'art. 27.3, rimasto per quasi trent'anni lettera morta.

La riforma peraltro avveniva sotto l'egida di una vasta convergenza di culture che, da un lato, vedeva l'ala cattolica più indulgente e solidale maturare la convinzione della necessità "di un impegno positivo dello stato nei confronti del delinquente al fine di agevolarne il reinserimento sociale" (263) e dall'altro alcuni settori della cultura di sinistra favorevoli a "progetti penali di tipo pedagogico e risocializzante" (264). Convergenza identica peraltro a quella avutasi in seno all'assemblea costituente, ed espressasi nella formulazione dell'art. 27.

D'altra parte poi, essa interveniva sulla vergogna del nostro sistema penitenziario, ancora immutato a trent'anni dalla fine del regime e su una situazione di radicale crisi dell'istituzione, che aveva conosciuto a partire dal 1969 violente rivolte, nonché il sorgere di movimenti di protesta spesso legati ai coevi movimenti studenteschi ed alla sinistra extraparlamentare (265).

È in questo quadro, dunque, che l'Italia repubblicana concretizza quella che è forse l'ultima delle grandi riforme che segnarono un intero ciclo politico-economico, impostando l'esecuzione della sanzione penale secondo i postulati del modello correzionale. E ciò avviene, forse non a caso,nel momento in cui si gettano le basi per una più capillare presenza «nel sociale» delle agenzie del welfare, grazie al riordino della materia dell'assistenza sociale e dell'assistenza ospedaliera, la cui competenza verrà devoluta ai neo-istituiti enti locali, creando le condizioni minime per poter approntare una decente politica di decarcerizzazione.

Il modello delineato nel 1975 si basava, infatti, secondo l'originale matrice dei modelli correzionali, sull'osservazione scientifica della personalità del condannato e sul "trattamento individualizzato", che avrebbe consentito di diversificare la risposta sanzionatoria a seconda delle esigenze del reo, consentendogli eventualmente l'accesso ad una delle misure alternative al carcere previste. Insomma "la personalità del condannato costituiva il metro della nuova flessibilità della pena" (266).

Si era dunque di fronte al definitivo accoglimento nel nostro ordinamento delle esigenze special preventive positive e di "quel generale processo di territorializzazione del controllo penale che i sistemi giuridici occidentali più avanzati avevano già ampiamente sperimentato" (267). Per la prima volta nella storia del nostro sistema penitenziario, il lavoro veniva "caricato della tradizionale funzione pedagogica di «educazione all'obbedienza»" (268).

Trasformandosi "da scuola di violenza" in "palestra di obbedienza" (269), il nostro sistema carcerario aspira ad assumere quella funzione disciplinare positiva radicata da secoli nelle aree di cultura protestante, assumendo l'esplicito compito di farsi carico del "corpo" dei detenuti in quanto sede della loro "anima".

La crisi della stessa special prevenzione positiva, tuttavia, non avrebbe mancato di farsi sentire anche all'interno del nostro sistema, arrivando a stravolgere l'originaria impostazione a favore di un sistema finalizzato alla deflazione ed al mero governo del carcere. Il riflusso sarà quasi immediato ed una riforma dalla gestazione così lunga subirà la più rapida delle controriforme. Ma questa è già un'altra storia.

4.4.3: Sottosistema penale di polizia. L'anamorfosi di fine secolo Gli anni '70 chiudono la stagione delle riforme e più in generale un intero ciclo politico-economico. In questo decennio, infatti, si collocano comunemente la morte della "social-democrazia" e l'avvio dei processi socio-strutturali di transizione al cosiddetto post-fordismo.

In Italia, tuttavia, questi anni saranno ricordati anche per altre ragioni. Essi passeranno alla storia come gli «anni di piombo», gli anni dell'attacco armato alla democrazia, dell'emergenza terrorismo e delle leggi eccezionali.

Aldilà dei mutamenti epocali che anche la struttura sociale italiana inizia a registrare (su cui avremo peraltro modo di soffermarci) l'ennesima emergenza avvia un impressionante processo evolutivo all'interno delle strutture giuridiche del nostro sistema di controllo sociale, trasformandolo definitivamente in un sistema a prevalente carattere poliziesco e disciplinare.

È in questi anni che inizia quella che è stata chiamata la "perenne emergenza" (270) e che si avvia l'«anamorfosi del sistema», "con la messa a punto di una macchina penale allo stesso tempo efficientista e simbolica, motivata come risposta alla sfida del terrorismo, ma che poi, con una tenuta ideologica maggiore di questo, sarebbe sopravvissuta agli anni di piombo riproducendosi in ragione di sempre nuove emergenze" (271).

Come già all'epoca del brigantaggio e delle altre emergenze che hanno contrassegnato la nostra storia, la salus rei pubblicae diviene suprema lex, schiacciando la ragione giuridica ed i diritti individuali sotto il peso dell'esigenza di difendere la collettività da - spesso quanto mai opportuni - «nemici pubblici», supposti o reali che fossero.

Nel volgere di un lustro (1974-1979) le timide riforme in senso garantista che abbiamo visto, saranno spazzate via e la stessa, agognata, riforma penitenziaria sarà definitivamente stravolta.

È in questa fase, proseguita con reiterate emergenze nel corso degli anni successivi, che l'Italia costruisce le basi giuridiche su cui si reggeranno i propositi di law and order di fine XX secolo. È nella metà degli anni '70 che in Italia come altrove, seppure con modalità profondamente diverse e del tutto particolari, si avvia un lungo e profondo movimento reazionario che seppellirà definitivamente i valori della social-democrazia.

Sul piano del diritto penale questa stagione si segnala soprattutto per la deprecabile tendenza, d'ascendenza spiccatamente fascista, ad arretrare la soglia di punibilità sino alla punizione delle mere intenzioni. Oltre alle norme introdotte dalla famigerata «legge Reale» (L. nº 152 del 1975) - dall'estensione sino all'indefinito del concetto di "arma impropria", ai divieti di calzare durante le manifestazioni caschi protettivi o di coprirsi il volto, sino all'estensione dei casi di uso legittimo delle armi da parte della forza pubblica - un'altra famigerata legge eccezionale (la nº 15 del 1980, cosiddetta «legge Cossiga») arricchì il novero, già cospicuo peraltro, delle fattispecie associative, creando l'art. 270-bis (associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico) e prevedendo l'aggravante speciale della «finalità di terrorismo» per molti reati comuni (272).

Probabilmente, però, è sul piano del diritto processuale penale che si registrano le più significative novità.

La svolta si avvia inizialmente con interventi di varia natura intesi ad allargare i poteri istruttori e sulla libertà individuale attribuiti all'Autorità di pubblica sicurezza (273): così la L. nº 497 del 1974 reintroduce, per i soggetti arrestati o fermati e con la garanzia della presenza del difensore, l'interrogatorio di polizia - eliminato, come visto, nel 1969; che verrà poi allargato dalla L. nº 191 del 1978 anche agli indiziati - oltre che arrestati o fermati - di alcuni gravi reati, per i quali non sarà però prevista la presenza del difensore.

La reintroduzione della facoltà di torchiare liberamente, sine strepitu advocatorum, anche i semplici indiziati è, per la verità, privata di ogni rilevanza probatoria aldilà della prosecuzione delle indagini di polizia. Tuttavia non era affatto esclusa l'utilizzabilità delle dichiarazioni "spontaneamente" rilasciate nelle confortevoli stanze di questure e commissariati (274).

Anche i poteri di perquisizione vennero estesi a norma della legge Reale: la quale stabilì che in "casi di necessità ed urgenza" la polizia giudiziaria potesse procedere all'identificazione e perquisizione sul posto, per accertare il possesso di armi, esplosivi e strumenti d'effrazione in capo a persone "il cui atteggiamento o la cui presenza, in relazione a specifiche circostanze di tempo e di luogo, non appaiono giustificabili".

Nel 1980, infine, con la legge Cossiga la possibilità di operare perquisizioni motu proprio da parte degli agenti di pubblica sicurezza fu ulteriormente estesa nel caso in cui si stesse procedendo, in relazione ad alcuni specifici reati, al fermo o all'arresto di un indiziato, ovvero alla cattura di un imputato o condannato; nonché - previa autorizzazione, anche telefonica, da parte del Procuratore della repubblica - nel caso in cui si dovesse procedere a perquisizioni domiciliari di "edifici o interi blocchi di edifici", qualora vi fosse fondato motivo di ritenere che potessero trovarvisi la persona ricercata, cose da sottoporre a sequestro o tracce a rischio di essere cancellate o disperse.

L'atmosfera bellica che evocano simili disposizioni si preserva intatta passando ad esaminare la drastica reformatio in peius attuata sulla disciplina della libertà personale.

Già nel '75 la legge Reale allarga i presupposti del fermo, stabilendo essere necessari non più i "gravi", bensì i "sufficienti indizi" (275), iniziando un opera che sarebbe stata completata dal decreto legge nº 625 del 1979 (poi convertito nella citata legge Cossiga). Il quale avrebbe reintrodotto temporaneamente (la proroga dell'istituto è stata reiterata fino al 1981) quel fermo di polizia di sicurezza già abrogato nel 1955, stabilendo che "quando, nel corso di operazioni di polizia di sicurezza volte alla prevenzione di delitti, se ne appalesi l'assoluta necessità e urgenza, gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza possono procedere al fermo di persone nei cui confronti, per il loro atteggiamento ed in relazione alle circostanze di tempo e di luogo, si imponga la verifica della sussistenza di comportamenti ed atti che, pur non integrando gli estremi del delitto tentato, possano essere tuttavia rivolti alla commissione dei delitti indicati nell'articolo 165-ter del codice di procedura penale o previsti negli art. 305 e 416 c.p." (276).

Peraltro, già nel 1978, con la L. nº 191 era stato introdotto il fermo per l'identificazione di chi, richiesto si rifiutasse di fornire le proprie generalità o il suo documento d'identità, esteso anche nel caso in cui vi fossero sufficienti indizi per ritenerne la falsità.

Oltre all'estensione dei poteri di polizia giudiziaria, anche il terreno dell'attività strettamente amministrativa, rappresentato dalle misure di prevenzione, viene esteso nel 1975 dalla legge Reale: la quale stabilisce che gli aggravi procedurali introdotti nel 1965 in relazione agli indiziati di appartenere alla mafia vengano estesi a tutte le figure soggettive previste dal testo del '56 - tranne gli "oziosi e vagabondi" e "coloro che svolgano abitualmente attività contraria alla morale pubblica ed al buon costume" (277); nonché a coloro che, isolatamente o in gruppi, pongano in essere atti preparatori (ovviamente non idonei, altrimenti si avrebbe un tentativo di reato) obbiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l'ordinamento dello stato con la commissione di uno dei delitti previsti dal Capo I, Titolo II, Libro II c.p. o da tutta una serie di altre disposizioni dello stesso codice (278); a coloro che abbiano fatto parte ad associazioni disciolte ex L. nº 645 del 1952, che in relazione ad un loro comportamento successivo si ritiene continuino a svolgere attività analoga, ovvero compiano atti diretti alla ricostituzione delle suddette associazioni (279); ed, in ultimo, a coloro che, fuori dai casi precedenti, già condannati per un delitto concernente le armi debbano ritenersi "proclivi a commettere un reato della stessa specie con finalità di sovversione".

Ma - aldilà della possibilità attribuita alle forze dell'ordine di fermare chicchessia con qualunque pretesto, di perquisirlo e torchiarlo a dovere, nonché, qualora gli elementi raccolti risultino insufficienti, di spedirlo al domicilio coatto per qualche tempo, senza alcuna necessità dell'intervento preventivo di un magistrato; possibilità giustificata con il ricorso alla comoda quanto generica risorsa concettuale dell'emergenza (280) - anche la stessa azione della magistratura inizia, sull'onda dei medesimi interventi legislativi eccezionali, ad accentuare il suo carattere poliziesco ed inquisitorio.

Uno degli istituti più caratterizzanti in questo mutamento d'indirizzo - si ricordi che, come segnalato, fino agli anni '70 la prassi della giurisprudenza di merito era stata a tratti apertamente indulgenziale - è quello della cattura.

Della sua rilevanza nell'economia complessiva dei meccanismi di controllo sociale ci danno conto le statistiche penitenziarie: tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '80, la cifra degli entrati in carcere passa dall'oscillazione tra le 47.000 e le 50.000 unità ad un'oscillazione tra le 90.000 e le 110.000 unità; mentre la percentuale di detenuti presenti in attesa di giudizio passa, nello stesso periodo, da un - pur consistente - 40-50% ad uno spaventoso 68% (281). Ma, oltre il dato statistico, è la stessa, profonda, continuità storica tra la carcerazione preventiva ed i classici meccanismi polizieschi su cui si è sempre basata l'efficacia repressiva del nostro sistema a rendersi esplicita in questi anni.

Se, come già si è sostenuto (282), il nostro sistema penale nasce e forgia i suoi strumenti più caratterizzanti (istituti polizieschi e stati d'assedio in epoca liberale, polizia politica e tribunali speciali durante il "ventennio") nel confronto con varie "emergenze" (lotta al brigantaggio, repressione delle associazioni anarchiche e socialiste, delle rivolte contadine e degli oppositori politici del regime fascista), esso in epoca repubblicana non si spoglia affatto del suo tradizionale abito poliziesco. Piuttosto il suo "tratto originario" si preserva intatto nel passaggio alla nuova forma di stato, restando per così dire "incubato" nel primo trentennio del dopoguerra e rinascendo a miglior vita allorché la situazione sociale e politica è propizia per un nuovo spostamento sul piano del «vocabolario punitivo» della conflittualità sociale. L'occasione la fornisce la prima emergenza della storia repubblicana.

La vicenda della carcerazione preventiva è, dunque, particolarmente rilevante in quest'epoca poiché è dagli anni '70, con l'emergenza terrorismo, che essa acquista il ruolo di strumento principale nell'arsenale di meccanismi di controllo sociale messi a disposizione dal nostro sistema: dopo le timide metamorfosi in senso garantista degli anni '50 e '60, infatti, la "cattura" imbocca decisamente la strada che la porterà a trasformarsi definitivamente in un istituto poliziesco di difesa sociale, fondato sul parametro della pericolosità. Da questa involuzione nascerà quel pericoloso arnese con cui saranno condotte le campagne giudiziarie degli anni a venire e che sul finire del XX secolo riempirà, come vedremo, le nostre patrie galere. Ma tracciamo brevemente i passaggi salienti di tale involuzione.

Come già evidenziato la disciplina ereditata dal fascismo non brillava quanto a tutela dei diritti individuali, anche se nel corso degli anni, con l'introduzione dei termini di durata massima e della possibilità di libertà provvisoria, si era in un certo senso mitigata la portata afflittiva di quest'istituto e, soprattutto, parzialmente sopperito allo scandalo rappresentato dalla previsione di ipotesi di cattura obbligatoria.

Il nuovo corso di politica criminale inverte completamente la rotta: la legge Reale reintroduce un divieto assoluto di libertà provvisoria per tutta una serie di reati (283) e stabilisce che nelle residue ipotesi il giudice, nel concedere la libertà provvisoria, debba valutare che non sussistano in senso contrario ragioni di ordine processuale o il pericolo - in relazione alla gravità del fatto o alla personalità dell'imputato - che questi, lasciato libero, commetta reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela dalla collettività. Viene inoltre allargato il novero dei reati che comportano l'obbligatoritetà della cattura, fra cui spiccano ovviamente i reati introdotti nel 1979 (D.L. nº 625 conv. in L. nº 15 del 1980, la cosiddetta legge Cossiga), parallelamente esclusi, con effetto anche per i procedimenti in corso, dalla libertà provvisoria.

Altrettanto inquietanti furono le vicende dei termini di durata massima (284): già significativamente elevati nel 1974 (dalla L. nº 99), vengono portati sino ad un tetto massimo di oltre dieci anni dalla legge Cossiga, in relazione ai delitti previsti dall'articolo 165-ter c.p.p., nonché tutti i delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dall'ordine democratico ed il delitto di associazione per delinquere.

Pochi i commenti da fare, ci permettiamo di rimetterci per l'ennesima volta alle parole di un autorevole osservatore: "costituisce un abuso sull'imputato, guasta il processo e diseduca i magistrati questa custodia preventiva regolata da termini lunghissimi: nasce il sospetto che, considerando impossibile o quasi una condanna secondo le regole (...) il legislatore ne convalidi o addirittura raccomandi un uso obliquo; «se non potete condannarli, teneteli almeno chiusi il più a lungo possibile»; dieci anni e otto mesi sono un sesto d'una vita media" (285).

Tuttavia, l'esplicita e definitiva trasformazione della carcerazione preventiva in misura poliziesca - avviata in via indiretta nel 1975 - si compie nel 1982, allorché il legislatore prevede fra le circostanze da tenere in considerazione nel disporre la cattura facoltativa - oltre al "pericolo di fuga dell'imputato" ed al "pericolo per l'acquisizione delle prove" - "la pericolosità dell'imputato, desunta dalla personalità e dalle circostanze del fatto, in rapporto alle esigenze di tutela della collettività", venendo in tal maniera a precisare il parametro delle "qualità morali e sociali dell'imputato", risalente al 1930. La cattura è ormai un mezzo di difesa sociale.

La nuova disciplina della cattura distorce da un lato il processo, invitando al preventivo arresto degli indiziati ed alla successiva ricerca delle prove (con quali tecniche lo vedremo a breve), ma, nondimeno, costituisce un valido contributo al sistematico svuotamento della riforma penitenziaria che parallelamente si andava avviando. Simili termini di carcerazione preventiva, infatti, escludono a priori dalla possibilità di accedere alle misure alternative moltissimi detenuti, dato che la stragrande maggioranza sconta preventivamente l'eventuale sanzione.

Tuttavia non è esclusivamente su questo piano che si attua lo svuotamento della riforma penitenziaria. Da un lato, infatti, la politica criminale emergenziale ha un suo risvolto di non poco conto sulla politica penitenziaria, dall'altro lato la stessa ideologia correzionale era ormai, come accennato (286), completamente screditata nelle stesse aree di cultura protestante che ne furono culla e ciò non avrebbe mancato di fare sentire i suoi effetti nel nostro paese.

Sotto quest'ultimo profilo, infatti, anche in Italia è quasi immediata la polemica sulle «scarcerazioni facili», tanto che già con la L. nº 450 del 1977 si limita la possibilità di concedere i permessi ai soli "casi eccezionali" o per "eventi familiari di particolare gravità" e partono, contemporaneamente, azioni disciplinari contro alcuni magistrati di sorveglianza rei di avere avuto sul punto la manica troppo larga (287).

Ma il tratto distintivo di quest'epoca è la creazione per decreto ministeriale del circuito delle carceri speciali, sulla base del famigerato art. 90, che consentiva di sospendere la vigenza dell'ordinamento penitenziario ove vi fossero particolari esigenze. In barba al basilare principio nulla poena sine lege l'esecutivo creava istituti il cui regime d'internamento era improntato al più totale isolamento ed alla massima afflittività, "lo scopo delle carceri speciali è la distruzione preventiva della resistenza e della personalità dei detenuti" (288).

Errato sarebbe pensare che simili provvedimenti fossero, sul modello dell'ordinamento penitenziario fascista, improntati all'esclusiva esigenza genral-preventiva, né, tanto meno, si trattava solo di evitare che, con l'incontro all'interno del carcere, la causa della lotta armata trovasse nuovi adepti. Certo entrambe queste esigenze erano presenti, ma i segnalati aumenti dei poteri d'indagine e di cattura in capo agli inquirenti da un lato e la creazione del circuito delle carceri speciali dall'altro paiono, piuttosto, intrattenere maggiori legami di funzionalità reciproca con la coeva legislazione sulla collaborazione giudiziaria. Scalfire la capacità di resistenza attraverso la possibilità di modulare secondo diversi gradi di afflittività la carcerazione preventiva per ottenere la confessione e la delazione. Strategia semplice ed antica.

Di tutte le riforme di questa nefasta stagione, lo sviluppo degli schemi transattivi, oltre ad essere un'autentica novità per il nostro sistema penale è ciò che lascerà su di esso le più pesanti ipoteche, stravolgendone i caratteri e completandone l'anamorfosi inquisitoria.

Parlando di transattività (o premialità) ci si riferisce allo sviluppo di una serie di istituti molto diversi tra loro e, sovente, collocati in settori diversi del sistema penale, il cui unico minimo comune denominatore consiste nell'utilizzare la pretesa sanzionatoria quale strumento per contrattare comportamenti e condotte ulteriori, susseguenti e del tutto indipendenti dalla condotta criminosa (289).

Non si fa riferimento, dunque, a quella che è stata chiamata "premialità intra ordinem" (290), la quale guarda alla condotta del reo diretta alla elisione o all'attenuazione dell'offesa arrecata con il reato; bensì a tutte quelle forme di negozialità di cui, con il tempo, si verrà dotando il nostro sistema, cominciando con le modulazioni della sanzione attuabili nella fase esecutiva (291), proseguendo con i benefici concessi ai collaboratori di giustizia (292) e finendo con i patteggiamenti sul rito o sulla pena (293).

Nata da una distorta prassi esecutiva, che consentiva di modulare secondo le intensità afflittive dei diversi percorsi penitenziari, speciali e non (294), la risposta sanzionatoria, l'idea di premiare la collaborazione con gli organi inquirenti viene sancita nella legge Cossiga (e successivamente ribadita ed estesa con la L. nº 304 del 1982) che inaugura ufficialmente la stagione del «pentitismo». L'induzione alla delazione è qui praticata per mezzo della previsione di alcune consistenti attenuanti in caso di collaborazione processuale ed, ovviamente, grazie alle efficacissime «indulgenze istruttorie», con cui si poteva evitare la carcerazione preventiva o, perlomeno, i cosiddetti «bracci della morte», dove si arrivava sino all'imposizione della privazione sensoriale.

La parabola della lotta al terrorismo terminerà nel 1987 (con la L. nº 43, sui «dissociati») allorché - similmente a quanto statuì la decretale ad Abolendam di Lucio III (295) - i detenuti politici che volessero fruire di cospicui sconti di pena furono chiamati all'abiura; statuiva infatti l'art. 1 della citata legge: "si considera condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dall'ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l'organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo della lotta politica" (296).

Gli anni di piombo, però, più che costituire un'eccezione, una momentanea sospensione del quadro costituzionale in materia di diritti individuali dovuta ad un'emergenza di eccezionale gravità, rappresentano l'avvio di un processo che porterà, attraverso successive emergenze, alla «normalizzazione» dei modelli giuridici felicemente sperimentati in quel periodo.

E la nuova emergenza inizia subito, prima ancora che la prima si fosse completamente chiusa: la L. nº 646 del 1982, scritta sull'onda dell'emozione per l'assassinio del generale Dalla Chiesa, introduce una nuova fattispecie associativa ricalcata su di un presupposto antropologico, l'art. 416-bis c.p.; prevedendo, per il reato in questione, la cattura obbligatoria ed inserendo alcune nuove misure di prevenzione nel T.U.P.S. intese al sequestro preventivo del patrimonio degli indiziati di appartenere alla mafia.

Nel frattempo la "pentitocrazia" è ormai instaurata e, quando nel 1984, si pente anche Tommaso Buscetta, i cosiddetti "collaboratori" si sono definitivamente trasformati nel principale strumento d'inchiesta in mano alle procure.

I vecchi informatori, custoditi gelosamente come uno dei migliori arnesi da lavoro che un agente o ufficiale di pubblica sicurezza potesse avere, individui con cui si entrava in contatto in quella zona grigia in cui la forza pubblica più che assicurare l'ordine gestisce le regole del disordine, hanno adesso acquisito una rilevanza inaudita (297). Prima della lotta al terrorismo, le cosiddette «fonti confidenziali» non avevano altra rilevanza se non ai fini della prosecuzione delle indagini, restavano confinate in un ambito per così dire poliziesco. Con lo sviluppo del pentitismo, invece, la magistratura si è appropriata di un arnese poliziesco e, sulla base delle rivelazioni ottenute a prezzo di continue transazioni, ha cominciato ad imbastire imponenti inchieste giudiziarie. Superfluo citare gli episodi, anche parecchio eclatanti, a riguardo (298), piuttosto preme evidenziare come la tentazione di imboccare scorciatoie istruttorie sia ormai inarrestabile, propagandosi ben oltre il ristretto ambito che le ha viste sorgere.

La vicenda della lotta al terrorismo radica definitivamente l'idea che una giustizia più efficiente ed efficace debba prescindere da certi sterili formalismi che impacciano l'azione degli inquirenti, cosicché, sperimentata nella lotta al terrorismo - con i risultati che si conoscono - l'efficacia e l'agilità degli strumenti di transazione con l'imputato, la tentazione è irresistibile: non solo estendere la disciplina sulla collaborazione con la giustizia ai processi contro le comuni associazioni criminali, ma creare anche una forma di patteggiamento che, consentendo il baratto di una parziale rinuncia della pretesa punitiva dello stato con una "deposizione delle armi", economicizzi l'impiego delle preziose risorse processuali penali. L'imputato rinunzia a difendersi e lo stato pratica cospicui sconti di pena.

Il modello, simile plea bargain del processo statunitense, era ancora assente nella legge delega per il nuovo codice di procedura del 1974 e dal corrispondente progetto del 1978, compare per la prima volta nella L. nº 689 del 1981, la quale prevede che l'imputato possa patteggiare con l'accusa l'applicazione di una delle sanzioni sostitutive ivi previste (299). La successiva delega per la riforma del codice non mancherà di registrare l'innovativo istituto del "premio incentivo" per la "meritorietà del comportamento processuale del soggetto" che ha rinunciato a difendersi; anche se il tetto massimo posto dalla prevista applicabilità di una sanzione non superiore ai tre mesi (o di una sanzione sostitutiva) ne avrebbe ristretto di molto la portata. Per il momento comunque sono solo indicazioni, una forma compiuta all'istituto verrà data con il nuovo c.p.p., emanato alla fine degli anni '80, al termine di una stagione di pacificazione e rinnovati propositi garantisti, ma è già evidente - a chi sappia coglierla - la spinta efficientista che muove verso l'introduzione degli istituti premiali.

Sconfitto il terrorismo e chiusa momentaneamente l'epoca delle leggi speciali, l'Italia riflette sui caratteri del suo sistema penale ed avvia una breve quanto virtuosa stagione di ripensamento (300).

L'ultimo lustro degli anni '80, infatti, si apre con promettenti riforme in materia di carcerazione preventiva (301): l'opinione pubblica, scossa dalla vicenda giudiziaria di un famoso conduttore televisivo, chiede limitazioni alla possibilità di violare preventivamente - ed impunemente - la libertà individuale di chicchessia che il sistema concede ai magistrati e l'ottiene. Nel 1986, poi, la cosiddetta «legge Gozzini» (L. nº 663), allarga ulteriormente, come accennato, la possibilità di concedere misure alternative e permessi premio ed abroga il famoso art. 90 dell'ordinamento penitenziario (302).

Sempre in questo periodo, inoltre, si appronta una sistematica riforma del diritto di polizia, nel tentativo di lenirne gli aspetti meno garantisti.

La riforma del 1988 (L. nº 327) tuttavia non sortisce gli effetti sperati: a parte l'eliminazione dell'odioso riferimento a parametri quali la "morale pubblica o il buon costume", non più al passo con i tempi e, dopo più di un secolo di vigenza, della dizione "oziosi e vagabondi", la nuova disciplina non fa altro che alimentare il carattere di norme di sospetto delle misure di prevenzione, accentuando uno degli aspetti di tali istituti più deprecati dalla dottrina (303). Peraltro rispetto alla vecchia disciplina non muta molto, salvo l'eliminazione di quella sorta di capitis deminutio contemporanea che era la diffida del questore, sostituita adesso da un'ingiunzione orale a cambiare condotta di vita.

Certo la scomparsa dal nostro ordinamento della locuzione "oziosi e vagabondi" elimina una delle disposizioni più resistenti nei sistemi penali capitalistici, dietro alla quale vi sono almeno cinque secoli di storia, per non dire l'origine stessa della moderna pratica penitenziaria. L'eliminazione di una delle disposizioni più classiste - insieme a quel gruppo di reati contravvenzionali posti dal codice fascista a tutela del patrimonio - di tutto il sistema penale, tuttavia, non esclude la possibilità da parte dell'autorità di pubblica sicurezza di sottoporre al controllo poliziesco la marginalità sociale: scomparsa una fattispecie "costitutiva" come quella sugli oziosi e vagabondi, l'antica ratio della disposizione è assunta adesso da una nuova fattispecie "di sospetto".

Non si vede, infatti, in base a quali elementi di fatto il questore riterrà una persona "vivere con il provento di attività delittuose" e non crediamo che, a riguardo, si possa andare molto oltre la considerazione dello status sociale e della reputazione di cui gode l'individuo all'interno della comunità d'appartenenza.

Senza dubbio però punto culminante di questo quinquennio di riforme è l'emanazione del nuovo codice di procedura penale (D.P.R. nº 447 del 22.09.1988, in vigore dal 24.10.1989), il primo codice dell'intera storia repubblicana.

La riforma è, sotto più profili, una vera e propria svolta per il nostro sistema processuale, di cui stravolge lo stesso impianto generale, basato sin dai codici napoleonici sul modello "misto", inquisitorio/accusatorio.

Certo non è pensabile in questa sede un analisi esauriente dei profili del nuovo codice di procedura (304), peraltro, ai fini del nostro discorso, è più utile evidenziare in quanti e quali punti la stessa ricodificazione assume tratti pesantemente polizieschi, tradendo gli auspici che l'hanno accompagnata.

A dispetto dei giudizi entusiastici di parte della dottrina, il nuovo codice sembra assumere più i caratteri di una controriforma che quelli di una riforma e l'impressione sarebbe stata confermata dalle vicende dei primi anni '90, con i loro pesanti riflessi sulla stessa disciplina codicistica.

Che, nonostante i suoi propositi, la riforma tradisca in più punti il modello accusatorio è, per la verità, in parte dovuto a ragioni per così dire extra codicem: il nuovo c.p.p., infatti, si viene ad inserire sull'immutato codice penale fascista e non può non subirne pesanti riflessi (305). L'aspirazione dei riformatori era senza dubbio quella di spostare il baricentro epistemologico del sistema processuale nel dibattimento, fondandolo sul contraddittorio fra le parti innanzi ad un giudice terzo ed imparziale. Ovviamente una simile svolta sarebbe stato un passo significativo verso la realizzazione di un processo cognitivo, inteso alla verificazione empirica delle ipotesi d'accusa; tuttavia, se pure si fossero finalmente date simili condizioni, sarebbe continuato a mancare all'interno del nostro sistema penale il loro presupposto indefettibile: la verificabilità stessa delle ipotesi accusatorie. A fronte di un diritto penale sostanziale che viola, a causa di una pessima semantica legislativa, il principio di «stretta legalità», pretendere che abbia a realizzarsi un effettivo contraddittorio è pura velleità. Dunque già sotto questo profilo, nient'affatto secondario purtroppo, il contraddittorio realizzato nel 1988 nasce monco, esso è di per sé un contraddittorio apparente. Se il contraddittorio si legittima filosoficamente per la fecondità logica che si attribuisce alla possibilità da parte dell'imputato di poter contrastare la pretesa punitiva, una fattispecie penale vaga, valutativa, di sospetto o, peggio, costruita secondo il canone delle norme costitutive, azzera la stessa possibilità di contram dicere, fornendo al giudice un potere dispositivo incontrastabile.

Tuttavia anche diverse ragioni intra condicem fanno sì che il proposito di realizzare un sistema accusatorio sia rimasto sostanzialmente nel cielo delle buone intenzioni. E sotto questo profilo indubbiamente pesano le ipoteche ed i lasciti della stagione dell'emergenza.

Dal punto di vista della tutela della libertà personale dell'indagato o dell'imputato, il giudizio sulla disciplina del nuovo codice, è complesso oltre che contraddittorio. Sotto alcuni profili, infatti, il nuovo disposto appare parecchio apprezzabile, sotto altri invece - soprattutto nel momento in cui registra la definitiva trasformazione della misura cautelare in misura di difesa sociale - assolutamente deprecabile.

