LA GLOBALIZZAZIONE DELLE PMI & L'EUROPA

Economia Globale e Post Fordismo

Enzo Rullani

Docente di Strategie
d'impresa presso l'Università  di Venezia



Dalla globalizzazione non ci si puಠsoltanto difendere poiché essa é la strada attraverso cui sta emergendo un nuovo modo di produrre e di competere. Proteggersi da essa significherebbe ritardare il contatto dell’economia nazionale con la sperimentazione delle forme post fordiste di produzione e di concorrenza.

Dal fordismo al post fordismo

Il gran parlare che si fa di economia globale e di globalizzazione lascia pochi dubbi sul fatto che tutti i comportamenti e i problemi economici siano profondamente influenzati da questa tendenza. Tuttavia, proprio il moltiplicarsi dei riferimenti alla globalità  ha finito per rendere confuso il significato di questa parola.

Sappiamo di vivere in un mondo che é sempre pi๠globale; ma non sappiamo bene quali siano le conseguenze di questo fatto. O meglio, capita che ciascuno di noi abbia in mente conseguenze diverse e spesso contrastanti.

C’é bisogno dunque di una chiarificazione sui diversi significati che possono essere assegnati al termine ‘globale’. Prima di tutto, in negativo, bisogna dire che ‘globale’ non é un altro modo di dire ‘internazionale’. Tra i due termini va fissata una demarcazione che segna poi anche la discontinuità  che é intervenuta tra due epoche diverse: il fordismo e il post fordismo. L’internazionalizzazione fordista riguardava un gruppo ristretto (una élite) di imprese e investiva una parte specifica di attività , svolta appunto ‘all’estero’ (Grandinetti e Rullani 1994). Erano internazionali le maggiori imprese, il cui gigantismo debordava quasi ‘naturalmente’ dai confini nazionali1, o le imprese collegate al potere transnazionale esercitato dai maggiori stati (in primis gli Stati Uniti, ma anche vecchie potenze coloniali come Gran Bretagna e Francia) (Vaccà  e Rullani 1983). Le altre imprese operavano saldamente ancorate - quanto a produzione, personale, management, capitale azionario e di credito - ai confini nazionali, e praticavano i mercati transnazionali solo per le forniture (materie prime, tecnologie, macchine) e per le vendite (esportazioni).

Accanto all’economia nazionale, addensata intorno ai poteri e nei confini dello stato nazionale, prendeva cosଠcorpo - nel paradigma fordista - una anomala ‘economia internazionale’ caratterizzata da regole e protagonisti distanti dalla sovranità  nazionale e dalle sue linee di confine. Una coesistenza non facile, e che fin dall’inizio aveva determinato problemi di compatibilità  e conflitti tra stati. La natura speciale, anomala, dell’internazionalizzazione in epoca fordista era direttamente discendente dal ruolo guida che lo stato nazionale svolgeva in quel paradigma: l’economia nazionale era infatti il luogo della regolazione sanzionata dalla sovranità  dello stato e da essa ‘garantita’ in vari e sottili modi. L’economia internazionale era invece il luogo dei rapporti che, sfuggendo alla sovranità  nazionale, finivano per porre un problema politico: chi ‘comanda’ sulle multinazionali? Chi garantisce e sanziona le attività  svolte da un’impresa in paesi diversi da quello di appartenenza?

Fino a che si rimane nel paradigma fordista, questo conflitto tra diverse pretese di sovranità  diventa ineludibile. Legittimare le multinazionali sulla base della loro maggiore efficienza o gli scambi internazionali sulla base della reciproca convenienza mercantile non risolve il problema del controllo e dunque del conflitto (Rullani 1973). L’economia internazionale, nelle sue linee di propagazione attraverso i confini viene infatti a definirsi soprattutto per il conflitto verso gli interessi - legittimi o illegittimi - rappresentati dai diversi stati, dal momento che essa contrappone una sovranità  ‘aziendale’ (il potere di pianificazione della grande multinazionale) ad una sovranità  ‘nazionale’ (il potere normativo dello stato sul suo territorio).

L’internazionalizzazione di élite diventa di massa

La globalizzazione di cui si parla oggi, in un’epoca di crisi del fordismo e di prima sperimentazione di relazioni post fordiste, ha un contenuto differente, se non altro perché la barriera frapposta dalla sovranità  nazionale all’azione dei mercati transnazionali é nettamente declinata, insieme al potere ordinatore del paradigma fordista. Da un lato é venuto progressivamente a ridursi il potere di interposizione che gli stati nazionali riescono di fatto ad esercitare nel mercato transnazionale, sia nel campo manifatturiero, sia (per ora inizialmente) in quello dei servizi. Dall’altro, le nuove tecnologie della comunicazione a distanza in real time e lo sviluppo di reti transnazionali hanno reso possibile anche ad imprese di piccola e media dimensione un’azione a tutto campo, non limitata dalla distanza e sempre pi๠estesa ai ‘grandi spazi’ del mercato globale. Il risultato congiunto di questa doppia trasformazione é sotto gli occhi di tutti: l’internazionalizzazione, da fenomeno di élite, si é trasformata in fenomeno di massa, che riguarda tutte le imprese e tutte le attività : essa non si rivolge pi๠ad una parte dell’economia, ma alla sua interezza (Grandinetti e Rullani 1996).