Fra gli interventi più apprezzabili vi è certamente l'eliminazione del potere cautelare in capo all'organo d'accusa e la parallela statuizione del «principio della domanda», con l'eliminazione di tutte le ipotesi di cattura obbligatoria. Secondo quanto già previsto dalla delega per la riforma del codice (L. nº 81 del 16.02.1987 artt. 2.59, 2.60, 2.64) il giudice competente (cioè il giudice del luogo e dello stato in cui pende il procedimento (306)) deve disporre con un provvedimento motivato sulla richiesta del pubblico ministero ed ha il dovere di sentire l'imputato; il provvedimento è inoltre riesaminabile innanzi al tribunale, nonché appellabile, con diritto al contraddittorio, avverso i provvedimenti di riesame o di appello è, infine, consentito il ricorso in Cassazione.

Il nuovo codice, inoltre, prevede diversi tipi di misure (307) secondo un'indicazione già anticipata sul finire degli anni '80 da parziali riforme della vecchia disciplina e definitivamente accolta nelle direttive della legge delega (art. 2.59). Esso sancisce, dunque, il principio della carcerazione come extrema ratio cautelare: "nel disporre le misure il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura ed al grado della esigenza cautelare da soddisfare nel caso concreto" (art. 275.1 c.p.p.).

"Ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata" (art. 275.2 c.p.p.), mentre "la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata" (art. 275.3 c.p.p.).

La previsione di un procedimento applicativo affidato in via esclusiva ad un giudice, previa domanda dell'accusa, con garanzia di contraddittorio e diritto al riesame della misura stessa, segnano un indiscusso progresso sotto il profilo della giurisdizionalizzazione del potere cautelare. Tuttavia, già nella stessa disposizione della legge delega relativa ai presupposti delle misure (art. 2.59), un'effettiva - e non meramente formale - giurisdizionalizzazione è definitivamente compromessa; statuisce la direttiva: "le misure personali sono disposte a carico della persona nei cui confronti ricorrono gravi indizi di colpevolezza, quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini e per il tempo strettamente necessario ovvero quando sussistono esigenze di tutela della collettività o, se il reato risulta di particolare gravità, quando la persona si è data alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga".

Il sistema. dunque, con il riferimento alle "esigenze di tutela della collettività" ha ormai definitivamente registrato l'involuzione del potere cautelare in potere poliziesco che abbiamo visto avviarsi nel 1975 con la «legge Reale»: "nessuno può essere sottoposto a misura cautelare se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza" (art. 273.1 c.p.p.); le misure possono essere disposte inoltre solo se:

  1. "esistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova" (art. 274.1 lett. a c.p.p.)
  2. "l'imputato si è dato alla fuga o sussiste il concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione" (art. 274.1 lett. b c.p.p.)
  3. "per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell'imputato, desunta da comportamenti, vi è il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede" (art. 274.1 lett. c c.p.p.)

Gli artt. 280, 287 c.p.p. statuiscono inoltre che, per l'applicazione di una misura coercitiva (308) o interdittiva (309), il reato per cui si procede debba prevedere come pena edittale massima la reclusione non inferiore a tre anni.

La rilevanza accordata alla personalità dell'imputato in materia di misure cautelari si viene dunque ad aggiungere a tutta quella serie di disposizioni previste nel codice penale fascista in cui è dato preminente rilievo alla pericolosità sociale del reo.

Il nostro sistema accentua ulteriormente il suo carattere poliziesco ed apre un ulteriore canale d'ingresso per le valutazioni personologiche, tuttavia - peraltro con una certa incongruenza rispetto al ruolo centrale che il giudizio sull'autore ormai assume (310) - continua ad escludere categoricamente la possibilità di perizia criminologica (art. 220.2 c.p.p.), tenendo fuori dal processo i relativi saperi. Paradossalmente dunque - come già abbiamo visto avvenire in relazione al procedimento applicativo delle misure di polizia - si attribuisce un potere dispositivo ad un soggetto privo delle nozioni, dei saperi all'uopo necessari, il quale non potrà che rivolgersi a saperi meno formalizzati, quali abbiamo visto essere i saperi diffusi sul crimine. Non si discute, è ovvio, tutta la problematicità epistemologica che presentano i saperi, anche parecchio formalizzati, sul crimine (311), ma ancor più problematico e pericoloso appare fondare un simile potere dispositivo esclusivamente su presupposti di senso comune, sugli stereotipi criminali diffusi socialmente.

Aldilà di questi rilievi, però, apprezzabile è la disciplina delle vicende delle misure (revoca, sostituzione, vicende estintive automatiche), soprattutto sotto il profilo dei termini di durata delle stesse.

Oltre all'importante previsione dell'art. 299.1 c.p.p. - il quale statuisce che la revoca sia "immediata qualora manchino i gravi indizi o le esigenze cautelari, nonché ogni volta che la misura cautelare non appaia più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata o le esigenze cautelari risultano attenuate" - centrali per la garanzia della libertà individuale sono alcuni meccanismi di estinzione automatica della misura: come l'automatica decadenza della misura in caso di condanna a pena inferiore alla eventuale custodia in carcere già subita; o lo spirare del termine previsto (a pena di nullità) per la misura giustificata da esigenze istruttorie, nonché dei termini intermedi e complessivi (artt. 300-303 c.p.p.).

In particolare il termine complessivo di durata (art. 303.4 c.p.p.) è fissato in due, quattro o sei anni, a seconda che si stia procedendo per un reato punibile (o già punito se si è superato il primo grado di giudizio) con meno di sei o di venti anni, ovvero con più di venti anni di reclusione o l'ergastolo (312).

A ribadire che la libertà individuale, lungi dall'essere una graziosa concessione dell'autorità procedente, è un diritto inviolabile, interviene quanto mai opportuno l'art. 314 c.p.p., che disciplina i presupposti per ottenere la riparazione dell'ingiusta detenzione subita; anche se l'art. 315.2 nell'originaria previsione statuiva che il risarcimento di mesi, magari anni, di privazione della libertà non potesse superare la cifra di cento milioni di vecchie lire (313).

Gli anni '70 lasciano pesanti ipoteche anche sulla sfera di attribuzioni degli organi inquirenti ed in particolare delle forze di polizia giudiziaria.

Il nuovo codice, infatti, recepisce tutti i poteri istruttori concessi durante l'emergenza alla polizia giudiziaria, che, insieme ai cosiddetti atti di assicurazione - poteri di perquisizione (art. 352 c.p.p.), arresto (314) e fermo (315) - vengono adesso a comporre un vero e proprio diritto processuale di polizia (316).

Nel nuovo assetto la polizia giudiziaria si configura come organo funzionalmente dipendente dall'organo d'accusa, il quale ne "dispone direttamente" (art. 327 c.p.p.); tale dipendenza funzionale è tuttavia temperata (317) dalla previsione dell'art. 55, il quale statuisce che "la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale".

Essa ha l'obbligo di riferire entro quarantotto ore la notitia criminis all'organo d'accusa e rimettersi alle sue direttive, compiendo "gli atti ad essa specificamente delegati (...) e tutte le attività d'indagine che nell'ambito delle direttive impartite sono necessarie per accertare i reati ovvero siano richieste da elementi successivamente emersi" (art. 348.3 c.p.p.); tuttavia, "fino a quando il pubblico ministero non ha impartito le direttive per lo svolgimento delle indagini, la polizia giudiziaria raccoglie ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto ed alla individuazione del colpevole" (art. 348.1 c.p.p.).

A tal fine essa può procedere a diverse attività.

  1. "Alla ricerca delle cose e delle tracce pertinenti al reato nonché alla conservazione di esse e dello stato dei luoghi" (art. 348.2 lett. a c.p.p.) esercitando a riguardo un ventaglio di poteri che spaziano dalla possibilità di effettuare, quando vi è pericolo che le cose si alterino o comunque si modifichino e l'organo d'accusa sia impossibilitato ad un intervento immediato, i "necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose", sequestrando se del caso "il corpo del reato e le cose a questo pertinenti" (art. 354.2 c.p.p.), nonché "i necessari accertamenti e rilievi sulle persone diversi dalla ispezione personale" (art. 354.3 c.p.p.); alla possibilità di effettuare una perquisizione personale allorché - nei casi di arresto in flagranza o evasione - abbia "fondato motivo di ritenere che sulla persona si trovino occultate cose o tracce pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse" o una perquisizione locale, se ritiene che "tali cose o tracce si trovino in un determinato luogo o che ivi si trovi la persona sottoposta alle indagini o l'evaso" (art. 352.1 c.p.p.). Il potere di perquisizione, inoltre, si estende al fermato qualora, presenti le condizioni già enumerate, vi siano "particolari motivi di urgenza che non consentono l'emissione di un tempestivo decreto di perquisizione" da parte dell'autorità giudiziaria (art. 352.2 c.p.p.). In relazione a queste attività è ipocritamente prevista la facoltà di assistervi in capo al difensore dell'indagato. La previsione è infatti totalmente svuotata dall'assenza di alcun obbligo di preavviso da parte della forza pubblica (art. 356 c.p.p.).
  2. "Alla ricerca delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti" (art. 348.2 lett. b c.p.p.)
  3. "Al compimento degli atti indicati negli articoli seguenti" (art. 348.2 lett. c c.p.p.), fra i quali vi sono l'art. 350, relativo alle sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e l'art. 351, relativo ad altre sommarie informazioni.

In quest'ultimo caso si tratta di alcuni dei peggiori lasciti dell'emergenza. Il primo istituto è il vecchio interrogatorio di polizia, cui si può procedere secondo due modalità diverse: con o senza difensore dell'indagato. Nel secondo caso, che, com'è evidente, è quello che suscita maggiori perplessità, il nuovo codice non solo riproduce la disciplina degli anni '70, ma estende l'interrogatorio di polizia senza difensore "sul luogo e nell'immediatezza del fatto" ben oltre la serie di gravissimi reati rispetto ai quali era stato reintrodotto. L'art. 350 statuisce che delle informazioni così raccolte non è possibile effettuare alcuna documentazione ed utilizzazione oltre l'immediata prosecuzione delle indagini...Salvo però la possibilità di raccogliere e documentare le "dichiarazioni spontanee"!

Il secondo istituto riguarda le cosiddette "sommarie informazioni" assunte "dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini dell'indagine", delle quali è possibile tanto la verbalizzazione che l'utilizzazione.

In tutti questi casi, conoscenze assunte dall'autorità di pubblica sicurezza, sovente senza la presenza del difensore del soggetto indagato, sono in grado di assumere rilevanza ai fini del processo, poiché, come statuito dallo stesso codice, esse possono servire alle contestazioni dibattimentali ed in particolare a valutare la credibilità del teste (art. 503.3 c.p.p.).

Vecchia e risalente - almeno quanto è vecchio il modello processuale misto - questione, il rapporto fra la fase d'indagine, con le sua carte (prodotte tanto dalla polizia giudiziaria, con o senza difensore; che dal pubblico ministero), e la fase dibattimentale, pubblica ed orale, si ripropone insistentemente nella storia del nostro processo penale.

Il problema delle contestazioni e delle letture dibattimentali effettuate per mezzo della documentazione d'accusa era, nei sistemi di tipo misto, l'elemento in grado di svuotare la sostanza del pubblico dibattimento e del contraddittorio fra le parti. Consentendo, infatti, una totale utilizzazione dei materiali prodotti dall'accusa nel corso della fase istruttoria (a carattere inquisitorio) all'interno della fase dibattimentale del processo, il sistema misto annullava la funzione epistemologica del dibattimento, il quale, da luogo deputato alla formazione della prova, si trasformava in una mera discussione sulle prove altrove (e soprattutto con altri metodi) prodotte.

L'attuale codice prevede anch'esso una fase detta delle "indagini preliminari" il cui dominus è l'organo d'accusa, tuttavia alle conoscenze in essa prodotte (rispetto alle quali la difesa ha spesso solo un mero diritto ad essere avvisata) non è, in linea di massima, attribuita alcuna rilevanza in dibattimento, salvo il caso di accertamenti probatori non rinviabili, nel qual caso interviene la figura del giudice per le indagini preliminari, innanzi al quale è effettuabile un incidente probatorio con le forme dibattimentali. Le conoscenze prodotte nella fase delle indagini devono valere in teoria solo ai fini dell'esercizio dell'azione penale, cioè ai fini della richiesta di rinvio a giudizio.

Ad un primo sguardo dunque, il nostro codice penale sembrerebbe aver adottato un sistema processuale basato su una concezione relativistica della prova (318): un sistema, cioè, basato su tutta una serie di limitazioni all'utilizzabilità delle conoscenze prodotte in corso di causa, dove più della conoscenza in sé, è il metodo con cui si è formata a rilevare.

Tale concezione della prova, peraltro, nella sua estrema attenzione al metodo con cui la conoscenza si è prodotta, alle cosiddette «forme», alla ritualità, è un tratto caratteristico dei sistemi accusatori: i quali fondano il processo su una struttura triadica, riponendo in questa "forma" dell'agire penale la stessa validità epistemologica della pronunzia giurisdizionale. Affinché si abbia una prova è necessario che il dato conoscitivo si sia prodotto, sia scaturito, dal confronto dialettico fra le parti. Viceversa, tipica dei sistemi inquisitori è una concezione positivistica della prova, in base alla quale qualunque conoscenza, comunque prodotta, assume un rilievo cognitivo assoluto. In sistemi del genere anche le informazioni estorte nel confronto impari fra l'inquirente e l'inquisito assumono perfetta rilevanza probatoria (319).

Non vi è conoscenza senza forme, non vi è certezza senza ritualità. La funzione cognitiva del processo svapora allorché l'induzione giudiziaria sia libera di spaziare liberamente su documenti prodotti dalla pubblica accusa o, peggio, dall'autorità di pubblica sicurezza, senza contraddittori. Storture simili, tipiche dei sistemi processuali inquisitori o misti, non si erano completamente riprodotte nel testo del 1988, anche se il regime delle letture e delle contestazioni dibattimentali già apriva alcune falle che, all'esplodere dell'ennesima emergenza, si sarebbero trasformate in voragini.

Tuttavia, già nell'originaria disciplina, vi era un caso in cui la vicenda giudiziaria poteva essere chiusa fondando la decisione sugli atti d'accusa: si trattava del rito abbreviato, uno dei cosiddetti «procedimenti speciali», la cui introduzione all'interno del sistema rappresenta la definitiva consacrazione degli schemi transattivi e della cultura efficientista.

Considerati uno dei momenti più qualificanti dell'intera riforma, i procedimenti speciali sono cinque: rito abbreviato (artt. 438-443 c.p.p.); applicazione della pena su richiesta delle parti (artt. 444-448 c.p.p.); giudizio direttissimo (artt. 449-452 c.p.p.); giudizio immediato (artt. 453-458 c.p.p.); procedimento per decreto (art. 459-464 c.p.p.).

Indotto da esigenze di "economia processuale" ed efficienza dell'azione giudiziaria (320) il legislatore del 1988 crea tutta una serie di particolari figure processuali che, in linea di massima, sono distinguibili in due categorie: procedimenti di anticipazione del dibattimento, utilizzabili quando non vi siano particolari esigenze istruttorie, in modo da saltare la fase delle indagini preliminari portando la causa ad un immediato dibattimento (si tratta del giudizio direttissimo, già conosciuto al vecchio codice e dell'immediato); procedimenti di deflazione dibattimentale, in cui, viceversa, è il dibattimento a mancare, a favore di una conclusione della vicenda sulla base dei semplici atti d'indagine. In questo caso però e richiesto un consenso delle parti (seppure implicito, come nel caso del procedimento per decreto).

Sviluppatesi negli states come prassi arbitrarie, o addirittura legate a forme di corruttela diffuse nei piani inferiori del sistema giudiziario, contro cui a lungo (ed invano) combatterono con le loro pronunzie le supreme corti di vari stati (321), tali forme di transazione con l'imputato pongono diverse questioni all'osservatore. In primo luogo sollevano un problema storico-sociologico, che sintetizza tutta una serie di quesiti circa la genesi di tali istituti e la loro funzione tanto manifesta quanto, soprattutto, latente; in secondo luogo un problema giuridico-filosofico, relativo al loro fondamento assiologico ed alla loro conciliabilità con i principi fondamentali su cui si basa il nostro sistema penale (322).

La genesi dell'istituto è comunemente legata al diffondersi di un'idea efficientista e poliziesca della giustizia che avrebbe imposto, in parallelo con la maggiore formalizzazione delle regole per il trial e l'aumento complessivo del traffico penale, di favorire in ogni modo - onde scongiurare la bancarotta del sistema - lo sviluppo di forme processuali non dibattimentali (323). E su questo piano la genesi dell'istituto negli states pare dovuta alle medesime ragioni che hanno spinto il nostro legislatore ad inserire, nel momento stesso in cui si gettavano per la prima volta le basi per un sistema accusatorio, la previsione di una serie di riti di deflazione dibattimentale. In Italia, peraltro, l'efficacia degli strumenti di transazione con l'imputato era già stata positivamente saggiata nel corso della stagione dell'emergenza e ciò ha, forse, contribuito in maniera decisiva nell'eliminare ogni remora di natura garantista.

Introdotti affinché abbiano la più ampia diffusione, essi segnalano da quale gretta logica di economia politica delle risorse processuali sia sotteso il nuovo codice: riservare il dibattimento al minor numero possibile di imputati, con gli intuibili risvolti in termini economia ed efficienza della macchina giudiziaria. Il vantaggio è, del resto, evidente, ma esso "è raggiunto al prezzo di una pesante connotazione burocratica e poliziesca del grosso della giustizia penale e di una vistosa discriminazione a danno di quanti, per le condizioni economiche, sono costretti a rinunciare come a un lusso inaccessibile non solo (...) ad un'adeguata difesa, ma perfino ad un giusto giudizio" (324).

L'imputato viene così invitato a rinunziare alle garanzie del contraddittorio, accettando un processo "allo stato degli atti" ovvero richiedendo, previo accordo con l'organo d'accusa, una pena; nell'uno come nell'altro caso si ottiene un cospicuo sconto di pena, premio per il "meritorio comportamento processuale".

Simili, inquietanti, forme di contrattazione della pretesa punitiva paiono ingiustificabili sotto diversi profili: innanzitutto esse costruiscono esplicitamente, insieme alle norme sui poteri istruttori della polizia giudiziaria, un vero e proprio sottosistema processuale di polizia, in cui lo stato, dalla posizione di forza acquisita grazie agli elementi raccolti autonomamente dagli inquirenti (idonei al limite a giustificare l'avvio di un'azione penale) e sovente con l'indagato in stato di detenzione (a causa di un provvedimento d'arresto o di custodia cautelare), induce il soggetto, con la promessa di uno sconto di pena, a rinunciare alla sua facoltà di contram dicere.

In secondo luogo, tanto nel rito abbreviato, quanto nel "patteggiamento" - dove addirittura non si procede ad alcun accertamento - si svuota patentemente la garanzia epistemologica del contraddittorio per la formazione della prova. Anche nel caso del rito abbreviato, infatti, ove un barlume di giudizio, seppur allo stato degli atti, è mantenuto, pare complicato poter parlare di accertamento giurisdizionale, visto che a fondamento della pronunzia sono posti atti e documenti prodotti indipendentemente dall'organo d'accusa, in assoluta assenza di contraddittori. Statuire che le parti si confrontino sui verbali prodotti autonomamente da una delle parti, equivale ad avvalorare l'idea - epistemologicamente insostenibile - di un contraddittorio sulla prova e non per la prova, snaturando il sistema. Equivale ad aderire ad una visione completamente errata del processo accusatorio, inteso come processo basato sulla garanzia soggettiva, ed in quanto tale disponibile, del diritto alla difesa, svalutando così la funzione oggettiva del contram dicere, che è prima di tutto garanzia di verità oltre che garanzia di libertà.

Il nuovo codice, insomma, rappresenta il momento terminale dell'anamorfosi avviatasi negli anni '70, la quale ha lentamente costruito un sistema penale la cui funzione cognitiva è completamente perduta.

L'amministrativizzazione della giustizia penale giunge dunque a compimento già nel 1988 (i successivi interventi non faranno che completare la cancrena), con il nuovo codice la fondamentale triade su cui si basa ogni sistema penale (reato-accertamento-pena) viene definitivamente scardinata. Il giudizio sul fatto - stretto fra la fase delle indagini preliminari, con la misura poliziesca della carcerazione preventiva e la possibilità di transazioni sul rito o sulla pena, da un lato e la legge penitenziaria, con i suoi percorsi differenziati e le sue misure alternative, dall'altro - non ha più alcuna rilevanza né nell'accertare i presupposti della eventuale sanzione, né nel determinarne il tipo e la durata (325).

Il sistema è ormai una macchina per modulare l'intensità e la durata della risposta carceraria a seconda delle supposte esigenze di tutela della collettività, della pericolosità del soggetto e della sua disponibilità a collaborare tanto ad un risparmio di risorse processuali (o istruttorie, nel caso dei collaboratori di giustizia) che al suo processo di disciplinamento. La pena non è più legata al fatto di reato, bensì al tipo d'autore, di imputato, di detenuto (326).

Quando, tra il 1991 ed il 1992 esplodono le ennesime emergenze (mafia-corruzione politica) con le relative campagne giudiziarie, gli immediati interventi legislativi completano il quadro Tuttavia la stragrande maggioranza dei procedimenti si conclude già con un rito di deflazione dibattimentale, ciò che residua è roba per «galantuomini» o per gente comunque in grado di mantenersi costose difese ed affrontare il rischio di un dibattimento.

Sarà il tentativo di sferrare una attacco alla criminalità organizzata di un certo cabotaggio, nonché di spezzare il cordone ombelicale che lega il nostro sistema economico ed il mondo imprenditoriale al sistema politico e ad i suoi protagonisti, a determinare una serie ulteriore di interventi sul sistema ed ancora una volta l'emergenza, tale o presunta che fosse, legittima interventi decisamente peggiorativi sul quadro delle garanzie assicurate alla libertà individuale.

L'attacco è frontale e si avvia nel 1991, allorché il D.L. nº 152 (convertito nella L. nº 203) inverte, in relazione a specifici reati (327), l'onere della prova circa le esigenze cautelari che possono determinare l'applicazione della carcerazione preventiva: in dubio custodiatur reus. Nel frattempo sarebbe arrivata anche la L. nº 12 a statuire il divieto per il giudice di applicare una misura meno affittiva rispetto a quella richiesta dal pubblico ministero (salvo, ovviamente, la facoltà di non applicarne nessuna), nonché l'obbligo di sentire, in caso di revoca o sostituzione della stessa, il parere del pubblico ministero; il quale tende, grazie a queste riforme, a riacquistare il suo antico ruolo preminente nell'emanazione del provvedimento di cattura. Tra il 1991 ed il 1992, poi, due interventi (Leggi nº 133 e 356) modificheranno in peggio la disciplina dei termini intermedi di durata delle misure cautelari.

Le pesanti modifiche apportate al regime delle misure cautelari, ma, soprattutto, certe deprecabili prassi giurisdizionali (328) avrebbero fatto della carcerazione preventiva uno spaventoso ordigno inquisitorio, tanto che nel 1995 con la L. nº 332, il legislatore fu costretto a temperare alcune storture. In primo luogo, infatti, la riforma riscrive l'art. 274.1 lett. a c.p.p. (329), in modo da impedire che abbiano a verificarsi nuovamente certe utilizzazioni della custodia cautelare in carcere; e ritocca l'art 274.1 lett. c c.p.p., specificando che la "personalità dell'imputato" debba essere desunta "da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali" e che, in relazione a quest'esigenza cautelare, il reato per cui si procede debba essere punito con un pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione. Sempre lo stesso provvedimento, poi, opportunamente prevede che non possa essere disposta custodia in carcere se il giudice ritenga di poter applicare il beneficio della sospensione condizionale e limita la previsione del 1991, relativa ad alcuni reati rispetto ai quali era presunta la necessità della custodia in carcere, ai soli reati di mafia. In ultimo restituisce al giudice il potere di applicare anche una misura meno affittiva rispetto a quella richiesta dal pubblico ministero e prevede, infine, un termine maggiormente favorevole per la durata massima complessiva della misura anche in caso di sospensione (art. 304.6 c.p.p).

Il biennio 1991-1992 è nefasto, però, anche sotto altri profili. In primo luogo dal punto di vista delle prerogative concesse alla polizia giudiziaria che, come visto, sono già molto ampie nella disciplina del 1988; sull'oda emotiva suscitata dagli eclatanti sussulti mafiosi il D.L. nº 306 del 1992, convertito poi nella L. nº 356 del 1992 allarga ulteriormente la facoltà della polizia giudiziaria di condurre autonomamente atti d'indagine. Essa ha adesso un termine molto più elastico per comunicare la notitia criminis, nonché la facoltà di svolgere atti investigativi "anche" dopo l'assunzione della direzione delle indagini da parte del pubblico ministero ed "anche" nell'ambito delle direttive impartite.

Sempre la Legge nº 356 del 1992, inoltre, segue - completandone l'opera - una serie di pronunzie della Corte Costituzionale che scardinarono l'originario impianto epistemologico del processo dibattimentale, aprendo la via ad una completa utilizzabilità in questa fase degli atti d'indagine.

I due settori d'intervento (allargamento delle prerogative investigative della polizia giudiziaria e ampliamento dell'utilizzabilità degli atti d'indagine) non sono slegati l'uno dall'altro, la riforma ha una sua logica ben precisa: dal 1992 infatti "viene a delinearsi la possibilità di una istruttoria di polizia, svincolata dalle direttive del pubblico ministero ed estesa anche ad atti che comportano l'assistenza difensiva, suscettibili di assumere, tramite il nuovo meccanismo delle contestazioni, diretta rilevanza in sede dibattimentale" (330).

All'allargamento dei poteri polizieschi corrisponde poi, sempre in questo periodo, una nuova stagione di "vendita delle indulgenze" (331) e, parallelamente, il ritorno dei percorsi esecutivi speciali (332); secondo un modello di coartazione della volontà dell'imputato/detenuto già felicemente sperimentato in altre stagioni della nostra storia repubblicana.

È materia rovente quella delle letture, delle contestazioni, dei collaboratori di giustizia, terreno di scontro politico su cui non è agevole scendere. Certo è che in questi anni tribolati per la nostra procedura penale la caduta di garanzie è stata verticale, ma, quel che è peggio, è che una simile deriva poliziesco/inquisitoria avrà degli effetti devastanti non certo per le forme di delinquenza che si proponeva di sconfiggere.

Già lo sottolineammo: la stragrande maggioranza dei procedimenti penali nemmeno arriva in dibattimento e si tratta delle vicende processuali dei soggetti più deboli socialmente, di coloro che riempiono i locali delle nostre patrie galere. Sotto questo profilo dunque la vicenda di letture, contestazioni, delatori di ogni risma e, da ultimo, del cosiddetto "accordo sul fascicolo per il dibattimento" (333), interessa tutto sommato marginalmente.

Non sono i processi eclatanti, quelli seguiti dalle televisioni e dall'opinione pubblica, a costituire il "diritto della prigione" (334) e, seppure possono avere e storicamente hanno avuto un ruolo determinante per le sorti del nostro paese, non è di questa penalità che ci interessa parlare. E non per un malinteso spirito garantistico, ma perché siamo persuasi del fatto che per capire l'andamento complessivo dei processi di controllo sociale e dei tassi di carcerizzazione in Italia bisogna volgere lo sguardo verso i "piani bassi" del diritto e del processo penale, verso quei processi che non durano più di mezz'ora, dove l'attività giurisdizionale rasenta pericolosamente l'attività amministrativa, in poche parole, verso quei meccanismi che contribuiscono al governo delle «classi pericolose».

Ci occuperemo insomma di quelle procedure e quelle prassi sovente emarginate negli studi accademici, al pari di quanto non lo sia l'universo umano che esse prendono in carico; osserveremo il funzionamento dei settori meno prestigiosi del diritto e della procedura penale e, ben volentieri, lasceremo il nobile dibattimento ai principi del foro, o aspiranti tali.

Sotto questo profilo la recente riforma costituzionale sul «giusto processo» (effettuata con la legge costituzionale nº 2 del 23.11.1999) intervenendo su un tema delicatissimo quale quello della fondazione epistemologica del nostro sistema assume una rilevanza fondamentale, tanto più quando fa dire al nuovo art. 111 Cost. che "il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova". La portata della riforma tuttavia è immediatamente svuotata nel periodo successivo: "la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato".

A prescindere dalla patente aporia (quale prova vi può essere al di fuori del contraddittorio?), è chiaro, ancora una volta, quali imputati non avranno la forza contrattuale necessaria per portare la propria vicenda in dibattimento.

L'economia politica delle risorse processuali si è costituzionalizzata. L'anamorfosi è completa.

4.4.4: «Postmodernismo penale» all'italiana L'Italia degli ultimi venticinque anni del XX secolo è un paese scosso, fino alle sue stesse fondamenta democratiche, da ripetute emergenze e quale segno abbiano lasciato queste vicende sul nostro sistema penale si è visto. Ma gli sconvolgimenti in questo scorcio di fine secolo non si limitano ai, pur drastici, mutamenti di rotta nella politica criminale del nostro paese: ben altre vicende avrebbero sconvolto la vita delle democrazie occidentali e sarebbero stati mutamenti strutturali di tale portata da mutarne drasticamente stratificazione sociale ed esigenze di controllo corrispondenti.

I due shock petroliferi chiudono definitivamente gli anni di ininterrotto sviluppo industriale (il cosiddetto "trentennio glorioso") ed aprono quelli che un autorevole osservatore ha chiamato i "decenni della crisi (335)", in cui iniziano a tracciarsi drastiche linee di frattura rispetto al precedente ciclo politico economico.

In primo luogo si avviano i noti mutamenti strutturali che porteranno al tramonto del fordismo, alla "deindustrializzazione" ed alla segnalata deriva neo-liberista; quest'ultima, in particolare, fu indubbiamente molto più marcata in alcuni contesti del mondo occidentale, ma in ogni caso ed entro certi limiti, necessitata anche in altri contesti dal ruolo che gli organismi sopranazionali prendono ad esercitare, soprattutto in direzione di una limitazione della sovranità degli stati nazione in materia di politica economica (336). In breve: si avvia un processo di transizione che sfocerà nello strutturarsi di quella che viene ormai comunemente denominata «società postindustriale globale».

L'Italia, è ovvio, non manca di essere investita da tale processo, ma, anche in questo caso, essa presenta, tanto sotto il profilo strutturale che sotto il profilo politico-culturale, alcune rilevanti specificità che meritano di essere considerate.

Come è noto i movimenti sociali di fine anni '60 sfociano in un ampio riflusso autoritario, le rivendicazioni e la critica sociale scuotono in profondità la struttura del capitale che, all'occasione, reagisce anche manu militari.

La crisi di governabilità è evidente ed i settori più conservatori delle democrazie occidentali si apprestano a sferrare un colpo mortale a quel sistema sociale che, allargando progressivamente la base di partecipazione politica e sociale, esponeva lo Stato alla necessità di soddisfare sempre nuovi bisogni (337). La crisi economica innescata dagli shock petroliferi completa il quadro e decreta la fine del fordismo e l'avvio di enormi processi di "deindustrializzazione". Si apre l'era del «postfordismo» e del neo-liberismo.

È ovvio che i passaggi non siano così bruschi, ogni paese occidentale, del resto, segue in questo il suo percorso, che è dato naturalmente dalle sue specifiche condizioni politiche e sociali.

Restando alle vicende di casa nostra, infatti, c'è da notare come l'Italia cerchi di governare simili processi utilizzando i classici strumenti di protezione del lavoro dipendente che il nostro welfare metteva a disposizione (338). Il modello italiano di transizione al postfordismo sembrerebbe una sorta di «deindustrializzazione assistita».

Che non sia immediata in Italia la deriva neo-liberista è forse una circostanza necessitata da alcune nostre specificità politico-culturali. Il nostro paese, infatti, da un lato aveva appena concluso una stagione riformista per cui le masse avevano duramente lottato, dall'altro si trovava ancora nel bel mezzo dei cosiddetti anni di piombo, unito nella lotta ad un comune nemico e nella difesa della democrazia. Le stesse forze di sinistra, PCI e sindacati, diedero la loro piena adesione alla battaglia contro il terrorismo. Sono gli anni del "compromesso storico" e "per dimostrare nei fatti di essere ormai un partito democratico e filo-atlantico, il PCI collabora a imporre ai lavoratori la cosiddetta austerità, cioè la deflazione monetaria e la politica di tagli e sacrifici resa «necessaria» dalla crisi energetica e dalla crisi strutturale del modello industriale fordista" (339).

Non vi era probabilmente alternativa per la classe dirigente italiana all'incremento esponenziale della spesa pubblica, a patto di non voler scatenare nuovamente i conflitti ed il dissenso, riaprendo nel paese lacerazioni non ancora del tutto cicatrizzate e spaccando il fronte unito della lotta al terrorismo. Non vi erano ancora le condizioni politico sociali per la costruzione di un consenso attorno ad una svolta politico economica di stampo radicalmente neo-liberista.

Tuttavia, pur in mancanza di una volontà politica in grado di assecondare tali sviluppi con la decisione che ebbero Reagan e la Thatcher (diminuendo le garanzie assicurate al lavoro dipendente, eliminando le "rigidità" imposte da anni di lotte operaie) i processi che si avviarono non mancarono di avere significativi effetti sulla struttura del nostro mercato del lavoro (340), che presentava, peraltro, la significativa specificità del mezzogiorno d'Italia: il quale subirà tale transizione al "postindustriale" senza aver mai attraversato una fase di industrializzazione (341) e ciò sarà uno dei principali fattori nel determinare la drammaticità dei livelli di disoccupazione che connoteranno il nostro mercato del lavoro dagli anni '80 in poi (342).

Comunque sia, sin dalla fine degli anni '70 possiamo assistere, anche nel nostro paese, al verificarsi dei due principali mutamenti che comunemente sono considerati caratterizzare il passaggio ad una società postindustriale (343). In primo luogo, infatti, ristrutturazioni ed innovazione tecnologica avviano un processo di costante riduzione dell'impiego nel settore industriale, diminuzione che si riscontra soprattutto nelle grandi aziende e colpisce prevalentemente gli impieghi garantiti dallo statuto dei lavoratori e da una forte presenza sindacale. Tale processo di ristrutturazione industriale porrà seriamente in questione la centralità della grande impresa fordista e porterà ad un parallelo processo di esternalizzazione e di decentramento di intere fasi del processo produttivo che determinerà una significativa espansione tanto del settore dei "servizi intermedi", quanto della piccola e media impresa (che comunque aveva già avuto una fase di discreto sviluppo) soprattutto nelle aree centro-nord orientali d'Italia (quella che viene comunemente denominata "terza Italia").

Al vecchio "lavoro" nell'impresa fordista si sostituisce un tipo di occupazione nettamente meno stabile e garantito: "in questa estesa rete di imprese satelliti, anche se formalmente autonome, i salari sono mediamente più bassi, non c'è presenza sindacale e molto spesso contratto di lavoro e oneri sociali" (344); mentre, parallelamente, aumenta il livello delle tecnologie adottate nello svolgimento del processo produttivo ed in quel che resta dei grandi stabilimenti industriali la quantità impiegata di "lavoro vivo" presenta un livello di qualificazione maggiormente elevata (345).

In secondo luogo la tendenza alla "precarizzazione" del lavoro ed alla diffusione di "modelli occupazionali diversi e sempre meno standardizzati" (346) è alimentata dal processo di espansione del terziario che, come è stato giustamente segnalato: "non è solo espressione di una economia industriale che si ristruttura, ma anche, e in parte non irrilevante, di una economia dei costumi che si espande" (347). Tra gli anni '70 ed '80, infatti, l'occupazione nel settore terziario dell'economia supera quantitativamente i livelli occupazionali dell'industria.

Tale sviluppo è certamente riscontrabile nel settore dei cosiddetti "servizi intermedi" (il "terziario avanzato"), costituito dall'insieme di attività di servizio alle imprese (servizi finanziari, marketing, pubblicità, organizzazione, contabilità, formazione professionale); ma è soprattutto il settore dei "servizi finali" (costituito dall'insieme di servizi offerti alla persona, come la ristorazione, l'intrattenimento etc.) ad essersi sviluppato e ciò grazie all'elevatissima propensione ai consumi (non solo di beni materiali) che caratterizza le nostre società e soprattutto le metropoli contemporanee.

In linea di massima con gli anni '80 e l'avvio della transizione italiana al "postindustriale" si iniziano a delineare i tratti di quella che è stata chiamata "eccedenza postfordista", costituita dall'insieme della manodopera espulsa dal processo produttivo e dalla quota sempre crescente di impieghi meno stabili e garantiti. L'"eccedenza" italiana tuttavia resta connotata, in modo peraltro parecchio significativo, dal persistere di una disoccupazione le cui radici sono nel mancato sviluppo e nell'arretratezza e dal fatto che, almeno inizialmente, le conseguenze sociali dell'espulsione di manodopera sono lenite dall'intervento statale.

Si iniziano comunque già da subito a delineare i tratti del nuovo proletariato o «proletariato postfordista», composto in larga parte da quei settori della manodopera industriale che non si avvantaggiano dei processi di riqualificazione del lavoro e che, anzi, vedono precipitare verso il basso la propria situazione lavorativa, salariale ed il livello di garanzie loro assicurato e dall'enorme massa di individui impiegati nel settore dei servizi finali "la massa degli addetti ai lavori urbani dequalificati del «terziario povero», dell'artigianato e dei servizi privati cittadini (distribuzione, spettacolo, fast food, servizi alle persone...)" (348).

Il vuoto di garanzie e l'esclusione di tali categorie di manodopera dal sistema di tutele che il nostro welfare assicurava al lavoro dipendente si concretizza ancora grazie all'ampio ricorso al lavoro "nero" o l'impiego in imprese o unità produttive dalle ridotte dimensioni (349), ma non sarebbe trascorso molto tempo ancora sino al momento in cui anche il nostro welfare, le garanzie assicurate al lavoro ed i livelli di spesa sociale connessi, sarebbero stati messi esplicitamente in forte discussione nel dibattito pubblico e dalle stesse strategie di politica economica e sociale del governo.

L'aver ulteriormente incrementato la spesa sociale tra fine anni '70 ed inizio anni '80 a sostegno delle ristrutturazioni industriali, soprattutto nel quadro di un sistema fiscale squilibrato e con enormi sacche d'evasione, aprirà un'impressionante voragine nei nostri conti pubblici che, ben presto, con lo stringersi dei vincoli d'integrazione europea, imporrà alla classe dirigente italiana una decisa sterzata nel senso di una drastica riduzione della spesa pubblica.

Dalla metà degli anni '80, insomma, si avvia anche in Italia un ampio dibattito (di cui si ha un primo assaggio nello scontro aperto tra PSI e PCI, CGIL e le altre confederazioni sindacali) sullo stato dei conti pubblici, sulla crisi del welfare e l'insostenibilità dei livelli di spesa che imponeva, sull'eccessivo costo del lavoro e la sua rigidità, oltre che sul sistema di indicizzazione salariale (argomento, peraltro, a causa del quale si arrivò al citato scontro).

Si iniziano dunque a delineare, anche se sommariamente, due schieramenti complessi: l'uno fortemente critico nei confronti del welfare che, forte dell'esempio statunitense e britannico, auspica maggior rigore, diminuzione della spesa sociale, oltre che lo scioglimento dei lacci e dei costi imposti all'utilizzazione della manodopera, sull'altare della cosiddetta deregulation (350); l'altro arroccato su posizioni difensive dei livelli di spesa sociale e del sistema di garanzie duramente sudato attraverso anni di aspro conflitto sociale, votato insomma alla conservazione di quelle "rigidità" che, secondo la vulgata neo-liberista, impediscono alle potenzialità del sistema produttivo italiano di esplicarsi al meglio.

Certo negli anni '80 (a parte il violento scontro del 1984, sulla riforma al ribasso delle indicizzazioni salariali, culminato nella rottura dell'unità sindacale) i governi di "pentapartito" sono ancora molto timidi nell'avviare una drastica politica di riduzione della spesa sociale e di liberalizzazione del mercato del lavoro (351), ma una nuova stagione si aprirà con gli anni '90 e l'Italia, spinta dai vincoli assunti in vista dell'ingresso nella moneta unica europea, si appresterà al "risanameto" dei suoi conti pubblici attraverso una politica economica di stampo moderatamente liberista.

Saranno i governi di transizione dalla "prima" alla "seconda" repubblica e ancor di più i governi di centro-sinistra che percorreranno definitivamente la strada della riduzione della spesa pensionistica e sanitaria (attraverso ripetute riforme in questi due settori i cui conti destavano le maggiori preoccupazioni), attueranno una drastica stretta fiscale in vista del risanamento e, soprattutto, apriranno definitivamente alla flessibilizzazione del mercato del lavoro con l'incentivazione del lavoro interinale e part-time e lo smantellamento definitivo del monopolio statale sul collocamento.

Tali riforme strutturali incrementeranno anche in Italia la presenza di lavoratori "eccedenti" rispetto alla possibilità di accedere alle garanzie di cittadinanza sociale che, seppur formalmente, la nostra costituzione ancora garantirebbe a tutto il "lavoro", venendo a creare una fascia di lavoro precario e privo di garanzie che si affianca alle già esistenti (e consistenti) sacche di mercato informale.

Queste le tappe attraverso cui l'Italia è approdata ad un modello sociale "postindustriale" e (moderatamente) neo-liberista, cui corrisponde una stratificazione sociale connotata dall'eccedenza di ampi strati di forza lavoro; eccedenza tanto nel senso di effettiva sovrappopolazione rispetto alle capacità della domanda di assorbire l'offerta, tanto nel senso dell'incapacità (ovviamente a patto di non voler rinunciare a determinati livelli di estrazione di plus-valore) della domanda di lavoro postofordista di assicurare le garanzie connesse alla "cittadinanza sociale" che il welfare assicurava.

È pertanto della massima importanza capire quali siano state le linee di governo, le strategie di disciplinamento adottate dallo stato italiano nella gestione di tale "eccedenza postfordista", se anche in Italia si sia verificato un riflusso culturale di stampo conservatore che ha portato ad un cortocircuito repressivo e "securitario" nel governo del proletariato e del sottoproletariato "postfordista" analogo a quello verificatosi negli Stati Uniti d'America; è della massima importanza, dunque, capire se il regresso del welfare italiano ha portato al riespandersi delle strategie penal-poliziesche di governo e disciplinamento della base della piramide sociale.

Come rileva giustamente Wacquant (352) si segnala in tutti i paesi europei un significativo - anche se non paragonabile a quello registrato negli Stati Uniti d'America - aumento dei livelli di carcerizzazione; a tali tassi, del resto, sembra corrispondere la progressiva criminalizzazione della marginalità socio-economica, in perfetta coincidenza con la funzione che il sistema penale statunitense ha assunto nell'ultimo quarto del secolo XX: "piegare le categorie refrattarie alla precarietà salariale, riaffermare l'obbligo del lavoro come norma civica, stockare la popolazione sovrannumeraria" (353). In particolare poi, l'autore rileva il principio di un processo che potrebbe portare "dall'Europa monetaria" ad un'Europa "poliziesca e penale" (354), individuando gli indizi dell'avvio di una tale deriva appunto nei crescenti livelli di carcerizzazione della marginalità sociale, ma soprattutto nella coincidenza di tale espansione del trattamento penale della miseria con l'avvio anche nel vecchio continente di politiche economiche di stampo neo-liberista.

"Tutto indica quindi che un eventuale riallineamento al ribasso dell'Europa sociale, centrato sull'alleggerimento della regolazione politica del mercato del lavoro e il progressivo indebolimento delle garanzie collettive nei confronti dei rischi della condizione salariata (disoccupazione, malattia, pensioni, povertà), sarà accompagnato necessariamente da un riallineamento al rialzo dell'Europa penale" (355).

Uno sguardo sull'Italia parrebbe confermare tali ipotesi: è infatti riscontrabile un significativo incremento della popolazione carceraria esattamente in coincidenza con il segnalato avvio di politiche di stampo neo-liberista e con la moderata (rispetto agli Stati Uniti) riduzione dell'area del welfare (ma non è ancora dato sapere fino a che punto tutto ciò non sia stato il semplice preludio - una sorta di antipasto - al maturare di un clima sociale duramente conservatore, neo-autoritario e neo-liberista che le elezioni del 2001 sembrano aver aperto).

È indubitabile, infatti, che con gli anni '90 i processi di ricarcerizzazione abbiano subito un deciso incremento, toccando livelli simili ai periodi più tristi della nostra storia penitenziaria: la fine del XIX secolo, l'epoca fra le due guerre e l'immediato dopo guerra (356).

Tuttavia, come già suggerito, l'esplosione della popolazione penitenziaria non può essere considerata semplicemente il portato di un aumento della criminalità, ma in misura non indifferente il frutto dell'avvio di un processo di criminalizzazione della miseria funzionale al ridisciplinamnto del nuovo proletariato. È dunque fondamentale l'analisi dei termini della "questione criminale" in Italia, per comprendere se e sino a che punto essa abbia consentito uno scivolamento sul piano del "vocabolario punitivo" del dibattito pubblico relativo alle nuove forme di povertà e conflittualità scatenate dalla deriva politico economica, tale da consentirle di supportare e legittimare il processo di disciplinamento in atto. Se, in sostanza, la "questione sociale" si sia confusa anche nel nostro paese con una "questione sicurezza".

L'Italia, come visto, a lungo nella sua storia repubblicana (per l'epoca post-unitaria il discorso è sostanzialmente diverso e lo si è sottolineato (357),), è stata esente da elevate richieste di penalità materiale, difficilmente infatti i conflitti e le crisi sociali si sono espressi attraverso un "vocabolario punitivo" e, altrettanto difficilmente (se si eccettua il caso dei meridionali nelle città del nord), i soggetti coinvolti in tali conflitti sono stati oggetto di rappresentazioni in termini di "pericolosità" e "criminalità".

Tutto ciò ha fatto si che tensioni sociali, insicurezze, insoddisfazioni di vario genere, fossero canalizzate verso una "domanda di maggiore partecipazione politica" piuttosto che verso richieste di penalità. Insomma ad interpretare le pulsioni provenienti dalla società civile è valso prevalentemente il «vocabolario della politica», piuttosto che un «vocabolario punitivo» (358).

Con gli anni '70, tuttavia, le cose iniziano a cambiare e l'ennesima "emergenza criminalità", dopo la vittoriosa battaglia condotta dalle istituzioni nei confronti del terrorismo, inaugura un clima di "guerra alla criminalità" permanente che ha il risultato - oltre a radicare l'idea che la risposta penale sia la "panacea di tutti i mali" - di costruire un enorme consenso attorno all'attività dei giudici, sradicando definitivamente la diffidenza dei cittadini comuni nei confronti delle agenzie penali (359). Ma la deriva "punitiva" della cultura politica italiana si compie definitivamente con l'avvio della stagione di "Tangentopoli", alla quale coincide la scomparsa di un'intera classe politica e la totale delegittimazione dei normali canali di rappresentanza democratica. Anche questa vicenda, unita alle stragi di mafia, segna una pagina importantissima nella storia del nostro paese, ma - per quel che più ci interessa - costruisce definitivamente l'immagine dei giudici (ma soprattutto dei pubblici ministeri) quali veri e propri "eroi civili", cui la gente comune sembra voler delegare il compito di ricostruire per intero la repubblica italiana, purificandola dai parassiti che ne hanno intossicato l'esistenza per cinquant'anni.

Quali effetti sulla nostra struttura giuridica hanno avuto le ricorrenti emergenze criminalità si è visto, ciò che ci preme sottolineare adesso è come sia stato proprio a partire dal riassestarsi in questi termini della questione criminale in Italia si è diffuso fra la gente un certo "sentimento punitivo", accentuato poi dalla completa delegittimazione dei normali canali della rappresentanza politica e dallo spostamento verso i giudici di turno delle richieste e delle aspettative di cambiamento.

Lentamente il termine "garantista" diventa un insulto e chiunque osasse levare una voce di protesta contro il progressivo allargamento dei poteri polizieschi veniva immediatamente accusato di "alleanze oggettive" con il nemico pubblico di turno, fosse un terrorista, un mafioso, un politico corrotto.

Tutto ciò ha avuto il non trascurabile effetto di legittimare anche in Italia una certa cultura di "law and order" che, oltre ad aver ridato linfa all'istituzione penitenziaria, ha radicato ulteriormente una certa cultura ed una prassi giudiziaria inquisitoria ed anti-garantista che ha finito per risolversi a tutto danno delle categorie sociali classicamente più bersagliate dall'intervento penale (360).

Come è stato giustamente sottolineato, si è dunque passati, nel brevissimo volgere di un lustro, "dalla lotta alla mafia alla lotta ai diritti" (361), con pesantissime ripercussioni proprio sui diritti delle classi marginali. Ed alcuni anticipi si erano del resto avuti allorché Bettino Craxi inaugurò la sua nefasta "guerra alla droga", ispirata all'analoga condotta già da qualche anno - e con i risultati che conosciamo - negli States.

Riformando, la L. nº 685 del 1975 con la L. nº 162 del 1990 (entrambe confluiranno nel Testo unico sugli stupefacenti D.P.R. nº 309 del 1990), il legislatore veniva a dare un impronta pesantemente repressiva alla disciplina sugli stupefacenti regredendo addirittura, con la criminalizzazione esplicita del consumo personale, al 1954 (362).

La criminalizzazione di questa sfera sociale è l'antipasto dell'ampio processo di criminalizzazione della miseria che si avvierà anche in Italia con gli anni '90 e la trasformazione del drogato in un individuo pericoloso è il primo passo verso questa deriva. "Questa battaglia ideologica punta decisamente alla definizione della equazione tossicodipendente-criminale, perché principale responsabile della dilagante microcriminalità cui sono preda le metropoli, che spaventa l'opinione pubblica più dei poteri camorristico-mafiosi" (363).

Il bersagli sono esattamente quelle prime sacche di marginalità sociale che la deriva postfordista inizia a determinare in Italia, al cui disagio l'eroina offre risposte che i movimenti politici ed una struttura sociale sempre più escludente non sono più in grado di fornire.

I frutti della riforma sono immediati: in soli due anni (1990-1991) i tossicodipendenti in carcere raddoppiano, passando da circa 7.000 a 14.000 presenze (364)!

Le campagne giudiziarie dei primi anni '90, insomma, oltre a scardinare definitivamente il nostro sistema penale tramutandolo in un arnese poliziesco dalla spietata efficienza, hanno creato le basi, oltre che giuridiche, culturali affinché si potessero avviare in Italia politiche di "tolleranza zero" nei confronti delle sacche di marginalità sociale che il nuovo corso di politica economica iniziava a creare.

Resterebbe infatti assai deluso chi si aspettasse di trovare una rispondenza in carcere alle campagne giudiziarie avviate tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, non è la lotta alla mafia o alla corruzione politica ad aver intasato gli ambienti penitenziari (365), bensì un marcato processo di carcerizzazione della marginalità sociale, dei moderni «oziosi e vagabondi», che ha decisamente amplificato quelli che erano i tratti originari del nostro sistema penale - sin dall'epoca post-unitaria intento al governo della marginalità sociale - la sua classica "selettività".

"All'ombra di queste grandi emergenze criminali si è consumato il più spettacolare processo di carcerazione che questo paese ha vissuto negli ultimi cinquanta anni, un processo che si è abbattuto prevalentemente sulle vecchie e nuove aree della marginalità e del disagio sociale, alimentate dagli indirizzi neoliberisti delle politiche economiche dell'ultimo decennio" (366).

Si assiste infatti ad un processo di rinnovamento del novero dei "detenuti tipici" nelle nostre patrie galere. Queste, con gli anni '80, hanno visto affiancarsi al giovane maschio d'origine meridionale un nutrito contingente di tossicodipendenti, ma, soprattutto, con gli anni '90 hanno visto esplodere la presenza extracomunitaria, la quale sta ormai tingendo etnicamente i nostri istituti di pena (367).

Insomma: "per ogni mafioso in più in carcere, cento giovani tossicodipendenti in più cancerizzati; per ogni politico corrotto privato legalmente della libertà, cento immigrati di colore messi in prigione (368)".

Tale fenomeno ha la sua origine nel "cortocircuito securitario" di cui è stata teatro anche l'Italia nell'ultimo decennio del XX secolo e nelle risposte ad esso offerte dalle istituzioni. Negli anni '90, infatti, i termini della questione criminale subiscono un deciso, quanto apparentemente inspiegabile, ribaltamento: alla mafia, alla corruzione politica (fenomeni criminali d'altra parte di una certa rilevanza) si sostituisce il problema "microcriminalità", rappresentato da tutto quell'insieme di micro-episodi di delittuosità diffusa prevalentemente nei contesti urbani. Questa fenomenologia criminale prende ad essere centrale nel dibattito pubblico sulla delinquenza, sostituendo a lungo andare sulle colonne dei giornali i mafiosi con degli scippatori, i politici corrotti con degli spacciatori da strada (369).

È stato del resto giustamente sottolineato come - molto più di quanto non possano fare le grandi organizzazioni mafiose e criminali in generale che, se non in occasione di episodi eclatanti (come gli attentati e le stragi dei primi anni '90) e comunque sempre attraverso i media, difficilmente entrano nella vita quotidiana dei cittadini, soprattutto al centro-nord - la microcriminalità si presti meglio di ogni altra fenomenologia delinquenziale a convogliare ansie e paure della gente comune. E ciò proprio per la sua prossimità con la vita di tutti giorni, per il suo svolgersi sulla scena di quello che è il teatro in cui si recita anche il nostro "dramma" quotidiano (370).

D'altra parte però, come accennavamo, l'interpretazione del sentimento d'insicurezza diffusosi con gli anni '90 anche in Italia, non può essere meccanicamente legato ad un aumento degli episodi delittuosi cui l'opinione pubblica imputa la produzione di allarme sociale: anche uno sguardo superficiale sulle "statistiche della delittuosità" evidenzierebbe come - esattamente come rilevato a proposito di Stati Uniti ed Inghilterra - proprio i reati cui si imputa maggiormente il sorgere di un sentimento d'insicurezza siano, dal 1991, in costante calo (371).

La circostanza è del resto confermata dalle interviste ad alcuni operatori di pubblica sicurezza svolte nel quadro di una ricerca etnografica sugli adattamenti del controllo poliziesco ai nuovi termini della questione criminale in Italia:

Tanto per essere chiari le richieste in termini di microcriminalità erano meno pressanti. L'opinione pubblica, anche nei ceti minori diciamo, era attenta a questi fenomeni di terrorismo, grossa criminalità, sequestri di persona.

Non sono un sociologo, questo è un pensiero...ma mi sembra di rilevare dal mio ritorno a Milano, sono stato lontano da qui due anni, sono andato via prima dell'esplosione di Tangentopoli e l'ho ritrovata in piena Tangentopoli. Ho rilevato una profonda delusione della gente; giusta, giustissima, no?, che si è tramutata man mano in insoddisfazione e quindi in una richiesta di pulizia subito. (...) La microcriminalità è sempre la stessa, è l'insofferenza della gente, quindi la richiesta di sicurezza, che io trovo non nuova, ma accresciuta; è nei confronti di questi fenomeni: prostituzione, extracomunitari irregolari, spaccio di stupefacenti, uso di sostanze stupefacenti e ovviamente borseggi e furti in genere. Alcuni di questi fatti poi non sono nemmeno reati! (372)

Anche in Italia, dunque, l'esplodere del sentimento d'insicurezza pare più legato ad una percezione "soggettiva", che ad un "oggettivo" incremento del pericolo di restare vittima di un reato; esso sembra ricollegarsi al diffondersi di una forte insofferenza nei confronti della marginalità sociale e pare riprodurre le dinamiche di marcata criminalizzazione dei piccoli episodi di "inciviltà urbana" o l'arretramento della soglia di tolleranza rispetto alle tipiche forme di delittuosità riferibili alle classi marginali, che abbiamo visto verificarsi tanto negli Stati Uniti d'America che in Inghilterra.

La richiesta di certi cittadini è a volte esplicitamente una richiesta repressiva esagerata rispetto a comportamenti che certo possono dare fastidio, ma non sono neanche reati; l'intervento della polizia che si auspica è quello che si traduce in arresto e se non ci sono gli estremi si arriva a pretendere che s'inventino! (un dirigente di polizia) (373)

Nel nostro paese infatti (al pari di quanto era già avvenuto da tempo in altri contesti del mondo occidentale) l'avvio di un processo di smantellamento del welfare e di riforma in senso neo-liberale del mercato del lavoro - che si aggiungevano ai già avviati processi di deindustrializzazione, ma soprattutto alla stretta fiscale operata in vista del risanamento dei conti pubblici - è coinciso significativamente con il diffondersi di tale insofferenza nei confronti della marginalità sociale e delle problematicità ad essa collegate. E ciò soprattutto nelle città che più di altre hanno pagato il prezzo del passaggio ad un tipo di società post-industriale e la correlativa destrutturazione del tessuto sociale urbano, città come Torino, Milano, Genova. Fu in queste città infatti che, prima che altrove, si vennero a formare i «comitati di quartiere», guidati da veri e propri imprenditori della sicurezza (374) che portarono al centro dell'arena politica (iniziando dal livello municipale) la questione del «degrado urbano» e di tutti quei comportamenti «sub-criminali» o «micro-criminali» nei cui confronti oltre oceano era già stata avviata la politica della "tolleranza zero".

A questa fase, che potrebbe essere considerata l'inizio del diffondersi dei movimenti "securitari", seguì il definitivo radicarsi del sentimento d'insicurezza in quasi tutte le città medio-grandi del centro nord. Dalla seconda metà degli anni '90 il "problema sicurezza" è un'esperienza comune a molte delle aree metropolitane al centro nord e riguarda anche zone del paese con una dinamica produttiva molto florida, che dalla deindustrializzazione e dal decentramento produttivo hanno tratto tutti i vantaggi (375).

Tutte queste mobilitazioni furono il sintomo più evidente di un processo che stava lentamente spostando quella che è stata chiamata "frontiera della penalità" (376), arrivando ad inserirvi comportamenti comunemente esclusi da processi di criminalizzazione primaria o solitamente confinati nello spazio degli illeciti amministrativi e, comunque, a lungo oggetto di una prassi apertamente indulgenziale a livello di criminalizzazione secondaria. "In altri termini, con criminalità ormai si intende genericamente la devianza sociale, una categoria estremamente ampia che va dagli schiamazzi allo spaccio di droga. È chiaro che, riferendosi a questo terreno assai ampio, le proteste dei cittadini hanno la funzione di ridurre la soglia di tolleranza di ciò che il senso comune ritiene minacciare la vita quotidiana" (377). Al pari di quanto già avvenuto negli Stati Uniti e in Inghilterra, l'astratto concetto di "disordine urbano"prende a canalizzare ansie ed inquietudini.

Si vuole eliminare l'inciviltà - e l'universo sociale ed umano che è considerato alimentarla - dalle strade delle nostre città: "spacciatori di droga e tossicodipendenti, prostitute, mendicanti, individui senza fissa dimora che dormono in luoghi pubblici, ubriachi, giovani sbandati che ciondolano di fronte ad un bar e molestano i passanti con gesti e parole oscene, gruppi di persone che provocano rumori assordanti, gazzarre, schiamazzi, che litigano e si picchiano" (378). Ma, dietro tale repulsione per le piccole "inciviltà" urbane di tutti i giorni (379), si cela un sentimento di profonda repulsione nei confronti di tali individui, percepiti come profondamente diversi e pericolosi: "le persone ritenute responsabili di queste piccole violazioni (...) vengono considerate una minaccia perché imprevedibili e dunque capaci di tutto, anche di commettere reati violenti" (380).

Il lavoro di Barbagli è un perfetto esempio di revanscismo criminologico all'italiana, che peraltro ha l'accortezza di richiamarsi a J. Q. Wilson ed alle sue riflessioni - a dir poco reazionarie - sul degrado urbano, inserendole nel nostro dibattito accademico e non. Esso infatti - oltre ad offrire una lettura estremamente riduttiva dell'esplodere del sentimento d'insicurezza fra i cittadini italiani (e segnatamente bolognesi), spiegando il fenomeno con il semplice riferimento all'immagine dell'indecoroso centro cittadino bolognese: invaso da "barboni che oltre ad infastidire i passanti, danno spettacolo d'indecenza e sporcizia", "lavavetri insistenti ad ogni incrocio (...), prostitute e magari qualche gay di quelli peggiori", "tossicodipendenti barcollanti e privi di qualsiasi conoscenza", "signori ubriachi che con prepotenza pretendono soldi altrimenti ti rovinano la macchina", "cani liberi che spesso ti aggrediscono e non vengono richiamati dai proprietari" - implicitamente legittima e giustifica la richiesta repressiva dei cittadini: "si sente molto la mancanza di un'Autorità (vigili, polizia, carabinieri) che con multe, o con altri strumenti che sono in loro potere, riescano a dissuadere questi individui dal comportarsi in tal modo" (381).

Uno studio sulla tipologia delle domande di sicurezza dei cittadini emiliano romagnoli, ha di recente evidenziato come non siano affatto in aumento le chiamate e le richieste d'intervento delle forze dell'ordine relative ad episodi delittuosi di una certa gravità. Piuttosto, paiono essere decisamente aumentate le chiamate relative a piccoli episodi che un tempo avevano livelli di segnalazioni e denunce decisamente inferiori. Tutto ciò evidenzierebbe l'avviarsi di una tendenza alla criminalizzazione dei delitti minori (piccoli furti, rapine improprie, episodi di "micro-spaccio") e di tutta una serie di comportamenti classificabili nella categoria delle piccole inciviltà urbane (atti osceni, vandalismi, schiamazzi notturni, ecc.) (382).

In ogni caso, tale domanda di sicurezza prende ad esprimersi in nuove forme di aggregazione e partecipazione politica che molto peso verranno ad acquisire nel corso degli anni '90, e soprattutto nella seconda metà del decennio.

Tali mobilitazioni securitarie, non hanno sostanzialmente caratteri diversi rispetto alle analoghe manifestazioni in altri paesi occidentali. Anche in Italia - la cui specificità potrebbe favorire un'interpretazione di tali aggregazioni collettive nel quadro del crollo dei vecchi canali rappresentativi che ha caratterizzato l'inizio degli anni '90 (383) - esse evidenziano come l'ordine sociale postindustriale si vada costruendo attraverso il vocabolario della "sicurezza" della "penalità" (che è tipicamente un vocabolario tendente all'esclusione degli indesiderabili, alla criminalizzazione della marginalità sociale, all'occultamento delle categorie sociali non confacenti al livello di civiltà urbana auspicato (384)), piuttosto che attraverso il vocabolario della richiesta di partecipazione politica e delle rivendicazioni sociali di cambiamento (in cui vi è sempre una forte spinta verso l'inclusione di chi è attualmente escluso dalla partecipazione alla vita economica, sociale e politica della "comunità"), che spingono la società complessivamente intesa ad assumersi la responsabilità per il crearsi di sacche di marginalità e di povertà.

"La socialità urbana postindustriale sembra ormai ridursi a quella che si realizza nei supermercati, nei centri commerciali, nelle strade fitte di botteghe di ogni genere. La polizia, come in passato non poteva non rispettare il padrone della fabbrica (o il proprietario terriero), oggi deve innanzitutto essere "al servizio" del commerciante e del suo cliente" (385).

Il peso politico dei «bottegai» e dei vari «comitati» diventa in questo quadro parecchio significativo a livello municipale e ciò si evidenzia, almeno inizialmente, nel fatto che le varie amministrazioni locali, nel tentativo di non perdere consensi e non subire anch'esse la crisi di legittimazione subita dalle autorità politiche centrali, provino ad offrire risposte a tali pulsioni pur non avendo i mezzi e gli strumenti giuridici per farlo. A tal fine molte amministrazioni hanno tentato di costruirsi quali referenti principali della società civile nella battaglia al degrado ed alla micro-criminalità, arrivando a scalzare anche figure come i Questori, cui formalmente sarebbe spettata la competenza nel settore della sicurezza dei cittadini (386).

Sarà però tra il 1998 ed il 1999 che il tema della sicurezza verrà posto al centro del dibattito politico nazionale ed assunto quale punto fondamentale dell'agenda politica governativa (387). Ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non fu una destra conservatrice ad assumere la guida del movimento per la sicurezza: fu la stessa sinistra di governo che - spinta probabilmente dal timore di perdere terreno rispetto alle destre che si apprestavano a svegliarsi dal torpore avviando sull'insicurezza un inaudito battage mediatico - prima con Romano Prodi e poi, definitivamente, con Massimo D'Alema farà della sicurezza urbana uno degli obbiettivi principali dell'attività di governo.