La globalizzazione é dunque, in prima istanza, la prima forma che l’internazionalizzazione assume nell’economia post fordista, in cui le relazioni transnazionali non nascono da differenziali nazionali artificialmente creati o mantenuti dalla sovranità  politica degli stati sui rispettivi territori, ma dall’estensione transnazionale di reti di divisione del lavoro, che usano l’interazione comunicativa e cooperativa per scoprire e mettere in valore le rispettive complementarità .

Nell’ambiente che caratterizza il nascente post fordismo, ciascuna economia nazionale ha acquistato, nel suo insieme, una curvatura transnazionale, situandosi nelle reti mondiali in funzione della sua specificità  culturale e pratica, e avvalendosi sempre meno delle barriere garantite dai confini nazionali (Grandinetti e Rullani 1994). I caratteri distintivi dei nodi che sono compresi in una rete transnazionale, infatti, hanno a che fare pi๠con le caratteristiche locali o personali riguardanti la cultura, le competenze, le capacità  relazionali che con caratteristiche nazionali, in qualche modo riferite allo stato (anche se le differenze fiscali o normative restano importanti). Inoltre, le differenze distintive diventano rilevanti non solo per le imprese, ma anche per i consumatori, per i risparmiatori, per i lavoratori, anch’essi immersi in reti transnazionali.

Tutti i comportamenti economici, di conseguenza, sono sempre parte di un sistema di relazioni che scavalca i confini nazionali, per estendersi ad una complessa geografia multinazionale e multiculturale che attraversa ambiti fiscali e normativi differenti: i consumatori si trovano a confrontarsi con una gamma di offerte di provenienza internazionale, in cui quelle totalmente nazionali o locali cominciano a divenire una minoranza; i risparmiatori vedono opportunità  di investimento in un mercato pi๠vasto; fornitori e clienti si incontrano in rapporti di fornitura che sono, ormai sempre pi๠spesso, a cavallo di pi๠paesi (Grandinetti e Rullani 1996).

Il processo non é senza contraddizioni. La pi๠grave di tutte consiste nel venir meno di quella sintesi keynesiana che finora ha permesso di correggere con metodi abbastanza efficaci la spontanea tendenza dei grandi mercati all’instabilità  e alla deflazione. Se l’economia diventa globale e gli stati rimangono nazionali, le politiche keynesiane di regolazione della domanda non sono pi๠applicabili: i mercati dei beni possono essere distorti da fenomeni di concorrenza sleali (dumping sociale, ambientale, fiscale tra diversi paesi); i mercati dei capitali, rimasti senza controllo, rischiano di essere preda di forze anarchiche tendenti alla speculazione, alla instabilità  e al rialzo di rischio e tasso di interesse di lungo periodo; il mercato del lavoro, perduti i regolatori a scala nazionale, puಠtrovarsi senza alcun luogo di regolazione istituzionale efficace.

Questo spiega le resistenze, talvolta giustificate, che ostacolano il cammino della globalizzazione e le contraddizioni che emergono quando la deregolazione globale dei mercati viene lasciata completamente libera di agire. Tuttavia, dalla globalizzazione non ci si puಠsoltanto difendere, perché - come abbiamo detto - essa é la strada attraverso cui sta emergendo un nuovo modo di produrre e di competere. Proteggersi da essa significa dunque ritardare il contatto dell’economia nazionale con la sperimentazione delle forme post fordiste di produzione e di concorrenza, realizzando alla fine un pessimo affare. Al contrario, occorre accettare fino in fondo la sfida della globalizzazione, essendo consapevoli del fatto che essa puಠessere sostenuta, alla lunga, solo costruendo istituzioni che siano capaci di riprodurre, a scala mondiale o almeno continentale (per noi, a scala europea) un potere regolatore di istituzioni transnazionali sui mercati, in forme nuove, ma non meno efficaci, rispetto alla sintesi keynesiana che ha avuto cosଠtanto successo durante la stagione fordista.

Un diverso modo di produrre e di competere

Non si capisce la globalizzazione se la trasformazione in senso internazionale dei mercati e dei comportamenti non viene associata col suo pendant, l’emergere dell’economia post fordista. Tra le due tendenze c’é una relazione a doppio filo. Da un lato la globalizzazione dà  il colpo di grazia alla declinante organizzazione fordista, perché, depotenziando il potere di intervento degli stati nazionali, mette in moto un processo di deregolazione che é destinato a togliere spazio e credibilità  alla contrattazione, a scala nazionale, tra i diversi interessi corporati. La deregolazione generata dalla globalizzazione diventa il terreno elettivo su cui possono essere sperimentati e diffusi i metodi post fordisti di organizzazione e di produzione, basati sul ricorso massiccio alla flessibilità  produttiva e all’outsourcing di rete. Man mano che l’organizzazione post fordista della produzione si rafforza, il suo effetto é di rafforzare la globalizzazione, perché la logica della flessibilità  e dell’outsourcing richiedono la continua estensione geografica delle reti a monte e a valle su cui la singola impresa si appoggia.