Dopo i primi anni cui al problema della sicurezza venne data rilevanza prevalentemente in un ambito politico locale, la questione viene assunta dalle autorità politiche centrali, allora rappresentate da un governo di centro sinistra che, già abbondantemente avviato sulla strada del neo-liberismo (alla maniera della "nuova sinistra europea" capitanata da T. Blair), difficilmente avrebbe potuto privilegiare politiche di contrasto al sentimento d'insicurezza basate sull'estensione delle garanzie di "sicurezza sociale" o del welfare (safety net), a scapito della risposta meramente «securitaria» per mezzo dell'estensione della presa disciplinare sul corpo sociale (dragnet). D'altra parte vi era una componente interna alla stessa compagine governativa che aveva fatto della "cultura della legalità", della lotta al terrorismo, alla mafia ed alla corruzione politica, un cavallo di battaglia e tendeva adesso ad equiparare esplicitamente simili fenomeni "macro" criminali, alla piccola criminalità diffusa (388).

Il dibattito avviatosi in seno alla sinistra italiana sarebbe stato in ogni caso spazzato via da una tragica sequenza di omicidi che, all'inizio del 1999, si verificarono a Milano, scatenando un vero e proprio panico mediatico ed aprendo la via alla definitiva deriva della sinistra italiana verso la cultura della "tolleranza zero" - in cui, del resto, era facilmente reversibile la stessa "cultura della legalità" tanto cara ad alcuni esponenti politici (389).

Da questo momento in poi la strada che il governo batterà sarà quella che porta direttamente a politiche di "legge ed ordine", elaborando diversi progetti di legge - bozze di quello che poi sarebbe diventato il cosiddetto "pacchetto sicurezza" - le cui linee di fondo consistono in una totale delega a polizia e magistratura della questione securitaria ed in un complessivo irrigidimento repressivo. Ciò peraltro nel solco di una ormai decennale tradizione che, a dispetto delle professioni di fede garantista effettuate dai nostri esponenti politici di turno, ha sempre - al ricorrere delle varie «emergenze criminali» - alimentato il sotto-sistema penale dell'eccezione, basato sui postulati dei meccanismi polizieschi e disciplinari (390).

Il pacchetto sicurezza sarebbe stato partorito nel 2001 (con la L. nº 128), dopo varie lungaggini e rimaneggiamenti parlamentari (391) e sarebbe risultato un testo dalla spiccata impronta repressiva. Da un lato, infatti, avrebbe inserito una nuova ipotesi di revoca per la sospensione condizionale della pena (inserendo un nuovo comma, il terzo, all'art. 168 c.p.) ed avrebbe creato - a parte un innalzamento della pena prevista per il furto semplice - due nuove fattispecie di furto (art. 624-bis c.p.) "riciclando" due vecchie ipotesi aggravate (le figure di "furto in abitazione" e "con strappo", rispetto ai quali l'opinione pubblica si mostrava ormai parecchio sensibile), prevedendo una pena ordinaria da uno a sei anni di reclusione (secondo quanto già previsto dalla vecchia ipotesi aggravata) più un sostanzioso aumento alla multa (da un minimo di duecentomila delle vecchie lire si passa a seicentomila). Nel caso, poi, che la nuova fattispecie si presenti aggravata da altre circostanze previste nell'art. 625 o 61 c.p., la reclusione passa da un minimo di tre anni ad un massimo di dieci e la multa da quattrocento mila a tre milioni di vecchie lire (392). Il nuovo art. 625 bis c.p., inoltre crea una nuova, l'ennesima, figura di pentitismo, concedendo un'attenuazione di pena al delatore che contribuisca ad individuare i complici o i ricettatori.

Dall'altro lato avrebbe concretizzato preventivamente uno dei punti più qualificanti del programma politico della "casa delle libertà" in materia di sicurezza: l'autonomia d'indagine della polizia giudiziaria, estendendone significativamente i - già vastissimi dopo il 1992 - poteri; nonché esteso i poteri di arresto obbligatorio in flagranza in relazione alle nuove fattispecie di furto, allargando al contempo la possibilità di disporre una custodia in carcere per l'arrestato anche indipendentemente i limiti di pena sanciti dall'art. 280 c.p.p. ed allargato - vera ciliegina sulla torta - l'ipotesi di fermo prevista dall'art. 384 c.p.p. anche ai casi in cui si versi nell'"impossibilità di identificare l'indiziato".

Il "pacchetto sicurezza" giunge peraltro piuttosto tardivamente, all'esito di un estenuante percorso parlamentare. Era già da qualche tempo, infatti, che si andavano ponendo le basi su cui edificare uno «stato penale all'italiana»: attaccando - secondo gl'insegnamenti appresi oltre oceano - da un lato quel che restava del vecchio sistema delle alternative al carcere e le disposizioni più garantiste in materia di custodia cautelare, accusate di alimentare "scarcerazioni facili" (393); e dall'altro incrementando la quota del budget statale destinata alle spese per la tutela dell'ordine e devolute alle forze di pubblica sicurezza. A riguardo "è infatti assai significativo che nel Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2000-2003 il paragrafo IV.6 «Garantire sicurezza e giustizia ai cittadini» preceda quello avente come titolo «Combattere l'esclusione sociale e proseguire la riqualificazione del sistema socio-sanitario»" (394).

Un saggio del nuovo corso viene ancora dalla risposta che il governo di centro sinistra offre alle citate proteste che si susseguirono in diversi istituti di pena: "il 4 agosto 2000 (...) vara un pacchetto di provvedimenti sulla situazione carceraria che prevede l'assunzione di 2.300 agenti di polizia penitenziaria, di 1.900 addetti sociali e amministrativi per il sistema penitenziario, di 1.500 assistenti giudiziari per i tribunali, di 337 addetti alla Giustizia Minorile, lo stanziamento di 360 miliardi per nuovi uffici giudiziari, il varo del regolamento di riforma del Ministero della Giustizia e un programma di stanziamenti per l'edilizia penitenziaria" (395)

Nello stesso periodo verranno, inoltre, potenziate le capacità ricettive delle forze di polizia rispetto alla domanda di sicurezza proveniente dalla società civile.

Sotto quest'ultimo profilo - che è quello che più da vicino interessa il problema della sicurezza - vennero, attraverso tali misure, amplificati quegli aspetti delle politiche di prevenzione che potremmo ricondurre al «controllo situazionale», tendenti - come è stato sostenuto - al "presidio militare sui generis" (396) del territorio urbano e, soprattutto, dei centri cittadini, rispetto ai quali più pressanti sono le richieste di "bottegai" o "notabili locali" circa l'esigenza di "eliminare" (o perlomeno spostare altrove) la presenza di individui poco raccomandabili.

Spesso infatti le richieste d'intervento non riguardano la commissione di un qualche crimine, ma la semplice presenza di soggetti percepiti come problematici e pericolosi (oltre che "indecorosi" in rapporto al luogo in cui bivaccano); rispetto a tali richieste le varie questure occasionalmente (ma ormai con una certa periodicità) organizzano vere e proprie operazioni di "bonifica" del territorio, sovente adoperando "pattuglioni" interforze che si dividono le aree da presidiare, quasi si trattasse di uno stato d'assedio (397).

Al potenziamento del controllo del territorio si è accompagnato un maggiore riconoscimento del ruolo della realtà locale nell'indirizzare tale azione: è stata infatti prevista la possibilità di istaurare "protocolli d'intesa" fra gli enti locali, le prefetture ed il Ministero dell'Interno, in modo da coinvolgere le amministrazioni locali nella programmazione dell'attività di controllo da svolgere - in alcune realtà, inoltre, tali protocolli hanno portato al coinvolgimento della stessa "Polizia Municipale" nell'attività di pattugliamento, con poteri di polizia giudiziaria (398). In ultimo, con il pacchetto sicurezza, la già prevista partecipazione dei sindaci alle riunioni dei Comitati Provinciali per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica, viene ridisegnata nel quadro del «potere di direttiva» attribuito al Ministero dell'interno per la realizzazione "a livello provinciale e nei maggiori centri urbani, di piani coordinati di controllo del territorio", con la possibilità di disporre "l'istituzione di presidi mobili di quartiere nei maggiori centri urbani, nonché il potenziamento e il coordinamento, anche mediante idonee tecnologie, dei servizi di soccorso pubblico e pronto intervento per la sicurezza dei cittadini".

Il quadro delineato ricorda molto il ruolo (poi eliminato viste le tendenze accentratrici dei governi post-unitari) che le norme di pubblica sicurezza attribuivano alle amministrazioni comunali nel XIX secolo, quando a queste spettava la competenza di segnalare periodicamente all'Autorità di P. S. la presenza di "sospetti ladri di campagna" o di "oziosi e vagabondi" da sottoporre ad un qualche provvedimento di polizia. La realtà locale, come sappiamo, ha comunque sempre continuato ad esercitare un ruolo di primissimo piano nell'indirizzare l'attività di polizia anche dopo l'eliminazione del suddetto obbligo in capo alle autorità municipali, poiché la categoria del "sospetto", cui da sempre è preordinata l'attività poliziesca, è strettamente correlata con ciò che comunemente si definisce "pubblica voce".

A questo proposito fondamentale è capire come avvenga la formazione del sapere di polizia ed in questo quale rapporto essa instauri con la comunità locale. Dato che le nostre città tendono a fortificarsi sempre in misura maggiore e ad escludere dall'accesso ad una cittadinanza quanti presentino delle problematicità che potrebbero comportare degli impegni di spesa per le comunità locali, tanto più le agenzie amministrative sono aperte a recepire tali pulsioni, tanto più efficace risulterà essere la fortificazione degli spazi pubblici.

Su questo piano le forze di pubblica sicurezza - che nel quadro del crollo di legittimazione "dall'alto" seguita alla crisi della prima repubblica, si sono rivolte immediatamente verso le comunità locali di riferimento nel cercare una nuova legittimazione "dal basso" per la propria attività - tendono in maniera evidente ad appiattire il proprio sapere, la propria visione dei problemi da eliminare, la propria immagine della criminalità, sugli imput che riceveno dalle comunità locali. Riproducendo così nella loro attività - che come segnalato è basata su ampi parametri di discrezionalità - il sentimento di chiusura e repulsione nei confronti della marginalità socio-economica su cui si sta costruendo la "socialità" dell'Italia "post-industriale"

"La polizia al servizio del cittadino o polizia tra la gente o altri slogans del genere sono a volte malintesi al punto che la polizia sembra subordinata ad una sorta di plebiscito quotidiano da parte dei comitati di quartiere, a volte da certe personalità della città e quasi sempre enfatizzato da buona parte dei mass media (399)"

La strada che sembra aver definitivamente imboccato lo stato italiano è, dunque, quella del deciso potenziamento dell'attività di prevenzione situazionale, attraverso l'espansione dei dispositivi di sicurezza e del controllo "a tappeto" del territorio urbano, a cui corrisponde un significativo incremento della produttività delle nostre agenzie poliziesche, l'efficacia della cui azione si valuta ancora nei classici termini del quantitativo di atti di polizia giudiziaria effettuati (denunce, fermi, arresti) (400).

Come nel XIX la tenaglia poliziesca si strinse sul proletariato in formazione, oggi il suo rinnovato vigore serve a disciplinare l'universo della nuova marginalità sociale e del nuovo pauperismo. Quel mondo composto da tutti quegl'individui che oscillano tra i settori meno qualificati e garantiti nella struttura del mercato del lavoro post-fordista, l'economia informale ed illegale: il nuovo proletariato, su cui si basano la ricchezza e l'opulenza della società neo-liberale che stiamo costruendo ed a cui imponiamo una condizione di invisibilità sociale, "quella area dell'esclusione sociale che vive negli scenari metropolitani, ai margini del mercato del lavoro, che nella zona di confine tra economia sommersa ed extra legalità legata al commercio degli stupefacenti trova l'unica possibilità di soluzione per i suoi problemi di reddito e, insieme a questo, l'eventualità di entrare in carcere" (401)

Il sistema penale italiano, la cui propensione poliziesco-neutralizzativa non è mai stata in discussione, trova nuova linfa sul terreno culturale preparato dal cortocircuito securitario cui abbiamo assistito negli ultimi anni. L'incremento dei livelli di carcerizzazione può essere infatti letto come il portato di tale processo culturale, seguito ai rivolgimenti strutturali, che ha progressivamente costruito come «nuova classe pericolosa» la massa di individui che affolla i piani bassi del nostro mercato del lavoro: il precariato, la sottoccupazione e la disoccupazione.

Ciò si riflette in una decisa ripresa del processo di criminalizzazione della delittuosità spicciola, dovuta prevalentemente alla partecipazione degli strati proletari e sottoproletari ai mercati ed alle attività illegali dei bazar urbani contemporanei.La stragrande maggioranza delle condanne inflitte dal nostro sistema penale, infatti, riguarda reati «bagattellari», o comunque riferibili ad episodi microcriminali. Le nostre agenzie di controllo sociale formale tendono a concentrarsi su una delinquenza "strumentale" di piccolo cabotaggio, su tutta una fenomenologia criminale accomunata dalle ragioni di sussistenza che la muovono. Nel 1999 per esempio: il 98% delle 50.698 condanne per furto oscillava fra un mese ed un anno di reclusione; il 70% delle 6.623 condanne per rapina non superava i due anni di reclusione; e il 79.5% delle 18.134 violazioni alla disciplina sugli stupefacenti non ha subito una condanna superiore ai due anni (402).

Anche il proletariato "post-fordista" italiano viene così disciplinato ad uno status sociale che ha perso i contenuti di cittadinanza che un secolo di lotte sociali avevano assicurato al "lavoro", ricacciando nella precarietà esistenziale molti individui. Il meccanismo è ancora quello della "chirurgica" separazione di quanti accettano la condizione sociale riservata alla nuova «classe lavoratrice» e quanti, recalcitranti al disciplinamento sociale che gli s'impone, vengono etichettati come «classe pericolosa». Un meccanismo biopolitico di regolazione e gestione della massa "eccedente", che da un lato asseconda le occasionali capacità del sistema produttivo di assorbirne una parte, dall'altro evita alle conseguenze sociali dei nuovi processi di valorizzazione del capitale di esplodere in dinamiche incontrollabili, selezionando le "classi laboriose" e stoccando le "pericolose".

L'esplodere del problema "sicurezza urbana" è del resto coinciso con la segnalata svolta in senso liberista della nostra politica economica e del lavoro, l'arretramento ed i tagli al welfare che sono seguiti hanno determinato, come visto, il manifestarsi di un sentimento irrazionale ed istintivo tendente all'esclusione sempre più marcata di quanti popolano la base - sempre più esposta alla precarietà esistenziale ed alla marginalità socio-economica - della piramide sociale.

L'invisibilità cui si vogliono relegare le problematiche ed i disagi sociali scatenati dalla svolta sul piano strutturale è del resto parallela alla funzionalità di tale ampio strato di marginalità sociale alle esigenze di valorizzazione del nostro capitalismo, impegnato nella sempre più serrata competizione sui mercati globali. A tal fine le politiche securitarie, legittimate da un dibattito pubblico sempre più punitivo, non fanno altro che estendere la sfera dell'intervento poliziesco e la stretta sulle classi marginali. Ciò ha un inequivocabile riflesso nei segnalati livelli di carcerizzazione che, con tutta la cautela del caso e fatte le dovute proporzioni, delineano i tratti di un nuovo "grande internamento" anche in Italia.

Il nostro diritto della prigione è, infatti, ancora in rapporti di stretta contiguità con il diritto di polizia, la stessa pena del carcere assume i connotati di una vera e propria misura di polizia, trasformando i nostri stabilimenti penitenziari in prigioni per poveri sul modello degli antichi "ospedali generali". Ciò soprattutto grazie al ruolo di surrogato sanzionatorio che viene ad assumere la "carcerazione preventiva", facendo in modo che, alla segnalata criminalizzazione dei reati di strada, faccia seguito un parallelo processo di carcerizzazione in grado di arretrare la soglia di punibilità sino al semplice sospetto di un reato commesso, qualora dovutamente suffragato da prognosi di pericolosità sfavorevoli (403). Il ricorso a quest'istituto (sia esso funzionale ad una pratica inquisitoria, che utilizzato come surrogato sanzionatorio), del resto, è sempre aumentato vertiginosamente in occasione delle ricorrenti «emergenze criminalità».

Tutto ciò evidenzia come la custodia preventiva si sia strutturata nel ruolo di agile strumento di risposta all'allarme sociale, in grado di anticipare l'intervento punitivo in maniera atipica, funzionando come meccanismo che, avendo accentuato a partire dagli anni '70 il suo carattere poliziesco, appare molto più agile e praticabile dei normali strumenti sanzionatori, cui si arriva attraverso un più o meno lungo percorso processuale - e, soprattutto, all'esito della prova di un "fatto" e non di un giudizio sull'"autore" - che spesso si preferisce eludere al cospetto di fruste esigenze di difesa sociale (404).

All'utilizzo della custodia cautelare inoltre, si aggiunge un ampio ricorso ai procedimenti di deflazione dibattimentale che, come visto, consentono di chiudere repentinamente un gran numero di vicende processuali facendo assumere valenza probatoria agli atti istruttori prodotti dalla polizia giudiziaria che, nel pattugliare le vie dei nostri centri cittadini ferma, arresta, procede a perquisizioni o all'assunzione di sommarie informazioni con assoluta libertà e, del tutto indipendentemente dalle direttive impartitegli dall'autorità giurisdizionale, seguendo gli indirizzi di politica criminale imposti tanto dall'alto (dall'esecutivo) che dal basso (dalla realtà locale).

Il sotto sistema penale (e processuale) di polizia grazie alla sua duttilità, riesce - come vedremo - a conseguire elevati livelli di efficienza (essendo in grado di arretrare la soglia della punibilità sino al semplice modo di essere della persona, agendo prevalentemente secondo il parametro della pericolosità) selezionando in maniera esplicitamente discriminatoria i suoi clienti ed improntando per le «classi pericolose» rapidi percorsi processuali dallo spiccato carattere inquisitorio.

Sotto questo profilo infatti, se da un lato i tassi di ingresso in carcere, come visto scesi significativamente sul finire degli anni '80, con gli anni '90 esplodo nuovamente toccando le 100.829 unità nel 1994 e stabilizzandosi (grazie anche alle riforme parzialmente migliorative del regime di custodia cautelare) intorno alle 90.000 unità con una media del 85% di detenuti in attesa di giudizio. Dall'altro lato simili procedure semplificate, che prevedono peraltro diversi limiti all'appellabilità delle sentenze, contribuiscono anche all'esplosione delle presenze, che hanno ormai abbondantemente sfondato il tetto delle 50.000 unità, con una sostanziosa crescita dei detenuti presenti a titolo definitivo, la cui quota da percentuali intorno al 19-20% è aumentata fino a rasentare più volte il 30% sul totale (405).

L'esplodere anche in Italia del sentimento d'insicuerezza è, dunque, difficilmente spiegabile attraverso il riferimento a supposti aumenti della delittuosità e, tanto meno, possono giovare a riguardo ipotesi "cospirazioniste", secondo cui "i vari giornali (...)avrebbero condotto delle campagne per diffondere la paura fra i cittadini per conto di qualche gruppo" (406), ipotesi che è insensato riproporre anche se solo in chiave critica.

Piuttosto, il panico securitario pare un aspetto di quel riflusso soprastrutturale seguito ai segnalati mutamenti nella struttura sociale e tendenzialmente guidato dalle categorie sociali egemoni economicamente, politicamente e culturalmente.

La capacita che un'elite possiede di dirigere i processi di controllo sociale si pone, infatti, nei limiti in cui essa è in grado produrre e governare gli universi simbolici idonei a legittimare, giustificare e riprodurre - identici a sé stessi - gli assestamenti strutturali dell'ordine sociale, reificandoli. Quando la congiuntura è di crisi o i mutamenti strutturali possono portare ad un significativo peggioramento delle condizioni di vita di molte persone, scatenando aspre conflittualità sociali ed una profonda crisi di legittimità, tale capacità egemonica assume ancora più importanza, poiché come segnalato è più difficile legittimare una realtà sociale svantaggiosa per molti.

In questi casi, più che in epoche maggiormente pacificate, giungono in soccorso il meccanismo del "panico morale" e la costruzione di stereotipi criminali, che contribuiscono a dirottare il risentimento di ampi strati sociali verso le categorie più deboli ed esposte alla stigmatizzazione...Un vocabolario punitivo si sostituisce al vocabolario della politica, ciò che potrebbe essere interpretato come manifestazione di problematicità e conflittualità dovuti a squilibri sociali cui ovviare, diviene sintomo di pericolosità e criminalità, esempio di una patologia individuale. Tutto ciò ha inevitabilmente dei risvolti sull'azione delle agenzie di controllo sociale che, nell'utilizzare i più o meno ampi poteri discrezionali attribuitigli, si muovono necessariamente all'interno della medesima struttura simbolicha che pervade il dibattito pubblico; la quale, dunque, è in grado indirettamente di influenzare anche i riflessi statistici dell'attività delle agenzie di criminalizzazione secondaria.

Un breve sguardo alla specificità del caso italiano potrebbe illuminarci sul come, nel nostro paese, il sentimento d'insicurezza sia sorto e sia stato egemonizzato dalle forze politiche e dalle autorità di governo.

Nella nostra penisola, infatti, a partire dagli anni '90 si è assistito ad una radicale crisi dei normali canali di rappresentazione democratica, il nostro sistema partitico e la nostra democrazia parlamentare hanno subito una crisi che non ha eguali in nessun paese occidentale. L'esplodere del sentimento d'insicurezza - e la correlativa domanda di sicurezza - parrebbero dunque moti spontanei della società civile e ciò sembrerebbe confermato dal fatto che l'azione di risposta delle polizie ha immediatamente goduto di un consenso quasi unanime da parte dei comuni cittadini. Le Autorità di Pubblica Sicurezza, dunque, si sono appoggiate nella loro azione quotidiana di contrasto alla criminalità diffusa su di una legittimazione che gli è venuta dal "basso", dalla stessa società civile. Tutto ciò è innegabile - e quanto ciò contribuisca a rifondare il "patto" sulla base di una radicale esclusione della marginalità e della problematicità sociale si è detto - ma è pur vero che varie forze politiche, prima a livello locale, poi - sempre più - anche a livello nazionale, hanno ormai colto l'enorme posta politica che si gioca attorno alla questione della sicurezza. Si è infatti assistito (almeno nell'ultimo lustro degli anni '90 e nei primi anni del secolo XXI) ad una rincorsa politica che aveva, quale posta in gioco, l'egemonizzazione del dibattito pubblico sulla sicurezza e della doxa punitiva e populista che l'ha pervaso. Il crollo del vecchio sistema partitico ha probabilmente aperto una gara spietata per la conquista del consenso e buona parte di questa gara si è certamente giocata sul tema della sicurezza. Colossali operazioni di "marketing politico" hanno visto protagonisti gli attori (vecchi e nuovi) della scena politica nazionale (407): l'uno impegnato a non perdere consensi, l'altro a conquistarne di nuovi, entrambi gli schieramenti in campo hanno accolto ed alimentato nel loro scontro dialettico, le irrazionali pulsioni che provenivano dalla società civile. Con il significativo contributo dei media, hanno fornito a tali pulsioni un vocabolario per esprimersi...Ed è stato, ovviamente, un «vocabolario punitivo».

Prima di accingerci ad osservare più da vicino il funzionamento concreto dei meccanismi polizieschi e, segnatamente, del modo in cui essi vengono fruttuosamente impiegati nel quadro dell'attività di controllo del territorio; fornendo a questa e, di conseguenza, a tutto il nostro sistema penale, il carattere spiccatamente selettivo che connota tutti i sistemi sottesi da una visione sostanzialista della devianza ed intenti all'operazione biopolitica di separazione delle "classi laboriose" dalle "classi pericolose". È opportuno volgere uno sguardo più ravvicinato alla massa che compone, nell'Italia del nostro tempo, quella che nel XIX secolo veniva chiamata "classe laboriosa". È opportuno individuare con più precisione la composizione del "proletariato postfordista" italiano, cui abbiamo spesso fatto riferimento, in modo da poter parallelamente circoscrivere quale specifica componente di questo venga etichettata come "classe pericolosa".

Tale percorso ci porterà a scoprire le strategie di disciplinamento che l'Italia mette in campo nel governare il suo "proletariato d'importazione" (408), nell'estrarre da questo il massimo di plus-valore possibile con il minimo di risorse spese in termini di opportunità d'integrazione offerte; come, da questo proletariato, si estragga quella che nel dibattito pubblico è ormai una vera e propria «nuova classe pericolosa».

Evidenzieremo, dunque, come si è costruito in Italia lo stereotipo dell'immigrato criminale, come nasce e che funzione esercita l'idea che gli extracomunitari siano degli individui assolutamente pericolosi da controllare strettamente, come, in breve, gli immigrati sono diventati il nostro principale "nemico pubblico", canalizzando tutte le ansie e le paure scatenate dal panico securitario di cui è stata teatro l'Italia.

L'analisi ci offrirà, peraltro, l'occasione di sottolineare (ancor prima di osservare lo stereotipo criminale all'opera, nel concreto funzionamento del sistema penale) come la criminalizzazione dell'immigrazione extracomunitaria trovi i suoi presupposti materiali già sul piano delle politiche immigratorie, circostanza che rende ancor più gravido di conseguenze l'impattare degli immigrati con il nostro sistema penale.

References

(1) Per la storia della "prima" e della "seconda" grande emigrazione italiana cfr. il volume: A.A.V.V., Storia dell'emigrazione italiana, Roma, 2001.

(2) Il problema dell'immigrazione e gli immigrati in carne e ossa, in: La Repubblica, 13.5.2002.

(3) A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 41.

(4) Cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, London, 1999.

(5) Cfr.: R. Bianchi, Il ritorno della piazza. Per una storia dell'uso politico degli spazi pubblicitra otto e novecento, in: Zapruder, n. 1, 2003.

(6) Cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit.

(7) Cfr.: A, Caracciolo, L'ingresso delle masse nella scena europea, in: A.A.V.V., Il trauma dell'intervento 1914-1918, Firenze, 1968.

(8) Cfr.: A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Note su Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, cit.; U. Cerroni, Elite e democrazia di massa: sviluppi teorici dopo Gramsci, in: V. Tega (a cura di), Gramsci e l'occidente, Bologna, 1990, p. 113 e ss.; cfr. anche supra: par. 1.1.2.

(9) A, Caracciolo, L'ingresso delle masse nella scena europea, cit.

(10) H. C. Hoover cit. in: R. Hofstander, Le grandi controversie della storia americana, Roma, 1966.

(11) Cfr.: N. Bobbio, Destra e sinistra, Roma, 1994.

(12) H. Wallace, in: F. Mancini, L'età di Roosevelt, Bologna, 1962.

(13) Peraltro le riforme nel campo del lavoro, che per la prima volta riconoscevano le associazioni dei lavoratori ed il loro diritto a contrattare le condizioni di prestazione della loro opera nell'ambito di uno standard fissato per legge (un massimo di ore lavorative ed un minimo salariale garantito, che furono stabiliti dal Labor Standards Act), furono decisamente avversate dalla Corte Suprema, che le riteneva incompatibili con i valori fondamentali dell'ordinamento giuridico americano, avviando a proposito un lungo braccio di ferro con il presidente (cfr. anche: A. Nevis, H. Commager, Storia degli Stati Uniti, Torino, 1960)

(14) Sul punto - oltre, ovviamente, a T.H. Marshall, Citizenship and socialclass and other essays, Cambridge, 1950 - cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit.; D. Zolo (a cura di), Cittadinanza, appartenenza, identità, diritti, Roma/Bari, 1994.

(15) Come è stato giustamente segnalato: "la politica di Roosevelt non e diretta contro il sistema ma al salvataggio del sistema, tentando di correggere equilibri e storture, ma conservandogli il consenso delle masse, attraverso un programmaa di riforma che permise di alleviare le conseguenze umane e sociali della crisi e di assorbire una protesta che in mancanza di una speranza riformista avrebbe potuto esplodere in un movimento autenticamente rivoluzionario", G. Mammarella, l'America da Roosevelt a Reagan. Storia degli StatiUniti dal 1939 ad oggi, Roma/Bari, 1986.

(16) J. Katz, In the shadow of the poor house, New York, 1986.

(17) Cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit. (18) Il fenomeno riguardò sostanzialmente tutte le democrazie europee, che, prima o dopo, si avvieranno nel secondo dopoguerra sulla strada di un più o meno marcato riformismo. Per ciò che riguarda lo specifico italiano cfr. oltre: par. 4.4.2.

(19) Cfr.: G. Mammarella, l'America da Roosevelt a Reagan. Storia degli StatiUniti dal 1939 ad oggi, cit.

(20) Svolta perfettamente intuita da Antonio Gramsci, cfr.: Quaderni dal carcere. Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno. Americanismo e fordismo, cit., p. 403 e ss.; M. Telò, Il nuovo capitalismo tra le due guerre: taylorismo e fordismo, in: V. Tega (a cura di), Gramsci e l'occidente, cit., p. 123 e ss.

(21) Cfr.: M. Pavarini, I nuovi confini della penalità.introduzione alla sociologia della pena, cit., p. 68.

(22) Sul fordismo e l'aumento esponenziale delle esigenze disciplinari che esso implica, oltre ai contributi di Antonio Gramsci già citati cfr.: A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma, 2000, soprattutto da p. 81 e ss.; Id, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., soprattutto p. 52 e ss.; J. Lea, Criminalità ed emarginazione nel mondo "postfordista", in: Dei delitti e delle pene, 2, 1998.

(23) Tali caratteristiche consentono di guardare allo sviluppo del regime industriale come all'espandersi di sempre più estesi processi di "internalizzazione della manodopera" (cfr.: S. Palidda, Polizie e ordine nella società post-industriale globale, in: Derive approdi, 17, 1999.

(24) A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno. Americanismo e fordismo, cit., p. 403 e ss.

(25) P.P.Pasolini, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in: Scritti corsari; ora raccolti in: Saggi sulla politica e sulla società, Milano, 1999, p. 307 e ss.

(26) Cfr.: M. Pavarini, I nuovi confini della penalità.introduzione alla sociologia della pena, cit.; D. Melossi, Oltre il panopticon. Per uno studio delle strategie di controllo sociale nel capitalismo del ventesimo secolo, cit.; S. Cohen, Lo sviluppo del modello correzionale: chiacchere e realtà del controllo sociale, in: Dei delitti e delle pene, 1, 1985, p. 5 e ss.

(27) M. Pavarini, Lo scambio penitenziario. Manifesto e latente nella flessibilità della pena in fase esecutiva, Bologna, 1996.

(28) Cfr.: M. Foucault, Microfisica del potere, cit.; M. Pavarini, I nuovi confini della penalità.introduzione alla sociologia della pena, cit.

(29) M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporanea, in: U. Curi, G. Palombarini, Diritto penale minimo, Roma, 2002; in generale su questi argomenti cfr. anche: Id., I nuovi confini della penalità. Introduzione alla sociologia della pena, cit.; qualche accenno merita il caso dell'Italia, il cui ordinamento penitenziario resta privo di percorsi alternativi fino al 1975, quando - in singolare coincidenza con la definitiva crisi del modello correzionale - si è finalmente avuta la riforma penitenziaria. La vicenda del nostro ordinamento penitenziario è rilevante anche per sottolineare la - già segnalata - scarsa propensione alle riforme che ha a lungo connotato le nostre classi dirigenti; per il momento tuttavia non è il caso di andare oltre questi fugaci accenni. interessante notare come ad una volontà politico legislativa di decarcerizzare in the books, non sia corrisposta un'analoga tendenza in the facts. In particolare un dato s'impone: a fronte di tendenze politico legislative volte a decarcerizzare, dal 1975 - come vedremo meglio in seguito - in poi si riscontrerà invece un incremento dei tassi di carcerizzazione. Certo le politiche di penalità alternativa, se considerate come percorsi che hanno limitato tale processo di ricarcerizzazione, fanno pensare che in assenza di quella volontà politica il trend di ricarcerizzazione sarebbe stato molto più alto; tuttavia non è empiricamente dimostrabile che chi adesso è decarcerizzato in forza della legge del 1975, sarebbe, in assenza della stessa, necessariamente un detenuto in più. Delle ipotesi sono però avanzabili considerando i tassi d'ingresso su 100.000 abitanti (opportunamente relativizzati dalla presenza di chi entra in custodia cautelare): di norma questi si assestano sulle 176 unità, se a questi si aggiungono, tuttavia, tutti coloro che hanno goduto di un percorso alternativo senza assaggio di carcere (affidamento in prova - detenzione domiciliare) le unità salgono a 232. Aggiungendo inoltre i soggetti agli arresti domiciliari la cifra sarebbe pari a quella che si riscontrava nel 1942, anno in cui la nostra storia conosce il picco di "penalizzazione materiale". L'ipotesi, poiché resta un'ipotesi stante la sua indimostrabilità, è allora quella che i percorsi alternativi, nati per deflazionare il carcere, non abbiano influito significativamente sui tassi di carcerizzazione relativi alle presenze, bensì sembra abbiano prodotto un aumento del controllo penale consentendo di agirlo diversamente. Al circuito carcerario si sarebbe aggiunto - non sostituito! - un circuito di penalità al di fuori del carcere (per questa suggestiva ipotesi cfr.: M. Pavarini, Per un diritto penale minimo: "in the books o in the facts"? Discutendo con Luigi Ferrajoli, cit.; Id., La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.).

(30) Il riconoscimento delle libertà negative e positive (secondo la partizione di I. Berlin, Due concetti di libertà, cit.) è infatti la sanzione di un'uguaglianza ancora meramente formale, rispetto alla quale il riconoscimento dei così detti diritti sociali rappresenta un tentativo di superamento, esprimendo questi ultimi una tensione verso l'uguaglianza sostanziale, che lo stato si pone come obbiettivo se non da raggiungere, perlomeno da approssimare il più possibile (per una disamina di questi argomenti attraverso la lente concettuale della nozione di "cittadinanza" cfr. i contributi contenuti in: D. Zolo (a cura di), Cittadinanza, appartenenza, identità, diritti, Roma/Bari, 1994.

(31) "La realizzazione di tale istanza comporta una sostanziale trasformazione del modo di intendere i fini e i limiti dell'azione dello stato, dato che, com'è chiaro, senza l'intervento dei pubblici poteri non si potrebbe giungere al risultato di consentire a tutti l'effettivo esercizio dei diritti" (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico. Tomo I, Padova, 1975, p. 142.).

(32) Quest'incongruenza è evidente se si pensa alla logica libertaria e mercantile che sottende parte dei diritti che la cultura liberista vorrebbe assolutamente inviolabili, come le cosiddette libertà economiche; ed alla logica egualitaria che, viceversa, connota i "diritti sociali". Nel XX secolo l'imporsi della forma di stato che ai diritti sociali ha assegnato precipua rilevanza, ha portato alla soluzione dell'incongruenza attraverso la progressiva limitazione delle libertà economiche, "questa trasformazione è particolarmente accentuata nei confronti del diritto di proprietà dei beni di produzione, per il quale non si riconosce più al privato libertà di utilizzazione ma si tende a subordinarla all'adempimento di una funzione sociale" (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico. Tomo I, cit., p. 43; più in generale, sul problema delle antinomie fra "diritti civili" e "diritti sociali", cfr. i contributi raccolti in: D. Zolo (a cura di), Cittadinanza, appartenenza, identità, diritti, cit.). Nella nostra costituzione ciò si è espresso nella formulazione dell'articolo 41.

(33) Cfr.: Le antinomie della cittadinanza: libertà negativa, diritti sociali e autonomia individuale", in: D. Zolo (a cura di), Cittadinanza, appartenenza, identità, diritti, cit., p. 93 e ss.

(34) "Le pene (...) devono tendere alla rieducazione del condannato" recita infatti l'articolo 27 della nostra Costituzione.

(35) Cfr.: C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico. Tomo I, cit., p. 142 e ss.

(36) Cfr.: Parte I, par. 1.2.2.

(37) Cfr.: A. Baratta, Sistema penale ed emarginazione sociale, in: La questione criminale, 1976.

(38) Cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit

(39) A riguardo cfr.: A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma, 2000; Id, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, Vero, 2002. (40) M. Pavarini, I nuovi confini della penalità.Introduzione alla sociologia della pena, cit., p. 69.

(41) Cfr.: R. Matthews, P. Francis, Prison 2000. An international perspective on the current state and future of imprisonment,London, 1996.La lunga fase di decremento della popolazione carceraria coincide perfettamente con quel periodo che gli storici dell'economia chiamano "trentennio glorioso" (1946-1974), in cui le democrazie occidentali dell'asse atlantico conobbero una espansione economica che portò molti di questi paesi a sfiorare uno stadio di piena occupazione. Prescindendo momentaneamente dal caso dell'Italia, su cui torneremo nello specifico, le considerazioni svolte parrebbero confermare l'idea che, in un regime produttivo molto prossimo al livello di piena occupazione, il sistema di controllo sociale abbia manifestato una spiccata propensione a reinserire nel ciclo produttivo ogni suo cliente, onde scongiurare il pericolo di una "carenza" di manodopera (cfr.: A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 75). Questo quadro si sarebbe dovuto caratterizzare per la tendenza a limitare il più possibile l'utilizzazione degli strumenti penali di controllo sociale ed infatti è dato riscontrare nella maggior parte delle democrazie occidentali un ampio utilizzo di strumenti non penali di disciplinamento e socializzazione (si pensi a tutte le agenzie statali del welfare), ma, cosa ancor più significativa, lo stesso strumento penale, poi, tende a lenire la propria afflittività per mezzo di politiche volte alla decarcerizzazione. È da credere tuttavia che a determinare tale spiccata propensione alla "risocializzazione" ed all'"integrazione" del welfarismo penale non sia stata la sola esigenza di sopperire alla "carenza" di manodopera, ma anche la segnalata necessità di creare un mercato sufficientemente esteso per l'iperproduttività fordista...vi era insomma anche una forte "carenza" di consumatori.

(42) Se si considera poi che solo nel 1997 vi erano circa quattro milioni di individui sottoposti al regime di probation o parole, cioè a misure penali decarcerizzanti, risulta che in media, a far corso dagli anni novanta, gli Stati Uniti sottopongono ad una qualche forma di controllo penale complessivamente circa cinque milioni di persone all'anno (i dati sono tratti da L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Milano, 2000, p. 58 e ss.; ma si possono confrontare, per considerazioni sostanzialmente analoghe, anche: A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit.; D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 215 e ss.)

(43) Cfr.: R. Quinney, Class, state and crime, New York, 1977; Spitzer, Towards a Marxian theory of crime, in: Social Problems, 22, 1975; Greemberg, The dynamics of oscillatory punishment processes, in: Journal of Criminal Law and Criminology, 68, 1977; I. Jankovic, Social class and criminal sentencing, in: Crime and Social Justice, 10, 1978; Id., Labour market and imprisonment, in: Crime and Social Justice, 9, 1977; per un sintesi cfr.: A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit.

(44) Cfr.: S. Box, C. Hale, Economic crisis and the rising prisoner population in England and Wales, in: Crime and social Justice, 17, 1982; Id., Unemployment, crime and imprisonment, in: R. Matthews, J. Young, Confronting crime, London, 1986; S. Box, Recession, crime and punishment, London, 1987; T.G. Chiricos, M.A. Delone, Labour surplus and punishment: a review and assessment of theory and evidence, in: Social Problem, 30, 1992. "There now exist a substantial body of historical evidence and theoretical reflection which supports the view that variations in the level of punishment and the intensity of punitive rhetoric have at least an elective affinity with recessionary moments in business cycles (fiscal crisis) and/or with critical moments in the popularity and authority of governments (legitimation crisis)" (R. Sparks, Penal "austerity": the doctrine of less eligibility reborn?, in: R. Matthews, P. Francis, Prison 2000. An international perspective on the current state and future of imprisonment, cit., p. 80).

(45) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 60.

(46) S. Box, C. Hale, Economic crisis and the rising prisoner population in England and Wales, cit., p. 21.

(47) Abbiamo già evidenziato del resto la vicenda della locuzione "oziosi e vagabondi" nel nostro ordinamento giuridico all'indomani dell'unità, confinata nei "piani inferiori" del sistema penale, nel Testo Unico di Pubblica Sicurezza crispino. Già alla fine del XIX secolo non vi era più un'esplicita criminalizzazione dello status di disoccupato in Italia, anche se non abbiamo mancato di rilevare l'indotto di criminalizzazione delle norme di polizia. Possiamo già da adesso anticipare, però, come la fattispecie soggettiva dedicata agli "oziosi e vagabondi" tarderà a scomparire dal nostro ordinamento, riproducendosi identica a sé stessa, nelle normative di pubblica sicurezza, per un secolo: fino al 1988.

(48) D. Melossi, An introduction: fifty years later, punishment and social structure in comparative analysis, in: Contemporary Crisis, 13, 1989, p.319.

(49) D. Melossi, An introduction: fifty years later, punishment and social structure in comparative analysis, cit., p. 320. Per considerazioni simili cfr.: S. Box, C. Hale, Economic crisis and the rising prisoner population in England and Wales, cit.; Id., Unemployment, crime and imprisonment, cit.; S. Box, Recession, crime and punishment, cit. (50) S. Box, C. Hale, Unemployment, crime and imprisonment, cit, p. 72.

(51) Secondo la definizione che offre D. Melossi, cfr.: Teoria sociale e mutamenti nella rappresentazione della criminalità, in: Studi in onore di Giandomenico Pisapia, Vol. III, Criminologia, cit.; Id., Stato, controllo sociale, devianza, cit., p 215 e ss.

(52) Cfr.: S. Palidda, Polizie e ordine nella società post-industriale globale, cit.

(53) A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 75; sul postfordismo cfr. anche: Id., Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit., p. 83 e ss.

(54) A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 76 e ss.

(55) Ivi, p. 78.

(56) A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 79.

(57) Cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit.; L. Wacquant, Dallo Stato caritatevole allo stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America, in: A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico. Materiali per l'etnografia contemporanea, Genova-Milano, 1998, p. 275 e ss.

(58) L'america come utopia rovesciata, in "aut/aut", nº 275, 1996, p. 93 e ss.

(59) "La creazione di posti di lavoro (...) rappresenta un successo dal punto di vista meramente quantitativo, ma è necessario tenere conto di come sia avvenuta a detrimento dei lavoratori meno qualificati, che in media oggi guadagnano il 44 percento in meno dei loro omologhi europei, e nella maggior parte dei casi non dispongono né di copertura sanitaria (circa i due terzi), né di pensione (in quattro casi su cinque), nonostante tendenzialmente lavorino cinque settimane di più all'anno" (L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 57; cfr. anche: Id., L'america come utopia rovesciata, cit.; Id., Dallo Stato caritatevole allo stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America, cit.).

(60)Ivi, p. 280.

(61) Ibidem. (62) L. Wacquant, L'america come utopia rovesciata, cit., p. 101.

(63) Cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit.

(64) Cfr.: Massey, American apartheid: segregation and the making of the underclass, in: American Journal of Sociology, 96, 1990.Sul caso di Los Angeles e sugli analoghi processi di pauperizzazione che il proletariato della megalopoli californiana ha subito cfr.: M. Davis, Chi ha assassinato Los Angeles? La sentenza è pronunciata, in "aut/aut", nº 275, 1996, p. 103 e ss. (65) J.W. Wilson, The truly disadvantaged, Chicago, 1987; Id, Studying the inner-city dislocations, in: American Sociological Review, 56, 1991; L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit.

(66), L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 99.

(67) R. Dahrendorf, The Times, July 1985, cit. in: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit., p. 102

(68) Dario Melossi, nel suoStato, controllo sociale, devianza, cit., p. 216, evidenzia come l'inpennata dei livelli di carcerizzazione negli Stati Uniti coincida perfettamente con un impennata nei livelli di disuguaglianza sociale sul finire degli anni '80.

(69) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 57.

(70) Anche se, come segnalato, a differenza dell'Inghilterra, gli Stati Uniti più che un vero e proprio welfare pare abbiano avuto un semiwelfare (cfr.: J. Katz, In the shadow of the poor house, cit.)o uno stato caritatevole (cfr.: L. Wacquant, Dallo Stato caritatevole allo stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America, cit.).

(71) L. Wacquant, Dallo Stato caritatevole allo stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America, cit.,p. 284; Cfr. anche: Id., Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit.; B. Western, K. Beckett, How unregulated is the U.S. labour market? The penal sistem as a labour market istitution, in: American Journal of Sociology, 4, 1999.

(72) C. Hale, Economy, punishment and imprisonment, in: Contemporary Crisis, 13, 1989, p. 342.

(73) Cfr.: Auletta, The underclass, New York, 1982.

(74) Cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit., p. 80 e ss.

(75) Sulla parabola di C. Murray e, più in generale sul processo di legittimazione delle politiche neoliberiste in materia di assistenza sociale cfr.: L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 13 e ss.; L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit., p. 80 e ss.

(76) Sul punto cfr. anche: D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 223.

(77) Ibidem.

(78) Su questo cfr.: L. Morris, Dangerous class. The underclass and social citizenship, cit.; L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 29 e ss.; D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 237 e ss.

(79) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 30.

(80) Su questi argomenti cfr.: L. Wacquant, Dallo Stato caritatevole allo stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America, cit.; Id., Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit.

(81) Cfr.: L. Wacquant, Dallo Stato caritatevole allo stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America, cit., p. 284.

(82) Cfr.: L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 87 e ss.

(83) Ci pare, pertanto, tutto sommato problematica da sostenere l'idea avanzata da J. Deleuze (cfr.: La società di controllo, in: Derive/approdi, 9/10, 1996) di un superamento della società disciplinare a vantaggio di una società di controllo, basata su un nuovo paradigma di controllo sociale. Sul punto torneremo comunque a breve, cfr.: infra, par. 4.3.

(84) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 70 e ss.

(85) Per l'idea di tale "involontaria" convergenza fra teorici costruttivisti ed esiti garantisti sul piano della teoria penale, con le derive conservatrici e neoautoriatrie della criminologia statunitense cfr.: D. Melossi, Teoria sociale e mutamenti nelle rappresentazioni della criminalità, cit., p. 177; Young J., Il fallimento della criminologia: per un realismo radicale, in: Dei delitti e delle pene, 3, 1986

(86) Tale critica - a prescindere dalle correnti criminologiche che abbiamo inquadrato sotto l'etichetta di "costruttivismo" - si espresse negli Stati Uniti nel diffondersi di una corrente di pensiero penalistico che potremmo ricondurre al nostro "garantismo": il "justice model", che esprime in sostanza un aspirazione verso il ritorno agli autentici postulati della scuola classica, da realizzarsi attraverso la progressiva eliminazione degli istituti dovuti all'ideologia correzionale, ormai additata come inefficace e foriera di discriminazioni. Tale corrente auspicava in sostanza un ritorno ad un autentico "diritto penale del fatto" (crf.: T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A. Verde, Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Milano, 1991, p. 749 e ss.).

(87) Cfr.: Platt A., Takagi P., Intellettuali per la legge e l'ordine: una critica dei "nuovi realisti", in: La questione criminale, 4, 1978, p. 217 e ss.

(88) A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit., p. 31. I capiscuola di tale neoautoritarismo criminologico, E. Van Den Haag e J.Q. Wilson, paiono reagire alle politiche correzionali in ragione del permissivismo che una filosofia special preventiva praticata attraverso un ampio ricorso allo strumento della "decarcerizzazione" era ritenuta determinare e, soprattutto, a quanto di progressivo vi era nel concetto mertoniano di deprivazione relativa, che, come sottolineato, conteneva in sé i germi di una radicale critica della stratificazione sociale nelle società capitalistiche[88]. Essi, infatti, esprimo tale pulsione reazionaria in una richiesta di maggiore severità penale: "allo scopo riabilitativo sotteso alle politiche del trattamento si sostituisce l'obiettivo della deterrenza e dell'initmidazione" (Ibidem).

(89) Cfr.: Platt A., Takagi P., Intellettuali per la legge e l'ordine: una critica dei "nuovi realisti", cit.; D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 222.

(90) R. Sparks, Penal "austerity": the doctrine of less eligibility reborn?, cit.

(91)D. Melossi, cfr.: Stato, controllo sociale, devianza, cit.,p. 219.

(92) Distinzione avanzata da D. Garland, cfr.: The Limits of Sovereign State, in: The British Journal of Criminology, 36, 1996, p. 445 e ss.; e ripresa recentemente da D. Melossi, cfr.: Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 220 e ss.

(93) D. Melossi, cfr.: Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 220.

(94) Cfr. in proposito: D. Melossi, cfr.: Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 220 e ss.

(95) A proposito di tali teorici cfr.: A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit., p. 31 e ss.

(96) Cfr.: A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit., p. 31. Tuttavia appare quantomeno problematico asserire che tale realismo di destra rappresenti tout court un ritorno all'illuminismo penale. In primo luogo perchè lo stesso pensatore milanese appare ben lontano dalla rigida impostazione retributiva che gli si vuole attribuire - basti il riferimento al celebre passo della sua opera (Dei delitti e delle pene, cit., XII, p. 29) in cui sono addirittura rintracciabili, quando egli dice che uno dei fini delle pene è "di impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini", echi special-preventivi; in ogni caso, sul pensiero illuminista come pensiero utilitarista cfr. retro par. 2.3 - in secondo luogo perché se apparentemente tali approcci paiono ritornare alla classica concezione retributiva della pena - come giustamente sottolinea M. Pavarini - "il riferimento ad un concetto di meritevolezza non è operato nella prospettiva di porre dei limiti al potere discrezionale nella commisurazione della pena, quanto di agganciare questa al «public panic»" (Il «grottesco» della penologia contemporanea, cit.). Il che, peraltro, ha a che fare con una richiesta d'elevata penalità simbolica che nulla ha a che vedere con la cultura illuminista, la quale legava piuttosto il concetto retributivo al "quando" della pena - e quale valore di garanzia possa avere questo principio si è più volte sottolineato - e non al "quanto", che viceversa cela la deriva verso penalità smodate e vendicative, verso la legge del taglione.

(97) In Italia un esempio di un tale approccio è dato dal lavoro di Marzio Barbagli, L'occasione e l'uomo ladro, Bologna, 1995.

(98) D. Melossi, Teoria sociale e mutamenti nelle rappresentazioni della criminalità, cit., p. 180. Più in generale sul cosiddetto paradigma attuariale cfr.: M. Feeley, J. Simon, The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, in: Crminology, 30, 1992, p. 449 e ss. A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit., p. 31 e ss.; T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A. Verde, Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, cit., p. 749 e ss.; M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporanea, cit.; Id., Note sulle concezioni amministrative e tecnocratiche della penalità, in: Dei delitti e delle pene, 1994, 3, p. 157 e ss; Id., Della penologia fondamentalista, in: Iride, 32, 2001, p. 87 e ss.

(99) M. Feeley, J. Simon, The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, cit.

(100) Elaborata da P. Greenwood nel 1982, nel suo famoso lavoro intitolato appunto: Selective Incapacitation.

(101) M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporanea, cit. Id., Della penologia fondamentalista, cit.

(102) Secondo la definizione proposta da M. Feeley e J. Simon, cfr.: The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, cit.

(103) È il problema dei cosiddetti "falsi negativi" o "positivi", cfr. a riguardo: T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A. Verde, Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, cit.

(104) Ecco le sette caratteristiche innanzi alle quali si può avere la certezza di essere di fronte ad un delinquente incallito: l'aver trascorso in carcere più della metà dei due anni precedenti all'ultimo arresto. l'aver riportato una precedente condanna per lo stesso delitto per cui l'autore è stato arrestato. l'aver riportato una condanna prima del compimento del sedicesimo anno di età. l'essere stati inviati in una istituzione statale o federale per giovani devianti. l'aver fatto uso di eroina o barbiturici nei due anni precedenti l'arresto. l'aver fatto uso di eroina o barbiturici in età minorile. l'essere stati senza occupazione per più della metà dei due anni precedenti l'arresto.

(105) M. Feeley, J. Simon, The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, cit., p. 456.

(106) M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporanea, cit.; Id., Della penologia fondamentalista, cit.

(107) M. Feeley, J. Simon, The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, cit., p. 467.

(108) Cfr.: M. Feeley, J. Simon, The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, cit.; A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit., p. 36 e ss., dove si fa riferimento a due rapporti dell'Home Office inglese (il Floud Report del 1981 ed il Kemshall Report del 1996, nei quali si distingue esplicitamente fra il metodo clinico ed il metodo attuariale di accertamento della pericolosità).

(109) M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporanea, cit.; Id., Della penologia fondamentalista, cit.

(110) Come segnala Dario Melossi, la fama di tale approccio criminologico "attuariale" pare più dovuta all'opera dei suoi critici, che ad una sua effettiva diffusione. Lo stesso Greenwood, peraltro, ebbe modo di tornare sui suoi passi, asserendo che i parametri per effettua la progonsi di pericolosità lasciavano aperti comunque troppi spazi a false predizioni, cfr.: D. Melossi, cfr.: Stato, controllo sociale, devianza, cit., pp. 231, 232.

(111) Moore et. Al., Dangerous offenders: the elusive target of giustice, cit. in: M. Feeley, J. Simon, The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, cit., p. 458.

(112) Cfr.: M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporanea, cit.; Id., Della penologia fondamentalista, cit.

(113) Per una lista delle varie agenzie pubbliche e private coinvolte in tale processo di costruzione del consenso attorno alla nuova politica criminale cfr.: L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 13.

(114) R. Sparks, Penal "austerity": the doctrine of less eligibility reborn?, cit.; C. Hale, Economy, punishment and imprisonment, cit.

(115) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 14.

(116) Cfr.: L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 14.; per una sintesi dei postulati su cui si fonda la dottrina della "tolleranza zero" cfr. anche le ottime pagine di: A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit., p. 103 e ss.

(117) Questi ed altri contributi saranno poi raccolti in un volume che rappresenta ormai la bibbia nella nuova dottrina penale: "Zero tollerance. Policing a free society"; cfr.: L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 34.

(118) T. Blair, brano cit. in: L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 35.

(119) M. Pavarini, Della penologia fondamentalista, cit., p. 91.

(120) Alludiamo ai lavori di A. De Giorgi: Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit.; Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., ispirati all'idea di J. Deleuze sul superamento dei meccanismi disciplinari (cfr.: la società di controllo, cit.) ed ai lavori di M. Feeley e J. Simon sullo sviluppo di una «new penology» contrapposta ad una «old penology» (cfr.: The new penology: notes on the emerging strategy of corrections and its implications, cit.; Id., Actuarial justice: the emerging new criminal law, in: D. Nelken, The futures of criminology, London, 1994, p. 173 e ss.).

(121) È il caso questo del metodo "clinico" di osservazione della personalità.

(122) A riguardo si andrebbero diffondendo strategie "attuariali" di valutazione della pericolosità su cui ci siamo sinteticamente soffermati.

(123) Cfr.: A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 106.

(124) M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

(125) I dati sono riportati in M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

(126) Su questi argomenti torneremo a breve, quando li affronteremo avendo riguardo allo specifico italiano.

(127) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 70.

(128) Cfr.: D. Melossi, Discussione a mo' di prefazione: carcere, postfordismo e ciclo di produzione della "canaglia", in: A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 7 e ss.

(129) M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

(130) L. Wacquant (Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 58 e ss.) descrive lucidamente come nelle carceri statunitensi peggiorino le condizioni di vita dei detenuti, come vengano ridotti tutti i servizi e le attività di svago concesse; per non parlare delle vessazioni che subiscono i più "fortunati", coloro che riescono ad accedere ad una misura alternativa al carcere "soggetti a una sorveglianza ossessiva e a una disciplina minuziosa quanto inutile" (Ivi, p. 62).

(131) Z. Bauman, La società dell'incertezza, Bologna, 1999.

(132) Sullo sviluppo di tale settore della ricerca criminologica cfr.: F. Vianello, D. Padovan, Criminalità e paura: la costruzione sociale dell'insicurezza, in: Dei delitti e delle pene, 1-2, 1999; M. Pavarini, Bisogno di sicurezza e questione criminale, in: Rassegna italiana di criminologia, 5, 1994; R. Selmini, Sicurezza urbana e prevenzione della criminalità in Europa, alcune riflessioni comparate, in: Polis, 1, 1999; M. Bouchard, Le risposte possibili alla criminalità diffusa, in: Storia d'Italia, annale nº 12, La criminalità, cit.; S. Palidda, Considerazioni sui problemi della ricerca e delle esperienze riguardanti l'insicurezza e la sicurezza urbana, intervento alla riunione del 10.10.1994 del comitato scientifico "Progetto Città Sicure"; Id, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Milano, 2000, p. 161 e ss.

(133) Cfr.: S. Palidda, Considerazioni sui problemi della ricerca e delle esperienze riguardanti l'insicurezza e la sicurezza urbana, cit.; Id, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 161 e ss.

(134) Cfr.: F. Vianello, D. Padovan, Criminalità e paura: la costruzione sociale dell'insicurezza, cit.; S. Palidda, Considerazioni sui problemi della ricerca e delle esperienze riguardanti l'insicurezza e la sicurezza urbana, cit.; Id, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 161 e ss.; M. Pavarini, Bisogno di sicurezza e questione criminale, cit.

(135) F. Vianello, D. Padovan, Criminalità e paura: la costruzione sociale dell'insicurezza, cit., p. 274.

(136) M. Quirico, Capro espiatorio, politiche penali, egemonia, cit., p. 116.

(137) V. Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, Torino, 1999, p. 38 e ss.; anche se, all'interno del bazar, non è affatto facile discernere con assoluta precisione dove finisce l'informale e comincia l'illegale, i due momenti costituiscono piuttosto un continuum all'interno del quale, nelle metropoli contemporanee, oscillano sempre più esistenze individuali alla ricerca di nuove (e sempre precarie) strategie di sopravvivenza; "non è sorprendente che, in un simile bazar, e nelle città contemporanee in generale, chi volesse tracciare con precisione statistica un profilo del mercato del lavoro si troverebbe a disagio. Lavoro e tempo ridotto, lavoro interinale, lavoro autonomo, occupazioni semilegali, attività parallele e semi nascoste concorrono a rendere incerte le categorie di occupazione e disoccupazione. Il bazar incorpora ognuna di queste attività; è il luogo dove il lecito e l'illecito si incontrano, si sovrappongono e si integrano." (Ivi: p. 49).

(138) Sotto questo profilo vengono in questione tutto l'insieme di saperi essenzialmente pratici che orientano da sempre l'attività delle forze di polizia e delle agenzie di controllo sociale formale, la cui capacità d'azione è direttamente proporzionale alla loro capacità di accumulare informazioni sulla realtà in cui agiscono. Come segnalava lo stesso M. Foucault (cfr.: Sorvegliare e punire, cit., p. ...) a riguardo non viene in questione semplicemente la capacità di schedare il maggior numero di persone (che pure ha avuto ed ha la sua importanza) quanto la conoscenza del territorio, l'essere in grado di allacciare rapporti confidenziali con l'universo della delinquenza, in un ambiguo scambio di reciproci favori, di gestire adeguatamente le "regole del disordine". Ma anche gli agenti di controllo sociale informale accumulano e costruiscono dei saperi la cui rilevanza è tutt'altro che sottovalutabile, posto che negli ultimi anni pare essere stata profondamente rivalutata quella che avevamo segnalato come vocazione originaria dell'ufficio di polizia: il suo essere capace di "captare" le pulsioni provenienti dal "basso", dalla stessa società civile; come testimoniano le esperienze di "community policing" o le più estreme forme di "neighborhood watch" ampiamente avviate nelle aree di cultura anglosassone (cfr.: E. Klinemberg, L'ossessione della sicurezza, in: Le monde Diplomatique/ il Manifesto, 5, 2001). In tutti questi casi, infatti, sono gli stereotipi diffusi a muovere l'attività di controllo sociale e le agenzie del controllo formale tendono ad aumentare la loro ricettività, appiattendo il loro sapere sul crimine - l'immagine della criminalità cui fanno riferimento nell'orientare la loro azione - sulle indicazioni stereotipe che provengono dalla loro realtà locale di riferimento (cfr. anche: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 15 e ss.; Id, Come si studia il lavoro della polizia, in: A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale, cit., p. 218 e ss.).

(139) Che il problema della valutazione della pericolosità sociale del soggetto sia questione risalente in campo criminologico è noto. In Italia, peraltro, qualche studioso di formazione positivista si è posto più di recente l'annoso problema della "valutazione della personalità del condannato" e della "prognosi di pericolosità", questi, riferendosi all'opera dei coniugi Glueck che, già nel 1930, elaborarono una complessa tabella di fattori da cui poter inferire il livello di pericolosità del soggetto, è arrivato a sostenere che non potesse negarsi "né il rigore metodologico né l'utilità pratica delle tabelle di predizione, sia perché raccolgono e assommano le esperienze di una molteplicità di casi con la determinazione dei più frequenti fattori sintomatici del pericolo criminale (i c.d. segni sfavorevoli); sia perché offrono una «oggettivazione» del giudizio di previsione in base al calcolo delle probabilità, analogo a quello usato nel campo delle assicurazioni sulla vita; sia perché presentano una semplicità di applicazione anche da parte di persone tecnicamente non qualificate" (F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p.251; sull'opera dei coniugi Glueck e di quanti hanno tentato di costruire tavole di predizione statistica cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit., p. 253 e ss.). Evidenziando, così, come non fosse un'assoluta novità un metodo statistico di predizione della pericolosità, anche se ritenne non sostituibile il metodo clinico a favore di un metodo statistico, cui riservò, al limite, una funzione di controllo delle analisi cliniche.

(140) E non è detto che, a tal fine, necessitino concettualizzazioni di nuovo conio sul problema dell'effettuazione delle prognosi di pericolosità, né che esse, quand'anche esistenti, non incontrino resistenza presso gli attori del controllo, da sempre arroccati nella difesa delle prerogative che l'esistenza di spazi di discrezionalità attribuisce loro. La stessa ideologia dell'uguaglianza di fronte alla legge penale, peraltro, abilmente elusa - grazie alla lesione dei principi di legalità e giurisdizionalità stretta - dai meccanismi poliziesco-disciplinari, potrebbe essere d'ostacolo al diffondersi di meccanismi così patentemente discriminatori.

(141) Irwin, The Jail. Managing the underclass in American society, Berkley, 1985; il ruolo del carcere preventivo nel processo di ricarcerizzazione avvenuto in Inghilterra è stato più volte rilevato da Box ed Hale nei loro contributi. Per M. Feeley e J. Simon, tale tendenza della carcerazione preventiva a trasformarsi in mero strumento di difesa sociale è un altro esempio della diffusione di un paradigma attuariale, cfr.: Id., Actuarial justice: the emerging new criminal law, cit.

(142) Del resto come sottolineeremo meglio a breve avendo riguardo al caso specifico italiano, il nostro sistema penitenziario ha nel tempo accentuato la possibilità di usufruire di percorsi alternativi al carcere prescindendo da un "assaggio" di pena, quindi senza alcuna osservazione della personalità del reo.

(143) A questo proposito, la segnalata maggior ricettività delle forze di polizia rispetto alle pulsioni provenienti dalla società civile, concretizza una solo apparente democratizzazione dell'istituzione di polizia. Da un lato infatti, è vero che quanti negli anni '70 iniziarono a pensare al "community policing", lo fecero pensando ad una strategia atta a lenire l'impronta marcatamente punitiva e repressiva dei tradizionali moduli operativi della polizia; dall'altro è chiaro però quanto sia vago lo stesso concetto di "community policing", essendo costantemente reversibile nel senso, non di una democratizzazione dell'attività di polizia, bensì in un potenziamento della sua capacità repressiva. Gli esponenti della cultura conservatrice, infatti, fecero ben presto proprio il concetto di polizia comunitaria, sviluppandone gli aspetti in grado di amplificare la capacità di controllo sociale della agenzie poliziesche. Tali forme di partecipazione situazionale (cfr. per tale definizione: M. Pavarini, Bisogno di sicurezza e questione criminale, cit.) attraverso cui si articolano le strategie di prevenzione della criminalità e di risposta al crescente sentimento d'insicurezza, paiono per altri versi essere in grado di ricostruire i legami di solidarietà e di rinsaldare il tessuto sociale destrutturato dai fenomeni di deindustrializzazione. Tuttavia, anche in questo caso, bisogna sottolineare l'estrema ambiguità del concetto di polizia comunitaria: si pensi al caso della città di Chicago, che molto ha investito in tali programmi di "community policing", con la speranza di rinsaldare i legami comunitari, la solidarietà e, di conseguenza, una percezione più sicura della propria esistenza da parte dei cittadini, il risultato è stato il già segnalato completo disinvestimento dell'amministrazione comunale nel campo dei servizi e delle garanzie sociali, a favore del sempre più ipertrofico budget della polizia municipale. I programmi di tipo redistributivo cedono il passo al potenziamento dell'attività di polizia ed al suo coinvolgimento in azioni rispetto alle quali essa non possiede alcuna competenza e preparazione, né, tanto meno, un'attitudine diversa da quella circoscrivibile alla semplice difesa sociale; ma, ciò che è peggio, "la promozione della polizia ad agente di integrazione sociale segna un'evoluzione inquietante verso una società in cui la diffidenza, il sospetto e la paura diventano forze trainanti della politica e della cultura" (E. Klinemberg, L'ossessione della sicurezza, cit.). Tale apparente democratizzazione, dunque, non deve trarre in inganno, poiché essa è indirizzata da complessi processi egemonici che riescono a coalizzare i "cittadini inclusi" contro i "cittadini esclusi" dal patto, o gli individui ritenuti inassimilabili e non includibili; e si risolve, in sostanza, in una sempre più ermetica chiusura delle nostre società nei confronti della marginalità sociale, la quale chiede semplicemente inclusione o il riconoscimento del suo diritto a non sprofondare nella totale invisibilità sociale. La risposta escludente, la chiusura refrattaria delle nostre società rispetto alla possibilità di reintegrare quanti scivolano o permangono in una condizione di esclusione socio-economica, pare peraltro provenire dal "basso", dalla stessa società civile - e ciò pare a qualcuno il segno di una indiscutibile novità rispetto al passato (cfr.: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 15 e ss.; Id., Come si studia il lavoro della polizia, cit., p. 219 e ss.) - tuttavia è bene non dimenticare quanto le autorità politiche centrali abbiano investito in termini di risorse politiche sul tema della sicurezza, facendone uno dei temi centrali dell'attività di governo. Ciò segnala come le pulsioni irrazionali che provengono dalla stessa società civile possano essere fruttuosamente investite da campagne politiche che le sappiano alimentare ad arte - accelerando la spirale di produzione e riproduzione del sentimento d'insicurezza - canalizzandole in processi egemonici e di costruzione del consenso simili in tutto e per tutto a quelli che consentirono alle democrazie liberali ottocentesche di governare i conflitti sociali del tempo.

(144) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 87; in questo senso cfr. anche: M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporane, cit.

(145) Cfr.: R. Selmini, Sicurezza urbana e prevenzione della criminalità in Europa, alcune riflessioni comparate, cit.; in tale quadro si inseriscono ovviamente i già citati progetti di Neighborhood Crime Watch e di Community policing, grazie ai quali "lo spazio pubblico viene così privatizzato, sottoposto ad un microcontrollo da parte dei suoi abitanti cui viene raccomandato lo spionaggio dalle finestre, l'interrogatorio con qualunque pretesto allo stranero che si aggiri nella zona" (A. Petrillo, L'insicurezza urbana in America, in "aut/aut", nº 275, 1996, p. 89).

(146) Cfr.: A. Rossett, D.R. Cressey, Giustice by consent. Plea Bargain in the american courthouse, Philadelphia, 1976; D.W. Maynard, Inside the plea bargaining, New York, 1984; M. Feeley, Perspective in plea bargaining, in: Law and society review, 13, 1977; A.W. Alschuler, Plea bargaining in its history, in: Law and society review, 13, 1977.

(147) A. Baratta, Sistema penale ed emarginazione sociale, cit.; Id., Principi del diritto penale minimo, in: Dei delitti e delle pene, 3, 1985; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit.

(148) Cfr.: M. Pavarini, Bisogno di sicurezza e questione criminale, cit.

(149) A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 118.

(150) A. Petrillo, L'insicurezza urbana in America, cit., p. 90.

(151) R. Lopez, La città fortezza, in "Le Monde Diplomatique/Il Manifesto", 3, 1996.

(152) Cfr.: V. Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, Torino, 1999, p. 46 e ss. (153) Cfr. G. Amendola, La città post-moderna, (...), p. ...

(154) Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 166.

(155) A riguardo cfr. tutto il discorso condotto a proposito della riforma in senso punitivo dell'assistenza sociale (retro p. ...), basti comunque il riferimento alle pagine in cui B. Geremek descrive come siano state proprio le amministrazioni municipali a porsi per prime il problema di un'efficace governo della miseria. Anche E. J. Hobsbawm, peraltro (Cfr.: I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, cit.) segnala che la ragione della progressiva scomparsa dei riot dalle esperienze metropolitane dell'occidente moderno fu anche la spartizione della popolazione cittadina in quartieri rigidamente separati a seconda del censo degli abitanti, il che evitava di far entrare in contatto miserabili e galantuomini, depotenziando i possibili risentimenti dei primi nei confronti dei secondi.

(156) Cfr. G. Amendola, La città post-moderna, (...), p. ...

(157) Su questi aspetti della vita in un ambiente urbano cfr.: V. Ruggiero, Movimenti nella città, Milano, 2000; sull'antiurbanesimo in America cfr.: A. Petrillo, L'insicurezza urbana in America, cit., p. 71 e ss.; sulla visione "patologica" della vita negli ambienti urbani che caratterizzava i primi scienziati sociali americani cfr. anche: C. W. Mills, Il mito della patologia sociale, Roma, 2001.

(158) Cfr.: A. Petrillo, L'insicurezza urbana in America, cit., p. 82 e ss.

(159) Disciplinato dal Regolamento del 1.02.1891, nº 260. Cfr.: G. Neppi Modona, Carcere e società civile, in: Storia d'Italia, vol. V, Torino, 1973.

(160) Cfr.: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 138, 139.

(161) D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 138, 139.

(162) G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, in: Storia d'Italia, annali nº 12, La criminalità, cit., p. 764. Mitigazione del ricorso all'isolamento cellulare, introduzione di un minimio di relazioni sociali, aumento della possibilità di avere colloqui o intrattenere una corrispondenza con l'esterno, utilizzo degli strumenti di contenzione a "fini terapeutici", tutto ciò confluirà nel Regio Decreto nº 393 del 29.02.1922, che introdurrà un nuovo regolamento carcerario. Cfr.: G. Neppi Modona, Carcere e società civile, cit.

(163) Cfr.: La scuola positiva, 1921, p. 1 e ss.

(164) Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 933; Id, La cultura giuridica nell'Italia del novecento, cit.; M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit; C. F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano, in: Storia d'Italia, annali nº 12, La criminalità, cit., p. 18.

(165) L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 490. (166) Ivi, p. 488.

(167) Cfr.: M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 532.

(168) O Ur-Fascismo, secondo la nozione proposta da U. Eco nel suo Il fascismo eterno, in: Cinque scritti morali, Milano, 1997

(169) G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 769 e ss.; la legge creò diverse fattispecie di reato che confluiranno poi nel successivo codice penale, intese a limitare variamente la libertà d'associazione e d'opinione, a punire le mere intenzioni quando siano dirette alla sovversione o alla cospirazione politica, arretrando la soglia di punibilità fino a coprire non solo gli "atti idonei a", ma anche i semplici "atti diretti a". Venne inoltre reintrodotta la pena di morte e significativamente elevati i livelli sanzionatori per i reati politici; ma, soprattutto, venne creato il Tribunale speciale per la difesa dello stato, che operò sino al 1943, strettamente legato all'esecutivo e con una procedura interamente segreta, priva del diritto alla difesa per l'imputato, con obbligo di cattura e divieto di libertà provvisoria, nonché l'assoluta assenza di ogni strumento d'impugnazione. Si assisteva insomma all'«istituzionalizzazione dell'emergenza», rendendo permanente un organo modellato sulle esperienze dei tribunali marziali che operarono all'epoca del brigantaggio prima e degli stati d'assedio poi.

(170) Cfr.: D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 912.

(171) Cfr., per la normativa Crispina, supra, par. 3.1.

(172) Nello stesso capo erano inoltre disciplinate le conseguenze dello status di mendicante, distinto dallo status di "ozioso o vagabondo" (su cui infra) perché a differenza di quest'ultimi si trattava di persone considerate inabili al lavoro (secondo il regolamento di attuazione: i fanciulli al di sotto dei dodici anni e le persone affette da infermità cronica o difetti fisici o psichici, dovutamente accertati dall'ufficiale sanitario comunale). Il mendicante sarebbe stato proposto agli istituti di assistenza e beneficenza qualora privo di mezzi di sussistenza o di parenti tenuti agli alimenti. Tali norme sono ancora in vigore, con l'esclusione del riferimento ai malati mentali - eliminato nel 1978 - ed agli intossicati da sostanze stupefacenti - eliminato nel 1990; quanto alla legislazione sugli stupefacenti c'è da sottolineare che, sotto il regime, la disciplina datane, prima nel 1923 (L. nº 396) e successivamente nel codice del 1930, non si premurava ancora di punire il consumo tout court, come avverrà con la L. nº 1041 del 1954. In proposito infatti esisteva solo una contravvenzione - ricalcata sull'analoga per l'abuso di alcool - che puniva l'essersi fatti trovare in pubblico in stato di grave alterazione a causa dell'abuso di stupefacenti. Il fenomeno degli stupefacenti non presentava ancora una diffusione tale da rappresentare un pericolo da combattere con le pene draconiane che il regime seppe mettere in campo quando volle, lo stesso commercio era punito con un massimo di tre anni, mentre lo status di tossicodipendente era sottoposto ad un regime di completa "medicalizzazione" (Cfr.: A. Cottino, Consumi illeciti, in: Storia d'Italia, annali nº 12, La criminalità, cit., p. 267 e ss.; L. Pepino, Droga e legge. Tossicodipendenza, prevenzione e repressione, Milano, 1991, p. 26 e ss.).

(173) L'Autorità può vietare il reingresso della persona, senza preventiva autorizzazione, nel comune da cui viene allontanata; conseguenza della trasgressione è l'arresto da un mese a sei mesi e la "traduzione coatta" nel luogo del rimpatrio (la sentenza nº 2, 1956 della Corte Costituzionale ha poi dichiarato illegittima tale possibilità).

(174) Nel 1926 il T.U.P.S. recitava più genericamente: "persone designate dalla voce pubblica come pericolose all'ordine nazionale dello stato".

(175) Una commissione composta da: prefetto, procuratore del Re e questore, cui spetta anche la competenza di effettuare la denuncia.

(176) M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 532.

(177) Si tratta degli artt. 707 ("chiunque, essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, o per mendicità, o essendo ammonito o sottoposto ad una misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature, dei quali non giustifichi l'attuale destinazione, e punito con l'arresto da sei mesi a due anni". Nel 1971 il richiamo alle condizioni personali è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, Sentenza nº 14 del 2.02.1971) e 708 ("Chiunque, trovandosi nelle condizioni personali indicate nell'articolo precedente, è colto in possesso di denaro o di oggetti di valore, o di altre cose non confacenti al suo stato, e dei quali non giustifichi la provenienza, è punito con l'arresto da tre mesi ad un anno". La Corte Costituzionale ha, con la Sentenza nº 370, del 2.10.1996, dichiarato l'illegittimità di tale disposizione).

(178) Cfr.: S. Moccia, Struttura e limiti della tutela penale in materia di patrimonio, in: Storia d'Italia, annali nº 12, La criminalità, cit., p. 162 e ss.; A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia, Torino, 1971, p. 58.

(179) Simili asserzioni poteva permettersi A. Rocco nella sua relazione al progetto di riforma del codice penale, il brano è citato in: G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 838.

(180) G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 784

(181) Cfr.: G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 784 e ss.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 736.

(182) Sotto questo profilo bisogna pur riconoscere che il formalismo legalistico del "tecnicismo" contribuì in maniera decisiva alla tenuta del principio di legalità (sia pure "lata"), evitando che il sistema scivolasse verso le forme di diritto penale totalitario simili a quello tedesco, ispirate all'insegnamento della scuola di Kiel e centrate sulla punizione dell'atteggiamento interiore. Non mancò, tuttavia, la proposta di una simile riformulazione dell'art. 1 del codice penale: "È reato ogni fatto espressamente previsto come reato dalla legge penale e represso con una pena da esso stabilita. È altresì reato ogni fatto che offende l'autorità dello Stato ed è meritevole di pena secondo lo spirito della rivoluzione fascista e la volontà del Duce unico interprete della volontà del popolo italiano. Tale fatto, ove non sia previsto da una precisa norma penale, è punito in forza di una disposizione analoga". Proposta avanzata da G. Maggiore in uno scritto dall'eloquente intitolazione: Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, cfr.: G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 834.

(183) Si tratta, nel primo caso, della citata normativa contravvenzionale posta a tutela del patrimonio e, nel secondo, di tutta una sezione del Codice dedicata alla "vigilanza sui mestieri girovaghi e la prevenzione dell'accattonaggio", in cui trovavano la loro previsione il reato di "mendicità" (art. 670 c.p., non più in vigore dopo la sentenza della Corte Costituzionale nº 519, del 28.12.1995) e di "impiego di minori nell'accattonaggio" (art. 671 c.p.).

(184) Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 734 e ss.; G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 784 e ss.; F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p. 173 e ss.; F. Tagliarini, Pericolosità, cit.

(185) F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p. 175.

(186) "Si è ritenuto opportuno prendere da ciascuna scuola ciò che in essa vi è di buono e di vero, poco curandosi di creare un sistema legislativo logicamente dedotto fino alle estreme e più assurde conseguenze da un principio unilaterale" asseriva A. Rocco nella sua relazione al progetto (cfr.: C. F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano, cit., p. 25; F. Tagliarini, Pericolosità, cit., p. 16). Certo è che un simile sincretismo rischia di produrre aporie non facilmente solubili, come implicitamente ammette uno studioso che apertamente si richiama alla tradizione della scuola positiva, allorché sottolinea come alcune circostanze (quali un "ambiente familiare corrotto e la deleteria esperienza carceraria, una carenza di sviluppo fisio-psichico e una sindrome nevrotica" o, perché no, le cattive condizioni socio-economiche) possono essere al contempo "indici di minore colpevolezza morale, ma di maggiore pericolosità sociale". Viene da chiedersi infatti: come agirà lo sventurato giudice? Attenuerà la sanzione in relazione alle sfortunate circostanze in cui è sorto il delitto, o, viceversa, l'aggraverà in relazione alla maggiore pericolosità del reo?

(187) G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 788.

(188) Cfr.: P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in: Enciclopedia del diritto, xxvi; F. Tagliarini, Pericolosità, cit.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992, p. 855 e ss.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 811 e ss.

(189) L'inderogabilità del limite minimo di durata era evidentemente in stridente contrasto con la stessa filosofia positivista, che non poteva tollerare che fosse la legge a stabilire presuntivamente per quanto tempo si sarebbe dovuta protarre la "terapia". La Corte Costituzionale con la Sentenza nº 110/1974 ha infatti dichiarato illegittima l'irrevocabilità della misura prima dello spirare del limite minimo.

(190) È appena il caso di ricordare che il codice nell'originaria formulazione prevedeva numerose ipotesi di pericolosità presunta ex lege, decadute definitivamente - dopo che varie volte la Corte Costituzionale era intervenuta invalidando alcune specifiche ipotesi - con la L. nº 663/1986. In base alla novella legislativa nell'applicazione di una misura è necessario in ogni caso valutare in concreto la pericolosità del soggetto.

(191) La misura in questo caso è il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario.

(192) Internati in un riformatorio giudiziario. (193) Nel qual caso il soggetto viene assegnato ad una casa di cura e di custodia.

(194) Per i quali è prevista la misura del riformatorio giudiziario o della libertà vigilata.

(195) Per cui è prevista la misura dell'internamento in una casa di lavoro o colonia agricola.

(196) C. F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano, cit., p. 26; cfr. anche: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 811 e ss.

(197) Poiché esistevano anche altre misure "personali" non detentive, come: la libertà vigilata, il divieto di soggiorno, il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche; e misure "reali", come: la cauzione di buona condotta, e la confisca.

(198) Salvo che non vi fossero specifiche esigenze tecnico-sanitarie, come ci spiega A. Rocco, infatti, "non può escludersi che necessità di cura possano giustificare l'uso di mezzi di rigore anche più duri di quelli consentiti nell'esecuzione delle pene. Così è a dire per l'isolamento diurno e per la cintura di sicurezza (il letto di contenzione), che costituiscono un'eccezione nell'esecuzione delle pene e che, per converso, possono essere senza limiti applicati nei manicomi giudiziari per necessità tecnico-sanitarie (...) resta sempre che dal carattere di questi mezzi di rigore è esclusa l'afflittività come finalità giuridica"; cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 817.

(199) P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 656.

(200) F. Tagliarini, Pericolosità, cit., p. 22.

(201) L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 816.

(202) Si pensi all'obbligo di chiamare i detenuti con i loro numero di matricola, all'obbligo del taglio di barba e capelli, nonché di vestiario uniforme, il divieto di canti o giochi o ogni altra forma di intrattenimento, all'obbligo di parlare a bassa voce e, in certe circostanze, dell'assoluto silenzio, ai limiti ed i controlli alla corrispondenza, ai colloqui con i congiunti, alle letture, all'assoluto divieto di esporre reclami ed, ovviamente, al sistema delle punizioni fondato sull'uso degli strumenti di contenzione e sulla creazione, nella prassi, di un circuito carcerario più affittivo in cui trasferire i detenuti più indisciplinati, il cui terminale era il manicomio giudiziario. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 789, 790; S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, Roma, 2002, p. 23 e ss.; A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia, cit.

(203) G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 814.

(204) Cfr.: S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 23 e ss.

(205) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 26.

(206) Sono parole di F. Grispigni, cfr.: F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p. 197.

(207) "Al medioevale sistema delle prove legali, automaticamente valutate, si è dovuto sostituire l'intimo convincimento del giudice, che può essere empirico ed irrazionale, se affidato al solo cosiddetto senso comune degli incompetenti, ma che è l'unico e ragionevole criterio direttivo, quando sia affidato alle cognizioni tecniche, non solo di giusperiti, ma anche di esperti in fatto di fisiopsicologia e di psicopatologia criminale, come in fatto di medicina legale e di sociologia criminale". Queste parole proferiva E. Ferri nella relazione al suo progetto di codice penale, cfr.: F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p. 195.

(208) "il processo penale dunque deve essere un processo tecnico. Ed è soltanto quando esso sarà diventato un processo tecnico che noi vedremo sparire la teatralità, gli scandali, le lungaggini; perché il processo tecnico allora acquisterà l'obiettività serena e severa di una ricerca clinica" (F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p. 190).

(209) Cfr.: G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 779.

(210) Cfr.: G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit., p. 807 e ss.; F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1983; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 578.

(211) Recita infatti il codice: "è in stato di flagranza chi viene colto nell'atto di commettere il reato, chi immediatamente dopo sia inseguito dalla forza pubblica, dall'offeso o da altre persone; ovvero venga sorpreso con cose o tracce dalle quali consti che abbia commesso poco prima il reato".

(212) Con la consueta truculenza verbale A. Rocco, nella sua relazione al progetto, ci spiega il fondamento della discriminazione: "gli individui hanno un diverso valore morale e sociale, e taluni non ne hanno alcuno; sarebbe pertanto incoerente, immorale e antigiuridico trattare tutti alla stessa stregua, specialmente quando sono da applicarsi restrizioni precauzionali, manifestamente inutili e quindi inique rispetto a coloro che per le loro qualità personali danno serio affidamento di soggezione all'Autorità giudiziaria. Nella delicatissima materia della libertà personale dell'imputato, il nuovo codice si è perciò ispirato alla più inflessibile severità per gli immeritevoli di ogni riguardo e ad un'illuminata umanità per coloro verso i quali, per particolari condizioni personali o per le circostanze del fatto, l'equità consiglia un trattamento più mite". Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 651.

(213) "Falsa sollecitudine, ipocrisia disciplinare, nessun conto degli interessi dell'imputato", F. Cordero, Procedura penale, cit.,1983, p. 120; cfr. anche: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 652.

(214) A riguardo probabilmente non è esente da responsabilità la stessa dottrina penalistica italiana, che molto tempo ci mise a liberarsi dalle incrostazioni del tecnicismo giuridico, avviando un serio dibattito sulla compatibilità del nostro sistema con i valori espressi dalla costituzione repubblicana, recuperando la tradizione di quella che viene chiamata "penalistica civile" (cfr.: L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell'Italia del novecento, cit.; M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit.; G. Neppi Modona, M. Pelissero, La politica criminale durante il fascismo, cit.; F. Palazzo, la politica criminale dell'Italia repubblicana, in: Storia d'Italia, annali nº 12, La criminalità, cit.).

(215) Per una panoramica generale cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p 722 e ss.

(216) Cfr.: F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p. 185 e ss.

(217) La Corte in particolare sostenne che, quale presupposto di una misura limitativa della libertà personale,"il sospetto, anche se fondato, non basta perché, movendo da elementi di giudizio vaghi ed incerti, lascerebbe aperto l'adito ad arbitri" (Corte costituzionale nº 2, 1956, in: Giurisprudenza costituzionale, 1956, p. 564 e ss.). Cfr. in proposito: D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 917; M. Pavarini, le fattispecie soggettive di pericolosità, cit., p. 297; F. Bricola, Forme di tutela «ante-delictum», in: Le misure di prevenzione, atti del convegno di Alghero, cit., p. 42.

(218) Le disposizioni sono identiche a quelle previste nel sistema fascista (cfr. supra) ed in generale posseggono una straordinaria efficacia nell'innescare una spirale di emarginazione cui è impossibile sottrarsi, dati i vessatori obblighi che si possono imporre, cfr.: M. Pavarini, le fattispecie soggettive di pericolosità, cit. In generale poi, come è stato giustamente sottolineato, la previsione di una simile possibilità concretizzava una lesione del principio costituzionale nulla poena sine lege previsto dall'art. 25 cost., poiché consentiva al giudice di imporre a suo piacimento "tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale", concretizzando una vera e propria potestà sanzionatoria "in bianco", cfr.: F. Bricola, Forme di tutela «ante-delictum», cit., p. 44.

(219) La pronunzia del tribunale doveva essere motivata ed emanata entro trenta giorni dalla proposta del questore, il procedimento era quello in camera di consiglio con l'intervento dell'interessato al quale era data facoltà di presentare memorie e farsi assistere da un difensore.

(220) Per considerazioni analoghe cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 822 e ss.; F. Bricola, Forme di tutela «ante-delictum», cit.; M. Pavarini, le fattispecie soggettive di pericolosità, cit. In dottrina, tuttavia, si è autorevolmente sostenuto che nel caso delle fattispecie preventive non sussiste lesione del principio di legalità per difetto di "tassatività", poiché esse farebbero riferimento ad un diverso canone di legalità: una legalità preventiva. La quale, riferendosi ad episodi futuribili, non può che far riferimento ai "sintomi" di un pericolo. Sintomi che altro non sono se non gli indici di pericolosità di un soggetto, cioè dei tipi di comportamento e dei caratteri peculiari del soggetto che difficilmente possono sostanziarsi in condotte precisamente individuabili dal legislatore. A parere di quest'autore peraltro la necessarietà e costituzionalità della prevenzione ante delictum si evince dall'art. 2 cost., che impone alla Repubblica la tutela dei diritti inviolabili degli individui, cioè dall'esigenza della "difesa sociale" dal delitto; cfr.: P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 632 e ss. Viene da chiedersi in proposito se, come già sottolineava il barone Montesquieu, gli stessi diritti inviolabili dell'individuo non siano maggiormente messi in pericolo da una legislazione che dia così ampi spazi allo zelo poliziesco.

(221) Cfr.: supra parte I, par. 2.3.2.

(222) Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 822 e ss.

(223) M. Pavarini, le fattispecie soggettive di pericolosità, cit.

(224) M. Nobili, Le informazioni della pubblica sicurezza e la prova nel processo di prevenzione, in: Le misure di prevenzione, atti del convegno di Alghero, cit., p. 237 e ss.

(225) Corte costituzionale nº 23, 1964, in: Giurisprudenza costituzionale, 1964, p. 193 e ss.

(226) Già nel 1965 (con la L. nº 575) il legislatore si apprestava ad allargare ulteriormente le fattispecie soggettive previste, introducendo la dizione: "indiziati di appartenere ad associazioni mafiose", accompagnata peraltro da notevoli aggravi procedurali: come l'esclusione, in questi casi, della previa diffida o la possibilità di sottoporre l'indiziato, nelle more del procedimento preventivo, all'obbligo di soggiorno o alla custodia in un carcere giudiziario; cfr.: P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 644; D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 918.

(227) M. Pavarini, le fattispecie soggettive di pericolosità, cit., p. 315.

(228) Cfr. retro, p. ...; l'azione della Corte, peraltro, era abbondantemente sollecitata da una giurisprudenza di merito in questa fase parecchio sensibile alle guarentigie individuali, la quale già da tempo aveva avviato una prassi abbondantemente indulgenziale, applicando costantemente i minimi di pena previsti dal codice fascista.

(229) Cfr.: F. Palazzo, la politica criminale dell'Italia repubblicana, in: Storia d'Italia, annale n. 12, La criminalità, cit.; M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit.

(230) La durata della cattura era così stabilita in un massimo oscillante tra i tre o i sei mesi (a seconda della gravità del reato) nei casi di cattura facoltativa; in una massimo di uno o due anni nei casi di cattura obbligatoria (L. nº 517/1955).

(231) Nel complesso si poteva restare in carcerazione preventiva un tempo oscillante tra i sei mesi ed un anno, nei casi di cattura facoltativa, a seconda che la sanzione prevista per il reato fosse superiore o meno ai quattro anni di reclusione, tra i due ed i quattro anni, nei casi di cattura obbligatoria, a seconda che la sanzione fosse, o meno, superiore ai venti anni (L. nº 192/1970).

(232) F. Cordero, Procedura penale, cit., 1983, p. 618.

(233) M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 539.

(234) Cfr.: F. Barbagallo, La formazione dell'Italia democratica, in: Storia dell'Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino, 1994

(235) Cfr.: G. Carocci, Storia d'Italia dall'unità ad oggi, cit.; N. Kogan, L'Italia del dopoguerra, storia politica dal 1945 al 1966, Roma/Bari, 1968.

(236) P. Calamandrei, cit. in: F. Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia, 1919-1948, Milano, 1970; a riguardo cfr. anche: F. Barbagallo, la formazione dell'Italia democratica, cit

(237) Per una disamina di questi principi e delle implicazioni sul ruolo dello stato che determinano cfr.: C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico. Tomo II, Padova, 1975, p. 1016 e ss.

(238) Cfr.: M.L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea dalla restaurazione all'eurocomunismo, cit.

(239) Anche all'interno del nostro welfare è possibile distinguere fra la social insurance (la previdenza) ed il welfare (l'assistenza) in senso stretto, cui si aggiungono ovviamente l'istruzione e la sanità pubblica. Quanto a questi ultimi due importantissimi comparti, c'è da dire che l'opera avviata all'indomani dell'unità con l'istituzione della scuola elementare dell'obbligo pubblica, fu completata solo nel 1962 estendendo l'obbligo fino ai 14 anni e creando la scuola media pubblica; per quanto riguarda la sanità pubblica invece bisognerà aspettare il 1978 per vedere istituito il servizio sanitario nazionale e cancellati i vecchi ospedali, che giuridicamente erano delle IPAB (Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza) e godevano di ampia autonomia finanziaria ed amministrativa nonostante i controlli statali cui erano sottoposte. Peraltro, sino al 1978, la funzione statale in ambito sanitario si ridusse al mero esercizio di un potere tipicamente biopolitico, dato che le uniche cure mediche assicurate (ed imposte) erano le prestazioni elargite dagli uffici istituiti presso le amministrazioni comunali per la tutela dell'igiene pubblica, o, ancora, l'internamento e i trattamenti sanitari obbligatori previsti per particolari categorie di persone come le prostitute e i malati mentali (cfr.: supra), la cui vita si svolgeva coercitivamente tra case chiuse, "sifilicomi" ed ospedali psichiatrici; cfr. a riguardo: M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, Milano, 1995; F. Basaglia (a cura di), L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Torino, 1968.

(240) Cfr.: supra.

(241) C'è ovviamente da distinguere fra i licenziamenti individuali ed i licenziamenti collettivi: rispetto ai primi, infatti, più lenta è stata l'elaborazione di regole derogatorie rispetto alla disciplina del codice civile, il quale assicurava la libera recedibilità dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato ad entrambi i contraenti.

(242) Tant'è che alcuni analisti parlano di un "modello italiano" di mercato del lavoro, per intendere un mercato connotato da una strutturale disoccupazione, cfr.: E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, in: Storia dell'Italia repubblicana, vol. 2, la trasformazione dell'Italia sviluppo e squilibri, Torino, 1995.

(243) L. Repaci nel suo diario in pubblico Calabria grande e amara (Soveria Mannelli, 2002) ci offre delle splendide pagine sulle vicende del mezzogiorno italiano nel dopoguerra ed in particolare sull'impatto dei tentativi di riforma che nei primi anni di storia repubblicana si avviarono. Molto significative sono le pagine dedicate ad una città come Crotone - cui egli si riferisce parlando di "marchesato di Crotone" - in cui convivevano le prime prospettive di sviluppo industriale e rapporti sociali ancora di stampo pre-capitalistico. Si pensi che al tempo nella zona migliaia e migliaia di ettari di terra erano riferibili ancora ad un numero di proprietari che si contavano, bene o male, sulle dita di una sola mano.

(244) M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in: Storia dell'Italia repubblicana, vol. III*, L'Italia nella crisi mondiale. L'ultimo ventennio, cit.

(245) M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

(246) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 41.

(247) Cfr.: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit., p. 991. Nel 1966 si tocca il minimo storico di ingressi in carcere in tutta la storia dell'Italia unita: 47.656; mentre nel 1970 si tocca il pavimento storico di presenze giornaliere: 21.931.

(248) E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit. (249) K. Marx, Il Capitale, cit., cfr. in particolare il cap. xxiii, p. 753 e ss.

(250) E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.

(251) Ibidem.

(252) cfr.: Quaderni dal carcere. Note su Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno. In particolare il quaderno intitolato Americanismo e fordismo, cit. p. 403 e ss.

(253) A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 80.

(254) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit.; A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia, cit.

(255) Cfr.: M. Foucault, Microfisica del potere, cit.; M. Pavarini, I nuovi confini della penalità.introduzione alla sociologia della pena, cit.

(256) Si pensi ai braccianti di Melissa - per citare un episodio - che, per primi nel dopoguerra (era il 1949 e la vicenda fece da preludio ad altre occupazioni un po' in tutto il mezzogiorno e non solo), osarono sfidare l'arroganza baronale occupando il fondo Fragalà, prendendo a coltivarlo abusivamente; sarebbe stato il piombo della Celere a fargli pagare l'incauto gesto, freddandoli con gli attrezzi da lavoro ancora in mano. Su questa vicenda si vedano le splendide pagine di L. Repaci (Calabria grande e amara, cit.) in cui è contenuta anche una toccante ricostruzione in forma narrativa della vicenda.

(257) M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit., p. 1013; cfr. anche: A. Ricci, G. Salierno, Il carcere in Italia, cit.; S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit.

(258) M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.; Id., Bisogno di sicurezza e questione criminale, cit.

(259) Cfr.: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.; cfr. anche: F. Palazzo, la politica criminale dell'Italia repubblicana, cit.; V. Maiello, La politica delle amnistie, in: Storia d'Italia, annale nº 12, La criminalità, cit.; sul ruolo della cultura cattolica nel favorire una politica indulgenziale cfr.: D. Melossi, The cultural embeddedness of social control: reflections on the comparison of italian and north-american cultures concerning punishment, in: Theoretical Criminology, 2001, 5, p. 403 e ss.

(260) M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.

(261) A significare come la repressione delle proteste bracciantili al sud non fosse più semplicemente interpretata come la risposta dovuta all'azione di gente barbara ed inferiore, così scriveva L. Repaci nel 1949 "la situazione è mutata se bastano tre morti a Melissa a scatenare il putiferio di stampa di questi giorni, a spingere De Gasperi e gli americani dell'ECA in Sila, ad accendere un appassionante dibattito sulle responsabilità alla Camera e in Senato. E intanto, come il vento il fuoco, l'occupazione delle terre si propaga in altre regioni non meno desolate del marchesato di Crotone" (Calabria grande e amara, cit., p. 129).

(262) F. Palazzo, la politica criminale dell'Italia repubblicana, cit., p. 880.

(263) Ivi, p. 881.

(264) L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 749.

(265) È il caso del movimento detto dei "Dannati della terra" che ricevette all'inizio una forte legittimazione da Lotta Continua e che, successivamente, nel corso dei primi anni '70, a seguito della recrudescenza della risposta istituzionale, subirà la "svolta nappista". Per una sintesi più accurata di queste vicende cfr.: S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 37 e ss.

(266) F. Palazzo, la politica criminale dell'Italia repubblicana, cit., p. 882.

(267) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 52. (268) Ivi, p. 53.

(269) Ivi, p. 54.

(270) Cfr: S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, Napoli, 1997; sull'emergenza penale e la sua normalizzazione cfr. anche: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 844 e ss.; Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, Roma, 1999.

(271) A. Baratta, Prefazione a S. Moccia, La perenne emergenza, cit., p. xiv.

(272) Sulle implicazioni rispetto ad un corretto canone di semantica legislativa e, conseguentemente, ad una adeguata epistemologia dell'induzione giudiziaria, che simili fattispecie presentano ci siamo già soffermati, inutile dire che i casi pratici registrabili nella nostra storia processuale non fanno che confermare le perplessità sollevate sul piano teocico. Proprio la storia delle inchieste giudiziarie contro i presunti terroristi è un perfetto esempio di come, grazie a simili ordigni, si possano inscenare intere inchieste senza contestare alcuno specifico fatto agli imputati, basandosi su ipotesi, per così dire, "antropologiche". Su queste tristi vicende della storia processuale italiana si può consultare l'efficace sintesi contenuta in: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.

(273) Cfr. sul punto: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 853 e ss.; Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.

(274) Cfr. F. Cordero, Procedura penale, cit., 1983.

(275) "L'aggettivo sufficienti sostituito a gravi (risalente al testo del 1930), a proposito degli indizi, segnala un umore politico risentito, invitando ad un uso meno autocriticamente cauto dello strumento: sebbene la lingua legislativa da noi sia spesso sciatta, questa variante sembra nata da un calcolo semantico; gravi inoculava un impulso inibitorio nell'agente; sufficiente, parola a connotazione debole, dissolve quel controstimolo" (F. Cordero, Procedura penale, cit., 1983, p. 100).

(276) Cioè tutti i delitti contro la personalità internazionale ed interna dello stato, nonché i delitti di formazione e partecipazione a banda armata, associazione per delinquere, strage, incendio, inondazione, frana, valanga, naufragio, sommersione o disastro aviatorio, attentato alla sicurezza dei trasporti, epidemia, avvelenamento di acque o sostanze alimentari, omicidio volontario, rapina aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione aggravata, riorganizzazione del partito fascista ed esportazione di valuta. Quanto ai presupposti della misura, secondo il lapidario giudizio di Franco Cordero (Procedura penale, cit., 1983, p. 103): "non occorre che il fermato stesse facendo qualcosa; basta l'atteggiamento, dai passi troppo lenti o troppo frettolosi a quella mala physiognomia che, sommata ad altri indizi più o meno prossimi, esponeva lo sciagurato ai tormenti".

(277) Cfr. retro; l'esclusione di queste due figure soggettive evidenzia, peraltro, come ancora non siano la semplice povertà o gli stili di vita marginali a fungere da bersaglio per la reazione autoritaria, bensì le forme di conflittualità sociale che si suppone si siano, o stiano per organizzarsi in forme armate. In generale, per rilievi sulle innovazioni apportate in quest'epoca al sistema di prevenzione cfr.: P. Nuvolone, Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., p. 645 e ss.; D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 921 e ss.

(278) Si tratta di tutti i "delitti contro la personalità interna dello Stato" nonché del delitto di banda armata, di epidemia, di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, di sequestro di persona e di sequestro a scopo di estorsione.

(279) Si tratta del disciolto partito fascista.

(280)"La situazione è di emergenza e come tale non può essere affrontata che con provvedimenti di emergenza (...) La rinunzia che quindi siamo costretti a fare ad una fetta della nostra indipendenza, la sottoposizione di ognuno ad un aggravio di controlli, il ridare vita ad istituti caratteristici del regime di polizia è il duro prezzo che bisogna pagare per ripristinare l'ordine, per liberarsi dalla paura dei fuori legge, dai vandalismi degli esaltati, dal terrorismo dei fanatici..." (G. Bovio, Corriere della sera, 04.05.1975, cit. in: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.).

(281) Cfr.: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit., p. 991; S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 39.

(282) M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit.

(283) Si spazia dall'omicidio doloso, consumato o tentato, ai reati contro la personalità interna dello stato, nonché di banda armata, strage, disastro ferroviario, fino agli attentati alla sicurezza dei trasporti, epidemia, avvelenamento di acque o sostanze alimentari.

(284) Non si dimentichi che la legge consentiva vere e proprie proroghe surrettizie del provvedimento di cattura semplicemente con la contestazione di accuse per fatti ulteriori o per gli stessi fatti, magari sotto un diverso nomen criminis, "intuibili i rischi: diluendo le mosse nel tempo, un inquirente poco scrupoloso tiene l'imputato in carcere finché voglia; quando il termine relativo all'imputazione x sia quasi consumato, gliene sovrappone un secondo contestando y, poi inscena z e così via; stiamo supponendo che questa catena sia fondata nel materiale acquisito e il trucco stia nel giocare le carte una ad una, ma vanno calcolate anche ipotesi più scandalose" (F. Cordero, Procedura penale, cit., 1983, p. 130). Esempi di quanto fossero invalse simili prassi sono riportati in: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.

(285) F. Cordero, Procedura penale, cit., 1983, p. 134.

(286) Cfr. supra

(287) Cfr.: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 854. La stessa istanza special preventiva si scontra poi con l'inadeguatezza delle strutture che, all'esterno del carcere, si sarebbero dovute far carico del "reinserimento" dei detenuti, causando la lenta, ma inesorabile, torsione di un sistema correzionale in un meccanismo persuasorio funzionale al mero governo della realtà carceraria. Più che attuare percorsi rieducativi o trattamenti individualizzati, la riforma consentiva di barattare una buona condotta carceraria con qualche permesso o, per i particolarmente disciplinati, con la possibilità di scontare all'esterno il residuo di pena (cfr.: S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 55). La tendenza a marginalizzare la cosiddetta "osservazione scientifica" si sarebbe accentuata nel corso degli anni successivi, fino al punto di snaturare completamente il senso originario della riforma. Nel 1986, infatti, la necessità dell'osservazione della personalità sarebbe scomparsa a favore di meccanismi che consentiranno, al di sotto di una certa soglia di pena, di accedere automaticamente alle alternative, senza alcun assaggio di carcere - possibilità ulteriormente accentuata nel 1998. Nel volgere di un decennio, insomma, la riforma penitenziaria da radicale innovazione per il nostro ordinamento sarebbe divenuta la continuazione con altri mezzi della tradizionale politica di amnistie e condoni che l'Italia repubblicana ha sempre praticato (cfr.: F. Palazzo, la politica criminale dell'Italia repubblicana, cit.; M. Pavarini, La negozialità della pena tra parsimonia e dissipazione repressive. Il diritto penale nei fatti oggi,, cit.; Id., Lo scambio penitenziario. Manifesto e latente nella flessibilità della pena in fase esecutiva, cit.) e l'idea stessa dell'osservazione scientifica della personalità del condannato sarebbe stata svuotata del suo significato e svilita nel suo ruolo di "perno" del sistema.

(288) Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.; cfr. anche: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 751; S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 61; M. Pavarini, Lo scambio penitenziario. Manifesto e latente nella flessibilità della pena in fase esecutiva, cit., p. 235 e ss.

(289) V. Maiello, Fuga dalla sanzione e postmodernità penalistica, in: S. Moccia (a cura di), la giustizia contrattata. Dalla bottega al mercato globale, Napoli, 1998, p. 115 e ss.

(290) Cfr. S. Moccia, La perenne emergenza, cit., p. 185; Id, Il dover essere della premialità, in: S. Moccia (a cura di), la giustizia contrattata. Dalla bottega al mercato globale, cit., p. 203 e ss.

(291) M. Pavarini, Lotta alla criminalità organizzata e "negoziazione" della pena, in: Critica del diritto, 2, 2000, p. 129 e ss.

(292) Istituto, come si è da più parti sottolineato, dallo spiccato carattere inquisitorio, cfr.: I. Mereu, Corsi e ricorsi del pentimento nel delitto politico, in: S. Moccia (a cura di), la giustizia contrattata. Dalla bottega al mercato globale, cit., p. 39; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 624; Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit. In proposito già scrisse F. M. Pagano (Logica de' probabili per servire di teoria alle prove nei Giudizj criminali, XIV, Roma, 2000, p. 181):"niuna fede merita quel reo, che dall'impunità allettato, altri per suoi compagni additi. Perciocché l'impunità comprandosi a prezzo della denunzia de' delitti, e de' complici, sovente il reo cerca la sua salvezza fingendo delitti, ed immaginando complici; non altrimenti che quegli che dee procacciarsi il vivere, spende la falsa, se non ha la vera moneta".

(293) Su cui infra.

(294) E favorita probabilmente dal fatto che in capo ad una sola persona si concentrassero da un lato la direzione delle forze preposte alla sorveglianza delle carceri speciali e dall'altro un mandato speciale per la lotta al terrorismo, cosicché il generale Dalla Chiesa si trovò ad esercitare al contempo le funzioni di inquisitore e carceriere, secondo il modello già sperimentato dal Sant'Uffizio; cfr.: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.

(295)"L'eretico o il sospetto eretico, sia affidato al braccio secolare, per essere punito con le pene che merita (il rogo) «a meno che immediatamente dopo aver appreso del suo errore, non ritorni spontaneamente all'unità della fede cattolica, non accetti di abiurare pubblicamente il proprio errore, e non offra un adeguata soddisfazione»"(I. Mereu, Corsi e ricorsi del pentimento nel delitto politico, cit., p. 43).

(296) Cfr.: S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 90.

(297) Cfr.: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit. Sulla gestione di quest'universo delinquenziale pesano come macigni gli ampi poteri polizieschi che abbiamo descritto quali agili strumenti di relazione delle forze dell'ordine con il "sottobosco criminale". Per mezzo di questi strumenti di sorveglianza la forza pubblica crea e governa, secondo la lezione foucaultiana, l'universo della delinquenza: "mantenuta dalla pressione dei controlli al limite della società, ridotta a condizioni di esistenza precarie, senza legami con una popolazione che avrebbe potuto sostenerla (come accadeva un tempo per i contrabbandieri e per alcune forme di banditismo), la delinquenza ripiega fatalmente su una criminalità localizzata, senza potere di attrazione, politicamente priva di pericolo e senza conseguenza. Ora questo il legalismo concentrato, controllato, disarmato è direttamente utile" (M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 306.).

(298) Cfr.: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.

(299) Sulla sua genesi nel nostro sistema cfr.: M. D'Andria, Rapporti tra nuovo e vecchio patteggiamento, in: S. Moccia (a cura di), la giustizia contrattata. Dalla bottega al mercato globale, cit., p. 83; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 756 e ss.; per un giudizio su simili istituti: ivi, p. 580. Per una breve storia del suo sviluppo nel sistema penale degli Stati Uniti cfr.: A.W. Alschuler, Plea bargaining in its history, in: Law and society review, 13, 1977; J.H. Langbein, Understating the short history of plea bargaining, in: Law and society review, 13, 1977.

(300) Le nostre statistiche penitenziarie non mancano di registrare l'abbassamento di tono nella risposta repressiva dello stato: in sei anni (1984-1990), anche per l'effetto delle significative riforme che vedremo, il tasso d'ingressi in carcere si dimezza, passando dalla quota record di 112.834 a 57.736. Un parallelo dimezzamento si registra inoltre nella quota di presenti, che passano da 42.795 unità a 26.150; cfr.: Cfr.: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit., p. 991; S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 217.

(301) La L. nº 398 del 1984 riduce i termini di durata massima per le singole fasi processuali, nonché i termini di durata complessiva, portandoli dai precedenti dieci anni e otto mesi a sei anni.

(302) A fronte dell'abrogazione dell'art. 90 però, la riforma introduce, da un lato gli artt. 14.bis, ter, quater, relativi al regime di sorveglianza particolare, per detenuti particolarmente pericolosi per la tranquilla vita penitenziaria; e dall'altro l'art. 41-bis, relativo alle sospensioni a carattere collettivo del normale regime penitenziario "in casi eccezionali di rivolta o altre situazioni eccezionali di emergenza collettiva"; cfr.: M. Pavarini, Lo scambio penitenziario. Manifesto e latente nella flessibilità della pena in fase esecutiva, cit., p. 239 e ss.; S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 83; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 752 e ss.

(303) Cfr.: D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit.; le tipologie soggettive vengono così riscritte: 1) coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi. 2) coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di attività delittuose. 3) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. È chiaro che simili formulazioni non si mettono al riparo dalle considerazioni già svolte a proposito della disciplina del '56: quali elementi di fatto potranno bastare per l'applicazione di una misura? Indubbiamente nulla che abbia una qualche rilevanza penale, come la pubblica voce o un generico giudizio negativo della comunità locale.

(304) Rimandiamo a questo proposito a L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 761 e ss.

(305) Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 768; F. Bricola, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in: L'indice penale, 1989.

(306) Per la fase delle indagini preliminari, essendo stata eliminata la vecchia figura del Giudice Istruttore, il giudice competente è il G.I.P. (giudice per le indagini preliminari), al quale competono anche gli accertamenti probatori non rinviabili al momento del dibattimento.

(307) Distinte in personali (coercitive o interdittive) e reali.

(308) Divieto di espatrio; obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria; divieto od obbligo di dimora; arresti domiciliari; custodia cautelare in carcere o in un luogo di cura.

(309) Sospensione dall'esercizio della patria potestà dei genitori; sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio; divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali.

(310) Si rammenti infatti che, a norma dell'art. 187 c.p.p. costituiscono "oggetto di prova" oltre ai fatti che si riferiscono all'imputazione ed alla punibilità anche tutto ciò che si riferisce"alla determinazione della pena o della misura di sicurezza" e che in proposito è consentita l'acquisizione di"certificati del casellario giudiziale, della documentazione esistente presso gli uffici del servizio sociale degli enti pubblici e presso gli uffici di sorveglianza nonché delle sentenze irrevocabili di qualunque giudice italiano e delle sentenze straniere riconosciute"(art. 236.1 c.p.p.). Per qualche utile rilievo sul punto cfr.: F. Bricola, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, cit.

(311) Cfr. supra, par. 1.2.3.

(312) Già nel 1988 però - e dunque aldilà dei molteplici rimaneggiamenti che tali disposizioni subiranno negli anni '90 - il termine poteva essere sospeso, l'art. 304 c.p.p. consentiva infatti di sfondare il tetto massimo (fino ai due terzi della pena edittale o ritenuta in sentenza) in tutte queste ipotesi: Qualora il dibattimento fosse sospeso per esigenze dell'imputato o del suo difensore, esclusi i casi di acquisizione di prove o di termini a difesa. qualora in dibattimento si fosse assentato il difensore. nella fase del giudizio nei termini per la redazione ed il deposito della sentenza. nei processi per alcuni gravi reati indicati ex art. 407.1 lett. a, qualora il dibattimento si presentasse particolarmente complesso. In questi casi la sospensione dev'essere disposta su richiesta del pubblico ministero.

(313) Nel 1999, poi, la L. nº 479, avrebbe opportunamente, quanto tardivamente, elevato la cifra sino ad un massimo di un miliardo di lire.

(314) Nella nuova disciplina lo stato di flagranza è tracciato dal disposto dell'art. 382 c.p.p. e si considera tale la situazione di colui che è colto nell'atto di commettere il reato; subito dopo il reato è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone; ovvero scovato con cose o tracce dalle quali appaia abbia commesso il reato poco prima. L'arresto si distingue inoltre, secondo un risalente schema, in obbligatorio e facoltativo: nel primo caso (art. 380 c.p.p.) deve trattarsi di delitti puniti con una pena superiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a venti anni, nonché l'ergastolo, ovvero tutta una serie di specifici reati indicati dall'art. 380.2 c.p.p. nel secondo caso (art. 381 c.p.p.) è effettuabile quando - se la misura risulta "giustificata dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del reato" - si tratti di delitto non colposo punito con pena superiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero, se colposo, con pena superiore nel massimo a cinque anni di reclusione; nonché in tutta una serie di specifiche ipotesi delittuose elencate dall'art. 381.2 c.p.p. Com'è evidente, il riferimento alla pericolosità sostituisce il vecchio parametro delle "qualità morali della persona" con una previsione più asettica, nel richiamare alla mente nozioni scientifiche, ma parimenti discriminatoria.

(315) Il fermo di indiziato (art. 384 c.p.p.), fuori dai casi di flagranza di reato, è misura di spettanza esclusiva del pubblico ministero, salvo alcuni specifici casi in cui può essere autonomamente disposto dalla polizia giudiziaria: quando il pubblico ministero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, o l'autorità di pubblica sicurezza sopravvenga all'identificazione del sospetto ovvero in relazione a specifici eventi si ritiene fondato il pericolo di fuga e nella situazione d'urgenza non sia possibile attendere il provvedimento del pubblico ministero. In questi casi la polizia giudiziaria può operare il fermo se: sussistano gravi indizi di colpevolezza sono iniziate le indagini preliminari in relazione puniti con l'ergastolo, o con la reclusione non inferiore nel minimo a due anni e nel massimo a sei anni, nonché concernenti armi da guerra che esista un concreto e fondato pericolo che il soggetto indiziato si dia alla fuga.

(316) Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 824.

(317) Senza considerare la profonda incongruenza del fatto che a tale dipendenza funzionale dalla magistratura requirente si continui ad accompagnare una dipendenza disciplinare dall'esecutivo. Con i pesantissimi riflessi sull'autonomia dell'azione investigativa che ciò può avere.

(318) Sulla questione cfr.: M. Nobili, Libro III. Prove, in: M. Chiavario (a cura di) Commentario al nuovo Codice di Procedura penale; Id., Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, 1998; A. Angelini, La rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova, Tesi di laurea in Procedura Penale, Università di Bologna, Corso di laurea in giurisprudenza, A.A. 2000-2001. Sul concetto di prova nel processo penale cfr.: Melchioda, Prova, in: Enciclopedia del diritto, xxxvii, 1988; F. Cordero, Procedura penale, 2001, cit., p. 557 e ss.

(319) L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 638.

(320) "Si è efficacemente detto nel corso dell'approvazione della legge delega, che il nuovo processo funzionerà se riusciremo a far pervenire al dibattimento soltanto una parte piccola dei processi", Relazione al progetto preliminare, cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 793.

(321) Cfr.: A.W. Alschuler, Plea bargaining in its history, cit.

(322) Come è stato rilevato, la dottrina giuridica statunitense non si è molto preoccupata di soppesare la legittimità dell'istituto, accettando il progressivo radicarsi della pratica negoziale come un dato di fatto di per sé idoneo a giustificarla filosoficamente; al contrario, invece, molto ricco è il panorama di indagini storiche e sociologiche, cfr.: M. Feeley, Perspectives on plea bargaining, cit.

(323) J.H. Langbein, Understating the short history of plea bargaining, cit.

(324) L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 581; per rilievi analoghi cfr. F. Bricola, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, cit.; M. Nobili, Scenari e trasformazioni del processo penale, cit.

(325) L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 782, 754, 858; S. Fiore, verso una "degiurisdizionalizzazione" del sistema penale, in: S. Moccia (a cura di), la giustizia contrattata. Dalla bottega al mercato globale, cit., p. 185 e ss.; P. Ferrua, La giustizia negoziata nella crisi della funzione cognitiva del processo penale, ivi, p.49 e ss.; S.Moccia, il dover essere della premialità, ivi, p. 203 e ss.; Id., La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, cit., p. 145 e ss.

(326) L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 755 e ss

(327) Si tratta peraltro di reati molto gravi: devastazione, saccheggio, strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello stato, guerra civile, associazione a delinquere di stampo mafioso, strage, rapina aggravata, estorsione aggravata, sequestro di persona, delitti a fine terroristico o eversivo puniti con pene sopra i cinque, nel minimo, e dieci anni, nel massimo, reati in materia di armi e stupefacenti, solo nelle ipotesi aggravate, cfr.: infra).

(328) Cfr.: S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, cit., p. 157; ove si sottolinea la tendenza, esplicitamente palesata da alcune pronunzie dei tribunali di merito, ad utilizzare lo strumento della carcerazione preventiva quale mezzo per estorcere confessioni e delazioni; per qualche esempio cfr. anche: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.; per giudizi analoghi cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 808 e ss.; M. Nobili, Scenari e trasformazioni del processo penale, cit., p. 106 e ss.

(329) "Quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche d'ufficio. Le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti" la riforma statuisce inoltre che, salvo alcuni specifici reati o in caso di indagini molto complesse, la custodia in carcere dovuta ad esigenze istruttorie non possa durare più di trenta giorni, salve due proroghe in casi particolari (art. 301.2 bis, ter c.p.p.). La nuova disciplina, tuttavia, suscita alcune perplessità. Da un lato è certo che un simile intervento volto a limitare l'indiscriminato utilizzo delle misure cautelari invalso presso la magistratura, a fronte del ruolo che, da sempre, la carcerazione preventiva assume nell'economia complessiva del nostro sistema di controllo sociale, dia ragione a qualcuno di parlare di "equivoca filantropia classista" (F. Cordero, Procedura penale, 2001, cit., p. 474) soprattutto per la sua tempestiva coincidenza con le vicende di "tangentopoli". D'altra parte poi la disposizione appare del tutto pleonastica rispetto agli stessi principi fondamentali del sistema. Un'adeguata interpretazione delle esigenze cautelari alla luce del principio nemo tenetur se detegere avrebbe infatti evitato simile ridondanza normativa. Ancora una volta ambiguo ed unidirezionale appare lo zelo garantista del nostro legislatore.

(330) S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, cit., p. 151; sulle vicende di questo periodo cfr. anche: M. Nobili, Scenari e trasformazioni del processo penale, cit.

(331) Si comincia col prevedere (L. nº 82 del 1991) una serie di misure di protezione speciali per i collaboratori ed i testimoni nei processi di mafia e si prosegue (L. nº 203 del 1991) col creare un'attenuante speciale per i "dissociati", nonché (L. nº 356 del 1992) una serie di benefici nella fase esecutiva della pena per i "pentiti"; cfr. S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, cit., p. 175 e ss.

(332) Cfr.: M. Pavarini, Lo scambio penitenziario. Manifesto e latente nella flessibilità della pena in fase esecutiva, cit., p. 249 e ss.

(333) Ennesima forma transattiva venuta nel 1999 (L. nº 479) a completare la bancarotta del sistema accusatorio; cfr.: A. Angelini, La rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova, cit., p. 82 e ss.

(334) Cfr.: M. Pavarini, Per un diritto penale minimo:"in the books o in the facts"? Discutendo con Luigi Ferrajoli, cit.

(335) E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, 1995, p. 471 e ss.

(336) Cfr.: E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit.; F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, in: Storia dell'Italia Repubblicana, vol. III*, L'Italia nella crisi mondiale, cit.

(337) In questo periodo nasce, negli Stati Uniti, la Trilateral commission, fondata da D. Rockefeller e composta da vari capitalisti ed intellettuali conservatori, la quale sostiene che "in nome della «stabilità del sistema» si debbano porre limiti alla «estensione potenzialmente indefinita della democrazia politica»" (cfr.: Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.) ed in genere all'intervento dello stato, ormai sovraccaricato di richieste. Il manifesto programmatico di quest'accolita di reazionari esce in Italia nel 1977 con il titolo: La crisi della democrazia e la prefazione di Gianni Agnelli, giuda indiscussa dell'imprenditoria italiana.

(338) Tra gli anni '70 e '80, dunque, non si assiste ancora ad una completa deriva in senso neo-liberista: i costi della crisi del fordismo e soprattutto i suoi pesanti riflessi sul piano occupazionale furono infatti prevalentemente accollati sulla spesa pubblica (centrale fu a riguardo lo strumento della cassa integrazione guadagni straordinaria, delle liste di mobilità e dei prepensionamenti, tutti strumenti che rimarcarono ulteriormente i segnalati squilibri in senso "previdenziale" del nostro welfare), precipitando definitivamente nella "crisi fiscale" la nostra Repubblica (cfr.: F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, cit.; E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.).

(339) Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit.

(340) Per questi argomenti cfr.: E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.

(341) M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

(342) E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.

(343) Su questi aspetti cfr.: M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.; E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.

(344) F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, cit.; molto importante è il riferimento al sorgere di un'ampia area di impiego informale, "in nero", poiché esso è il segno tangibile di come il nostro sistema industriale riduca i costi del lavoro e le garanzie ad esso legate, per vie di fatto, perseguendo per conto proprio sulla strada del neo-liberismo.

(345) C'è da dire che il processo di decentramento e dispersione produttiva ha avuto significativi effetti nel togliere peso politico proprio al settore di classe operaia più agguerrito e sindacalizzato, che era appunto rappresentato dai dipendenti delle grandi aziende, in cui più che altrove era radicata la presenza sindacale. Gli stessi sindacati diedero un'interpretazione del processo di ristrutturazione industriale tutta centrata sull'idea che la grande industria perseguisse una ferma strategia di azzeramento della capacità politica e contrattuale delle organizzazioni dei lavoratori e di radicale depotenziamento del conflitto sociale. Tale interpretazione sicuramente colse alcuni degli effetti che il processo avrebbe determinato, tuttavia è più complesso capire se effettivamente le ristrutturazioni perseguissero principalmente lo scopo di annichilire i sindacati, o non fosse soprattutto l'attrattiva rappresentata dalla possibilità di ridurre notevolmente i costi di produzione attraverso l'appalto a cascata verso aziende che, per le loro ridotte dimensioni, avevano modo di gestire in maniera molto più flessibile e meno onerosa la manodopera, a muovere tutto il processo. Di certo c'è che "non si trattava solo di una riduzione del costo del lavoro ma anche della realizzazione di un più alto grado di flessibilità, che l'organizzazione fordista-taylorista, fondata sulla grande fabbrica, impediva di avere" (E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.).

(346) E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.

(347) M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

(348) Ibidem

(349) Non si dimentichi, peraltro, che fino al 1990 la tutela contro il licenziamento individuale "senza giusta causa" (quindi la stabilità del rapporto di lavoro) era assicurata ai soli dipendenti il cui datore di lavoro impiegasse complessivamente più di trentacinque dipendenti - dal '90 il numero è di quindici - (in questo caso, secondo la disciplina del 1966, il dipendente aveva comunque diritto ad un'indennità ma non necessariamente alla reintegrazione nel posto di lavoro); ovvero ai dipendenti impiegati in "unità produttive" in cui lavorassero più di quindici persone (cinque, nel caso di imprenditori agricoli), in questo caso però, secondo la disciplina dello statuto dei lavoratori, il dipendente ingiustamente licenziato aveva diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro. Negli altri casi valeva il semplice obbligo di preavviso, come statuito dall'art. 2118 c.c.

(350) Tale posizione critica non è, peraltro, omogenea: essa comprende al suo interno tanto componenti di una cultura liberale cui l'individualismo degli anni '80 - e soprattutto gli esempi dei paesi di cultura anglosassone - ridavano vigore nell'alzare il tono della critica verso uno stato ritenuto inefficiente, sprecone e comunque nel diffondere germi di un becero antistatalismo di stampo neo-liberista; quanto il settore del volontariato e dell'associazionismo prevalentemente cattolico, che puntava su una riorganizzazione dell'erogazione dei servizi essenziali che lasciasse allo stato un ruolo marginale (cfr.: F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, cit.)

(351) In un quadro in cui restano centrali le politiche "passive" nel mercato del lavoro ed elevati i livelli di spesa sostenuti per ammortizzare le conseguenze sociali delle ristrutturazioni industriali, il nostro paese conosce un preludio di quella che sarà la politica economica e sociale che si avvierà con più decisione a partire dagli anni '90: da un lato sono della seconda metà degli anni '80 i primi tagli alle pensioni ed alla sanità; dall'altro sono sempre di questo periodo i primi tentativi di politica "attiva" nel mercato del lavoro, politiche che intervengono nel vuoto totale di garanzie ai disoccupati in cerca di prima occupazione che caratterizza da sempre il nostro welfare,cercando di aumentarne la competitività sul mercato attraverso una compressione dei loro diritti (nascono così i contratti part-time e di (poca)formazione-(molto)lavoro e la prima, parziale, liberalizzazione del collocamento cfr.: E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.).

(352) L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 73 e ss.

(353) Ivi, p. 77.

(354) Ivi, p. 101.

(355) Ivi, p. 103.

(356) Come dicevamo Italia ha conosciuto il minimo storico di presenze in carcere nel 1970, toccando il pavimento di 21.391 detenuti; da allora si sono avviate delle tendenze più confuse: fino al 1984, per tutta la durata della lotta al terrorismo e del funzionamento delle leggi eccezionali si registra infatti un incremento tanto degli ingressi che delle presenze; che ricominciano invece a calare in quegli anni di pacificazione e di riforme in senso garantista seguiti al "guerra al terrorismo", la tendenza dura fino al 1990, anno in cui si registra uno dei livelli più bassi di presenze nella nostra storia di paese unito: 26.150. Da allora in poi, comunque, il dato delle presenze è in costante crescita: ha superato le 50.000 unità nel 1993 (raddoppiando nel giro di tre anni) e non è mai sceso al di sotto dei 47.000 fino al 1999, anno in cui si segnavano 52.870 presenze, il dato più alto dal 1949! (dati tratti da: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit., pp. 990, 991; ed integrati con: ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, anni 1995 - 1999).

(357) cfr.: supra, parte I, cap. 3.

(358) Cfr.: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.; Id., Bisogno di sicurezza e questione criminale, in: Rassegna italiana di criminologia, 5, 1994, p. 435 e ss.

(359) Già L. Sciascia, con i suoi interventi sul Corriere (ora raccolti nel volume: A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, 2000) aveva denunciato la crescente onnipotenza dell'"antimafia", subendo l'onta - lui che, con i suoi romanzi aveva spiegato all'Italia intera cosa fosse la mafia - di essere accusato di "alleanza oggettiva" con la criminalità organizzata di stampo mafioso.

(360) Come sottolineava già nel 1993 un osservatore (suo malgrado) privilegiato della realtà carceraria "le stolide voci - stolide anche quando sono ben intenzionate - che deridono il garantismo regalato ai potenti come una debolezza da femminucce o una ipocrisia da borghesi, hanno un doppio torto: di pensare a un diritto selettivo, e sia pure alla rovescia che nella selezione ordinaria; e ignorare la retrocessione del sentimento pubblico a proposito della galera, che si rovescia sui detenuti poveri e derelitti" (A. Sofri, Le prigioni degli altri, Palermo, 1993, pp. 181, 182). Analoghe considerazioni sono svolte da: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.; S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, cit., p. 143 e ss.; L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), cit.; Luther Blisset Project, Nemici dello Stato, cit., p. ...

(361) Cfr.: S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, cit., p. 144.

(362) Cfr.: L. Pepino, Droga e legge, cit.; A. Cottino, Consumi illeciti, cit., p. 267 e ss.; S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 123 e ss.

(363) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 124.

(364) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 130. Quando nel 1993 la criminalizzazione del semplice consumo sarà eliminata da un referendum abrogativo, nell'immaginario collettivo l'immagine del "tossico criminale" si sarà ormai radicata definitivamente. I livelli di carcerizzazione dei tossicodipendenti resteranno praticamente stabili per tutti gli anni '90: ancora nel 1999, infatti, le presenze registrate sono di 15.097 unità, il 28% sul totale dei detenuti presenti (Fonte: ISTAT, Statistiche giudiziarie penali,1999).

(365) A. Sofri, forzato etnografo del carcere italiano, raccontava come, già nel 1994, per compensare le carenze di spazio i letti nelle celle vengano sistemati l'uno sopra l'altro, di modo che, ormai, il malcapitato cui tocca il letto superiore non ha più lo spazio, tra il suo materasso ed il tetto della cella, per piegare da sdraiato le ginocchia (cfr.: Le prigioni degli altri, cit.). Già sul finire degli anni '90, poi, si sono iniziate a registrare diverse proteste da parte di detenuti che denunciavano le cattive condizioni di detenzione. Nasce nell'estate del 2000 uno spontaneo movimento per l'indulto, appoggiato anche dalla Conferenza Episcopale che nel luglio dello stesso anno avrebbe celebrato il giubileo dei detenuti (cfr. S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 187). Le proteste si susseguirono in diversi istituti di pena, come nel caso del Carcere Circondariale "G. Dozza", a Bologna, i cui detenuti denunciavano un'insostenibile situazione di sovraffollamento, segnalando come nei 3 mq. di una cella venissero ammassate fino a sei persone (cfr.: www.contropiani2000.org). Nel solo 1999, comunque, all'interno delle nostre carceri, si sono registrati: 6.500 atti di autolesionismo, oltre 900 tentativi di suicidio, 93 suicidi, 83 decessi, oltre 5000 scioperi della fame. La situazione sarebbe ulteriormente precipitata negli anni successivi.

((366) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 173.

(367) Cfr.: M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.; S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, cit.; cfr. anche: C.I.D.S.I., Gli stranieri in carcere. Dossier '94, cit. Il dato sulle presenze straniere in carcere è di per sé esplicativo: tra il 1994 ed il 1999 il numero degli stranieri è praticamente raddoppiato, passando da quota 8.438 (il 16,4% sul totale dei detenuti presenti), a 14.050 (26,5% sul totale). Ma ancor più sorprendenti sono i dati relativi agli "ingressi" in carcere, che dal 1992 al 1999 si sono anch'essi praticamente duplicati, passando da una cifra di 16.318 (il 17,4% degli ingressi totali), ai 29.361 ingressi del '99 (il 33,4% del totale). Sul punto cfr. anche: S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 143.

(368) M. Pavarini, I nuovi confini della penalità, cit., p. 127.

(369) M. Pavarini, Bisogno di sicurezza e questione criminale, cit.; R. Selmini, Sicurezza urbana e prevenzione della criminalità in Italia, in: Polis, 1, 1999; M. Bouchard, Le risposte possibili alla criminalità diffusa, in: Storia d'Italia, annale nº 12, La criminalità, cit.; L. Pepino, La città e l'impossibile supplenza giudiziaria, in: Questione Giustizia, 5, 1999; S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit.

(370) Cfr.: A. Dal Lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano, 1999, p. 118 e ss.

(371) L'Italia aveva conosciuto un costante incremento di questo genere di reati (soprattutto dei reati contro il patrimonio) tra il 1970 ed il 1991, conformandosi peraltro ai livelli di delittuosità espressi dalle altre nazioni sviluppate (il dato è confermato del resto da un gran numero di ricerche cfr. per un quadro generale: T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A Verde, Criminologia, Milano, 1991, p. 111 e ss.; in questo senso cfr. anche S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit.). Tuttavia non è in questo periodo che si riscontrano elevati livelli d'allarme sociale riferibili alla criminalità diffusa, i quali - come detto - iniziano piuttosto a manifestarsi con gli anni '90, esattamente in coincidenza con l'avvio di un costante processo di riduzione nei tassi dei reati contro il patrimonio: i furti, per esempio, diminuiscono sensibilmente tra il 1991 ed il 1999, passando da 1.702.074 unità a 1.480.775 (con un pavimento tra il '94 ed il '95, in cui il livello delle denunce scende fino alle 1.333.089, 1.338.446 unità); lo stesso dicasi per lo scippo, il quale arriva a dimezzarsi negli otto anni considerati, passando dalle 73.899 denunce del '91 alle 33.435 del '99. Un andamento oscillatorio presentano invece i dati relativi alle rapine, che, da una cifra di denunce pari a 39.206, scendono fino alle 28.614 del '95, per poi risalire ad una cifra intorno alle 39.000 anche nel '99. Anche il tasso d'omicidi - reato peraltro che per la sua gravità suscita giustamente molto allarme sociale - è a sua volta in forte calo ed è passato (con una costante - a parte il '95 ed il '98- diminuzione) dal numero di 1.916 del '91 alla cifra di 805 del '99 (fonte: ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, anni 1991 - 1999; cfr. anche: E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000). In senso contrario si è recentemente espresso M. Barbagli, nel contributo che apre il volume Egregio Signor Sindaco (Lettere dei cittadini e risposta dell'istituzione sui problemi della sicurezza, Bologna, 1999, p. 9 e ss.) da lui curato: l'autore ritiene - in contrasto con tutta la pubblicistica italiana sull'argomento (cfr. i lavori già citati) - che il sentimento d'insicurezza dei cittadini si sia manifestato già con anni '70, decennio a partire dal quale i tassi di delittuorità prendono ad aumentare; arrivando successivamente a sostenere, per suffragare la sua idea che il sentimento d'insicurezza sia comunque strettamente legato ad un effettivo aumento della criminalità, che la paura del crimine si sia poi strutturata negli anni '90, in coincidenza con un continuo e costante aumento della criminalità. Alla luce dei dati riportati una simile posizione ci pare quantomeno problematica da sostenere, è infatti incontestabile che negli anni '90 siano complessivamente diminuiti proprio quegli episodi cui Barbagli stesso imputa il prodursi del sentimento d'insicurezza: furti in generale e scippi in particolare; per non parlare degli omicidi. Per le rapine il discorso è un po' più complesso, sia perché esse presentano nel decennio considerato un andamento oscillatorio, sia perché l'aumento dell'ultimo quinquennio è sicuramente da ricollegare ad un incremento delle cosiddette altre rapine (rimandiamo a riguardo ai dati che lo stesso Barbagli riporta a p. 26 del suo lavoro), cioè le rapine improprie, le quali solo nel '99 sono l'82% del totale delle rapine commesse (ed in media difficilmente si scende al di sotto di percentuali del genere). Tale tipo di rapina, oltre ad essere una forma molto meno grave rispetto alla tipica rapina a mano armata dell'immaginario collettivo, confina strettamente con la figura di "furto con strappo" e presenta delle particolarità sotto il profilo della disciplina giuridica che potrebbero rappresentare un fattore discorsivo della realtà statistica (sul punto cfr. infra, cap. 6). A confermare tali considerazioni è poi giunto il citato "rapporto sulla sicurezza", presentato al parlamento dal ministro E. Bianco nel 2000. Come avremo modo di notare, però, le considerazioni del ministro Bianco giungono piuttosto tardive, se si considera che i suoi predecessori (e anche uno dei suoi massimi dirigenti) nel corso degli anni '90 hanno a lungo disinformato i cittadini sull'argomento. È chiaro, d'altra parte, che la realtà può essere abilmente piegata a fini di propaganda politica, per costruirsi o non perdere consensi, su questo scivoloso (per le sinistre) terreno si può in qualche caso assecondare l'allarme sociale e l'occasionale ondata di panico, per poi, al momento opportuno, ricordarsi dei confortanti dati ufficiali ed utilizzarli a suffragio della bontà del proprio operato. E così: se, come vedremo a breve, nel 1999 Milano si è improvvisamente trasformata nel bronx, nel 2000 altrettanto repentinamente "il Modello Milano in tema di sicurezza" si trasforma in " un punto di riferimento" (E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000, p. 24; cfr, anche S. Palidda, Quei successi troppo facili del ministro Enzo Bianco,in: Il Manifesto, 14.02.2001). Di simili capovolgimenti di prospettiva si renderà protagonista anche la destra tra il 2001 ed il 2002.

(372) I brani sono tratti da: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 132.

(373) Brano tratto da: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 168; su questi aspetti della domanda di sicurezza cfr. anche: R. Selmini, Sicurezza urbana e prevenzione della criminalità in Italia, cit.

(374) Secondo la definizione che propone S. Palidda (Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 145) richiamandosi a quella di imprenditore morale,avanzata negli anni '60 da H. S. Becker nel suo famoso saggio (Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit.).

(375) Cfr.: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit.; Id, Domanda di sicurezza e forze di polizia nei capoluoghi emiliano romagnoli, cit.

(376) Cfr.: A. Baratta, M. Pavarini, La frontiera mobile della penalità nei sistemi di controllo sociale della seconda metà del ventesimo secolo, in: Dei delitti e delle pene, 1, 1998.

(377) A. Dal lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, cit., p. 82.

(378) M. Barbagli, L'insicurezza nelle città italiane, in: Egregio Signor Sindaco, cit., p. 34.

(379) Si spazia dall'"elemosina aggressiva" allo spaccio di droga, senza considerare gli impuniti lavavetri contro cui Barbara Palombelli lancia i suoi anatemi dalle colonne di "La Repubblica" (cfr. A. Dal lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, cit., pp. 52 e 134) e la cui presenza indigna anche i cittadini della civile Bologna, continuamente insolentiti da qualche esemplare particolarmente "fastidioso e maleducato" di questi "animali" urbani (cfr. la lettera pubblicata in M. Barbagli, Egregio Signor Sindaco, cit., p. 77).

(380) M. Barbagli, L'insicurezza nelle città italiane, in: Egregio Signor Sindaco, cit., p. 36.

(381) Sono tutti brani delle lettere contenute nel volume curato da M. Barbagli, combinati dallo stesso A. nella sequenza logica in cui noi le riportiamo.

(382) Quest'ultima categoria di comportamenti, poi, viene solitamente classificata a fini statistici sotto la dicitura "altri delitti", categoria che, solo in Emilia Romagna, tra il 1990 ed il 1997 ha subito un incremento del 73%. Cfr.: S. Palidda, Domanda di sicurezza e forze di polizia nei capoluoghi emiliano romagnoli, cit.

(383) In questo senso si è espresso A. Dal lago (cfr.: Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, cit., p. 76). È vero del resto che sin dall'inizio assume un ruolo privilegiato nell'attirare le domande di sicurezza l'autorità politica più vicina ai cittadini: il sindaco (cfr.: R. Selmini, Sicurezza urbana e prevenzione della criminalità in Italia, cit.), la cui elezione diretta offriva la percezione di un rapporto più immediato con i propri elettori, rapporto che le autorità politiche centrali avevano ormai perso da tempo; ma è significativo anche il fatto che in una città come Milano il capo del pool di "Mani Pulite", Borrelli, fosse tartassato di richieste da parte di vari esponenti dei comitati cittadini, a testimonianza del vuoto di rappresentanza politica che si era determinato (cfr.: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 140).

(384) Il lavoro curato da M. Barbagli (Egregio Signor Sindaco, cit.) è zeppo di lettere e petizioni che, oltre a segnalare specifici episodi delittuosi, indugiano sull'insopportabile presenza di barboni, sbandati, drogati, vagabondi, saltimbanchi, responsabili di un degrado e di una sporcizia non adatta alle vie che dovrebbero essere la vetrina di una città come Bologna e che invece riempiono il naso dei passanti di "miasmi" confacenti più alle città del passato ed ai loro bassifondi, che ai centri cittadini delle civilizzate metropoli occidentali.

(385) S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 151.

(386) Si pensi al caso dei vari provvedimenti di natura igienico-sanitaria, adottati per allontanare da determinate zone soggetti indesiderabili, o al famoso caso dell'utilizzazione del codice della strada nel contrasto dell'attività di prostituzione, verificatosi a Rimini; come pure l'ordinanza "antibivacco" partorita dalle autorità municipali bolognesi; cfr.: R. Selmini, Sicurezza urbana e prevenzione della criminalità in Italia, cit.; S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 148.

(387) Per la verità esistevano da tempo esperienze di riflessione sul tema della sicurezza avviate in un ambito culturale "di sinistra", si pensi all'attività della rivista "sicurezza e territorio" (fondata con il sostegno del P.D.S.) o al "progetto città sicure" avviato dalla giunta regionale dell'Emilia Romagna, che raccoglierà in un certo senso l'eredità della rivista; dal 1995 esisteva poi il "Forum Italiano per la Sicurezza Urbana" (nato come specificazione dell'omonimo Forum europeo) che raccoglieva diversi enti locali. Il filo conduttore di tali esperienze è la comune matrice culturale, riferibile a quel "realismo criminologico di sinistra" che si pone come obbiettivo di affrontare la tematica della sicurezza in chiave realistica - non negando, quindi, l'esistenza di realtà o comportamenti problematici ma, piuttosto, cercando di ridurne l'incidenza attraverso tecniche di prevenzione che non si appoggino sullo strumento penale. A tal proposito l'obbiettivo esplicito è la realizzazione di politiche di "prevenzione integrata", di azioni che, rifuggendo da un approccio meramente situazionale, privilegino la via dello sviluppo sociale e l'azione volta alla produzione di un accettabile sentimento di sicurezza anche attraverso il recupero - in chiave prevalentemente localistica - dei classici interventi di tipo socio-assistenziale nei confronti delle categorie sociali più problematiche. Per certi versi, dunque, a parte la diversa dimensione su cui si propongono di incidere tali politiche, esse sono difficilmente distinguibili dalla classica azione di prevenzione pre-penale di stampo riformistico ed effettivamente, in un contesto politico nazionale ed internazionale che preme nel senso di una riduzione della spesa sociale, non ci pare possano avere vita facile (sull'azione di prevenzione integrata cfr.: R. Selmini, Sicurezza urbana e prevenzione della criminalità in Italia, cit.; M. Pavarini, Bisogno di sicurezza e questione criminale, cit.).

(388) In particolare il più autorevole esponente di tale visione tendente ad equiparare "macro" e "micro" criminalità fu Luciano Violante, che in due suoi interventi molto famosi suggerì di offrire la medesima strategia di risposta utilizzata rispetto ai fenomeni criminali del primo tipo anche contro la criminalità diffusa "che riguarda milioni di cittadini che sono soltanto telespettatori della grande criminalità", mentre "la criminalità comune ha dimensioni preoccupanti, gode di una considerevole impunità, colpisce i più deboli" ed entra nel vissuto quotidiano di molte persone quasi fosse un inconveniente inevitabile della vita urbana (L. Violante, Relazione al convegno "Il senso della sicurezza", Torino. 26.09.1997; cfr. anche: Id. Apologia dell'ordine pubblico, in: Micromega, 5, 1995). Ad analoghe conclusioni giunsero l'allora vice capo della polizia G. De Gennaro ed il ministro degli interni G. Napolitano (cfr.: G. De Gennaro, Repressione democratica, cit., in: Micromega, 5, 1996; Così libereremo la città dall'incubo della paura, intervista di F. La Licata al Ministro G. Napolitano, La Stampa, 22.02.1997); due che, per l'incarico ricoperto, avrebbero dovuto essere a conoscenza dei datti ufficiali sulla delittuosità, quegli stessi dati che, come accennato, solo qualche anno dopo sarebbero parsi del tutto tranquillizzanti al ministro E. Bianco.

(389) Il sindaco di Milano accorse addirittura in pellegrinaggio a New York, dal pontefice massimo della "zero tollerance", R. Giuliani, per rendersi edotto circa le strategie utilizzate presso l'amministrazione comunale della "grande mela"; in Italia, nel frattempo, si scatenò una "edificante" competizione fra le varie forze politiche, in cui ogni fazione si sforzò di dimostrare agli occhi dell'opinione pubblica quanto fosse "poco tollerante" nei confronti della marginalità sociale. Cfr. a riguardo: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 175 e ss.; L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 22 e ss.; A. Dal Lago; Giovani, stranieri, criminali, Roma, 2001, p. 7 e ss.

(390) Cfr.: L. Pepino, La città e l'impossibile supplenza giudiziaria, cit.; L. Ferrajoli, Legge e disordine, in: La Rivista, 0, 1999; in questo quadro ci pare insostenibile la proposta di distinzione avanzata da L. Pepino (ibidem) fra la "via" poliziesca (e di destra) e la "via" giudiziaria (e di sinistra) al governo della sicurezza, posto che gli strumenti giuridici privilegiati nella lotta alla microcriminalità afferiscono, come abbiamo avuto modo di sottolineare, a quello che è stato chiamato "sotto-sistema penale di polizia". Un settore dell'ordinamento in cui attività poliziesca e giudiziaria si sovrappongono confondendosi l'una con l'altra, in istituti sottesi dal marcato carattere sostanzialista e disciplinare. Tale distinzione ci pare insomma basata su di un criterio puramente formale, che svapora di fronte ad una considerazione più attenta alla sostanza dei meccanismi giuridici utilizzati, indipendentemente dell'autorità che è chiamata ad applicarli.

(391) Per un esame dei profili giuridici della riforma cfr.: Diritto e processo penale, 8, 9, 2001. Perentorio è il giudizio espresso a riguardo da S. Senese (Il pacchetto insicurezza, in: La rivista, 16, 2001): la riforma rappresenta"un espediente modesto e grossolano che, abbandonato alle dinamiche senza governo della camera dei deputati ha partorito, dopo due anni, un testo irriconoscibile, votato anche dal centro destra, del quale il contrassegno più evidente è la perdita di ogni ragionevolezza e leggibilità". Più in generale l'inefficacia del testo è la stessa di tutte le politiche punitive, le quali pretendono di incidere sul verificarsi di episodi che spesso sono dovuti a ragioni di pura sussistenza, ottenendo solo il risultato di inasprire il clima morale complessivo delle nostre città; ed in secondo luogo assumono per "oggettivo" un senso d'insicurezza che ha un carattere prevalentemente "soggettivo" e rispetto al quale le politiche repressive non fanno che peggiorare la situazione. È evidente che la via giudiziaria e poliziesca, oltre ad essere assolutamente inefficace, è responsabile di un effetto perverso che non fa altro che alimentare l'insicurezza stessa; essa sembrerebbe quindi una strategia del tutto irrazionale, ma la sua ragione d'esistere è probabilmente da rintracciare nella sua capacità di creare immediati consensi a livello politico (la sinistra peraltro pagherà caro l'esser scesa sul terreno della destra e l'aver legittimato politiche di "tolleranza zero", perdendo la propria identità politica e disorientando i propri elettori; cfr. a riguardo: S. Senese, Il pacchetto insicurezza, cit.;L. Ferrajoli, Legge e disordine, cit.; A. Dal Lago; Giovani, stranieri, criminali, cit.)

(392) Così lo scippatore che usi anche, per esempio, "violenza sulla cosa" (art. 625.1 nº2 c.p.) è punito ormai molto più severamente di chi dolosamente causi ad alcuno una grave lesione, da cui possa derivare anche un indebolimento permanente di un senso o di un organo (art. 583.1 nº 2 c.p.).

(393) Già dal '98 il Ministro dell'Interno G. Napolitano e della Giustizia G. M. Flick andavano proponendo una "stretta antifughe". Movendo da alcuni episodi che molto scalpore destarono nell'opinione pubblica, si proponeva - fra le altre cose - di rendere più stringente il meccanismo delle scarcerazioni per decorrenza dei termini di custodia cautelare, riforma che, ovviamente, avrebbe toccato tutti gli imputati, non solo gli "eccellenti" (cfr.: "La Repubblica", 13.06.1998). Nel tempo però, proposte simili vennero reiterate ogniqualvolta un imputato in un qualche processo commetteva un reato o faceva perdere le sue tracce: il Ministro della giustizia O. Diliberto, per esempio, con interventi che ancora si fermarono sul piano delle "buone" intenzioni proponeva un freno ai benefici e i famosi "braccialetti elettronici"; proposte che verranno in parte concretizzate dal Ministro P. Fassino suo successore (con la L. nº 4 del 2001), cui si deve, peraltro, quel significativo peggioramento del regime della custodia cautelare (peraltro già parzialmente avviato con la L. 144 del 2000 e proseguito ulteriormente con la L. nº 128 del 2001) paventato sin dal '98 e l'introduzione del famoso braccialetto elettronico per chi accede agli arresti domiciliari o alle misure alternative al carcere. Recita infatti il nuovo art. 275-bis c.p.p.: "nel disporre la misura degli arresti domiciliari anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, il giudice, se lo ritiene necessario in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, prescrive procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria. Con lo stesso provvedimento il giudice prevede l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora l'imputato neghi il consenso all'adozione dei mezzi e strumenti anzidetti", ed analoga previsione è inserita nel nuovo art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, per chi accede a misure alternative al carcere.

(394) S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 193.

(395) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 187.

(396) S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., p. 172.

(397) Il potenziamento del controllo del territorio è stato attuato mediante la creazione di un nuovo "ufficio divisionale" che si viene ad affiancare nelle questure agli storici uffici della "digos" ed ai "reparti mobili" (peraltro sempre più spesso utilizzati nei pattugliamenti in strada): gli Uffici Prevenzione Generale e soccorso pubblico (UPG), cui fanno capo le centrali operative delle volanti, i centralini (113-112) e l'ufficio denunce (cfr. a riguardo: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit.).

(398) Il coinvolgimento delle polizie municipali, è una novità che rappresenta l'esito di quel processo che ha visto le autorità locali costruirsi come referenti principali dei cittadini rispetto al problema sicurezza, spesso accaparrandosi poteri e competenze non di loro spettanza o creando nuove figure istituzionali come l'"assessore alla sicurezza". Punte forse ineguagliabili di coinvolgimento delle polizie municipali in attività di contrasto della micro-criminalità, del "degrado urbano" o "soft crimes" (come li ha chiamati un dirigente della locale polizia municipale durante una "comunicazione" tenutasi in occasione di un seminario della cattedra di criminologia nella facoltà di legge p.sso l'Università di Bologna; evidenziando in questo la marcata tendenza a criminalizzare anche comportamenti come il semplice consumo in pubblico di sostanze stupefacenti, l'esercizio pubblico della prostituzione o - perché no - il semplice trascinarsi per strada dei vagabondi) si hanno nella città di Rimini, ove parecchie risorse vengono impiegate a riguardo. Sempre durante la medesima "comunicazione" il dirigente, evidenziando come tali episodi facciano crescere il "timore di attraversare luoghi pubblici frequentati da persone estranee, il cui comportamento si suppone imprevedibile" (sic), ha offerto un saggio delle misure adottate in chiave di contrasto. A parte il già segnalato utilizzo del codice della strada per frenare il fenomeno prostituzione, che è valso al municipio di Rimini l'onore delle cronache nazionali, spiccano per la loro perspicacia le misure adottate nei confronti del "degrado urbano", esplicitamente correlato questo"all'invasione, prevalentemente da parte di soggetti extracomunitari clandestini, ovvero di sbandati, degli edifici abbandonati, nonché l'utilizzo, sempre da parte di questi ultimi, dei parchi urbani per bivacchi improvvisati, diurni e notturni" da cui discende il disagio dei cittadini che in ragione di queste "presenze inquietanti" rinunciano ad utilizzare gli spazi pubblici in questione. Dalle misure igienico sanitarie per obbligare i proprietari di stabili in disuso a chiudere gli accessi degli stessi, al potenziamento dei controlli circa il rispetto delle norme sull'utilizzazione dei parchi pubblici, dall'istallazione di innaffiatoi per evitare che il parco si trasformasse in un luogo di bivacco per "sbandati", allo sgombero di fabbricati occupati abusivamente...la serrata lotta alla marginalità sociale ingaggiata dal comune di Rimini avrà sicuramente migliorato il "decoro" delle vie cittadine. Tuttavia la polizia municipale riminese non ha di certo disdegnato la possibilità di utilizzare i poteri d'arresto concessigli: come ci segnala lo stesso dirigente, l'attività del suo "Nucleo Ambientale" (che, sono sue parole, svolge un'attività da veri e propri "operatori ecologici", sgomberando le vie cittadine da quelli che, evidentemente, sono considerati veri e propri "rifiuti umani") ha portato tra il 1998 ed il 2000 ad un numero di circa 450 arresti. L'assessore alla sicurezza di Bologna, da par suo, lanciò nel 2001 i cosiddetti "assistenti civici", un corpo di volontari con il compito di presidiare le zone "calde" della città e di "sostenere e accrescere il senso civico dei cittadini e contribuire al rispetto delle regole che assicurano a tutti una civile convivenza" ("Il Resto del Carlino", Bologna, 12.10.2001); il "piccolo esercito di volontari" che andava ad affiancare la Polizia Municipale nella "lotta al degrado", annoverava fra i suoi membri, oltre al cosiddetto "corpo di pattuglie cittadine", anche poliziotti, carabinieri e finanzieri in pensione, ovviamente però i loro compiti si sarebbero limitati alla segnalazione degli episodi illeciti ed all'assistenza prestata alle vittime di un reato. "I volontari non ricoprono dunque un ruolo che prevede interventi diretti di tipo repressivo. Vogliono invece rappresentare una presenza amica e rassicurante, utile a prevenire e dissuadere ogni comportamento contrario al senso civico". La cosa non deve aver avuto gli effetti sperati se, a poco più di un anno di distanza, gli abitanti delle zone "affette da degrado", sostenuti dalla pagina locale de "La Repubblica", hanno lanciato un'impressionante campagna contro drogati, spacciatori, barboni ecc. che ha portato lo stesso assessore a rispondere stizzito che il degrado e la criminalità "sono problemi delle forze dell'ordine". Ovviamente, per un membro di una giunta comunale che sulla "lotta al degrado" ha conquistato la maggior parte del suo consenso, questa è una esternazione quanto mai inopportuna ed infatti verrà prontamente smentita con un rilancio dell'impegno dell'amministrazione comunale. Nel frattempo però cittadini e commercianti delle zone più attive contro il degrado hanno annunziato, con il sostegno finanziario dell'Uppi (unione piccoli proprietari immobiliari), un progetto, in Italia del tutto inedito, di privatizzazione dello spazio pubblico: la creazione di un consorzio per affidare ad un corpo di vigilanza privata il controllo delle zone interessate dal degrado (cfr.: "La Repubblica", Bologna, 5.02.2003).

(399) (S. Palidda, Considerazioni sui problemi della ricerca e delle esperienze riguardanti l'insicurezza e la sicurezza urbana, cit.; cfr. anche: Id., Come si studia il lavoro della polizia, cit., p. 230 e ss.). Un esempio ci viene dal caso del questore di Bologna, R. Argenio, che, nel presentare all'opinione pubblica le cifre dell'attività di quotidiano "pattugliamento" cui vengono costretti i suoi uomini, manifesta una certa insofferenza nei confronti delle continue pressioni che la realtà locale esercita sul suo ufficio: "ecco, questi sono i numeri della settimana dal 1 al 7 ottobre. Abbiamo impegnato più di cinquecento uomini nel controllo straordinario del centro storico. In sette giorni hanno vigilato 211 poliziotti, 120 carabinieri, 31 finanzieri e 142 vigili urbani. Sono state identificate 782 persone. Questi sono i numeri, nessuno inventa niente. Mi pare che ci preoccupiamo abbastanza. Ma non possiamo dare un'overdose di medicine. Altrimenti il paziente ci muore. E poi è proprio strano...- Che cosa? - penso ai punkabbestia. Proprio ora che si è cominciato a mettere mano al problema, tutti parlano e vogliono risolvere ogni cosa subito. Per anni questa città ha dato sacchi a pelo e coperte a chi bivaccava sotto i portici e all'improvviso...Alla fine non c'è niente di nuovo (...) insomma, cosa vorrebbero i cittadini? Mica possiamo fare un treno di punk e spedirli via!" (cfr. l'intervista contenuta in: "Il Resto del Carlino", Bologna, 12.10.2001). Per amor di cronaca c'è da dire, però, che la citata "ordinanza antibivacco" del municipio bolognese (varata alla fine del giugno 2001) in poco più di tre mesi aveva già prodotto 86 diffide (è appena il caso di ricordare che l'inottemperanza ad un ordine dell'autorità amministrativa comporta l'arresto fino a tre mesi, ex art. 650 c.p.) e che la stessa autorità di Pubblica Sicurezza non disdegna affatto a Bologna di utilizzare i vecchi strumenti polizieschi come il "foglio di via obbligatorio" contro vagabondi ed accattoni: lo stesso quotidiano solo pochi giorni prima, in quello che è il suo periodico "bollettino di guerra", segnalava l'utilizzo del foglio di via, nella previsione del T.U.P.S. fascista, contro tre individui rei di non aver saputo fornire giustificazioni circa la loro presenza a Bologna (come sappiamo la norma è applicabile a quanti non riescano a dare "contezza di sé") e di essere stati sorpresi a chiedere elemosina per le vie del centro (cfr.: "Il Resto del Carlino", Bologna, 05.10.2001).

(400) Cfr.: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit.; Id., Come si studia il lavoro della polizia, cit.

(401) S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, cit., p. 168.

(402) Dati: elaborazione su fonte ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, anno 1999.

(403) Nel 1999 i dati sugli ingressi in carcere evidenziavano un'impressionante numero di persone entrate ancora a disposizione dell'autorità giudiziaria, cioè a titolo di carcerazione preventiva: circa 79.341 (il 90,3%), contro 8.358 (il 9,7%) di definitivi. Molti di quei condannati a pene brevissime subiscono, dunque, un assaggio di pena sotto forma di carcerazione preventiva. Assaggio che, come vedremo, spesso può arrivare a coprire l'intera durata della sanzione cui, eventualmente, si potrebbe essere condannati.

(404) L'idea della deriva poliziesca della sanzione penale è più volte ribadita nei contributi di M. Pavarini cfr. a riguardo: Id, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.; Id., La penitenziarizzazione della giustizia penale, cit.; Id., Della penologia fondamentalista, cit.; Id, La negozialità della pena tra parsimonia e dissipazione repressive. Il diritto penale nei fatti oggi, cit.; Id., Note sulle concezioni amministrative e tecnocratiche della penalità, cit.; Id., Per un diritto penale minimo: "in the books o in the facts"? Discutendo con Luigi Ferrajoli, cit.; cfr. comunque anche: S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie del sistema penale, cit.

(405) Nel novembre del 2002, lo stesso ministro della giustizia è arrivato a dichiarare l'insostenibilità della situazione: "trenta mesi e poi le nostre strutture carcerarie non saranno più in grado di reggere il peso dei quasi 57 mila detenuti" (R. Castelli, cit. su "La Repubblica", 13.11.2002; cfr. comunque anche gli altri quotidiani dello stesso giorno, che tornano tutti sull'argomento carceri). Tuttavia la grande novità del 2002 fu sopratutto il ritorno di quelle proposte di clemenza già naufragate due anni prima. Ed è ancora un volta il Vaticano, in questo caso addirittura Papa Govanni Paolo II con il suo storico intervento al Parlamento italiano, il 14.11.2002, a spingere per l'approvazione di un provvedimento di clemenza. Tuttavia, la pratica indulgenziale, non incontra più gli incontrastati consensi che ha avuto a lungo nella nostra storia repubblicana e, nonostante un consenso comunque vasto e trasversale, le proposte avanzate subiscono l'opposizione di alcune forze politiche (e dello stesso ministro della giustizia, a parere del quale la soluzione va trovata prima di tutto "intervenendo sulle infrastrutture"; ma c'era poco da aspettarsi in questo senso da un ministro della giustizia che, di ritorno da un viaggio istituzionale negli Stati Uniti, trovava modo di elogiare la citata regola del "trhee strike and you're aut" e di asserire, secondo i dogmi della "incapacitazione selettiva", come alla progressiva crescita del numero dei detenuti faccia immediato seguito una parallela riduzione del numero dei reati; cfr.: A. Sofri, Se pinocchio finisce in carcere, in: "La Repubblica", 18.02.2002). Mentre scriviamo l'iter di approvazione di un provvedimento d'indulto (o "indultino" come viene chiamato) è in corso d'approvazione, con forti resistenze da parte di quelle forze politiche che più di altre hanno puntato sulla "questione sicurezza": AN e LEGA NORD.

(406) M. Barbagli, L'insicurezza nelle città italiane, in: Egregio Signor Sindaco, cit., p. 23.

(407) Come nel caso recente della istituzione del cosiddetto "poliziotto di quartiere" annunciata dal presidente del consiglio in persona con una conferenza stampa il 17.12.2002. Una novità puramente simbolica che si sovrappone a quella "militarizzazione" del territorio urbano già abbondantemente avviata dai governi di centro sinistra, ma indubbiamente più efficace sul piano del "marketing politico". Bisogna essere franchi: sul piano dello stile non c'è paragone fra qualche camionetta (le chiamano stazione mobili) ferma in una piazza ed una coppia di agenti con una bella divisa nuova ed un computer palmare a passeggio per le strade pronti a raccogliere le delazioni degli zelanti cittadini.

(408) S. Palidda, Proletari d'importazione, cit.





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