Insomma, la globalizzazione alimenta, con la propria forza, lo sviluppo di un modo post fordista di produrre; e questo, a sua volta, diventa un incentivo per l’ulteriore procedere della globalizzazione nei rapporti economici a monte e a valle di ciascuna impresa.

Fino a che l’impresa si limitava ad esportare un prodotto progettato e costruito entro l’ambiente locale o nazionale, l’internazionalizzazione non incideva pi๠di tanto sul suo modo di lavorare. Ma, nel momento in cui l’internazionalizzazione cambia natura, e diventa accesso allo spazio della globalità , le cose cambiano. Prima di tutto cambia il livello di ‘coinvolgimento’ internazionale dell’impresa: non si tratta pi๠soltanto di vendere all’estero, ma allargare ad una pluralità  di paesi lo spazio di tutte le operazioni aziendali. Ciಠpuಠavvenire direttamente, in alcuni casi (e soprattutto per le imprese di dimensioni maggiori); oppure indirettamente, tramite un collegamento stabile, affidabile, tra l’impresa e una rete transnazionale di fornitori di componenti, tecnologie, progetti, servizi. Tutti i reparti dell’impresa vengono a contatto con l’ambiente internazionale, e non solo le vendite. Tutta la catena del valore si fa transnazionale (Grandinetti e Rullani 1994, 1996). In questo senso, la globalizzazione non é altrove - all’estero, in paesi lontani, in operazioni particolari - ma é qui, nell’ordinaria amministrazione della vita produttiva e anche della vita privata di ciascuno. E’ il vissuto delle singole persone che acquista una dimensione sempre pi๠aperta all’esperienza delle relazioni transnazionali, globali. Col risultato di mutare in profondità  il modo di essere e di funzionare delle imprese. Il primo modo con cui la globalizzazione si manifesta é quello di una discreta ma generale pressione competitiva che si esercita a tutti i livelli della catena del valore: allargandosi il campo delle scelte e mettendo a frutto le diversità , in ciascun segmento scendono prezzi, ancorandosi ai costi del concorrente globalmente migliore, e vengono dunque ‘limati’ i margini di profitto a cui le aziende erano abituate sui rispettivi mercati nazionale e locali.

Non si tratta forse dell’iper competizione di cui si sente parlare - una competizione senza freni e senza regole - ma di qualcosa di progressivo, di permanente, che opera giorno per giorno comprimendo i margini disponibili per i prodotti già  esistenti.

Come rispondere? La prima reazione, la pi๠immediata, é quella di recuperare i margini tagliando in qualche modo i costi. E’ una risposta sensata, ma spesso insufficiente e talvolta addirittura sbagliata. Ad esempio, puಠportare a situazioni controproducenti se si cerca di ridurre i costi recuperando tecniche di ispirazione fordista (riduzione della varietà  e della variabilità ) che aumentano la rigidità  dell’impresa rispetto ai cambiamenti possibili. Oppure se la riduzione dei costi é ottenuta eliminando quegli elementi di ridondanza che servono all’impresa per preparare il suo futuro: spese in sperimentazioni, ricerche, sistemi di relazione, formazione del personale.

Modernizzare l’azienda va bene, ma solo se la riduzione dei costi non riduce la varietà  e la variabilità  disponibile per rispondere ad un mercato divenuto imprevedibile e complesso. Per mantenere o accrescere l’attuale livello di flessibilità , senza far aumentare i costi, servono soluzioni innovative, adatte al nuovo scenario globale. Quali?

Ripensare la geografia delle reti e le loro modalità  di funzionamento

Un primo passaggio importante é il ridisegno delle reti di fornitura e di distribuzione per utilizzare a pieno i vantaggi della globalizzazione. Si tratta, in poche parole, di passare da reti brevi, costruite sulla base di contatti diretti o sull’appartenenza allo stesso ambiente, a reti lunghe, in cui i contatti diretti sono necessariamente limitati dalla distanza e in cui gli ambienti di appartenenza sono diversi.

Le strutture della subfornitura, ad esempio, non possono rimanere le stesse in una economia globale dove esistono fortissime differenze nel costo del lavoro e dotazioni differenziate in termini di competenze, infrastrutture, fattori territoriali (Bonomi 1997, Becattini 1997). Le imprese non potranno pi๠identificarsi con un unico territorio (quello di origine), considerando gli altri ‘esterni’, perché dovranno invece adattarsi ad operare in una pluralità  di luoghi, seguendo le convenienze economiche e dunque le diversità  dei costi e delle dotazioni fattoriali. Alcune fasi delle attuali catene di subfornitura sono destinate ad essere delocalizzate; altre no, e possono anzi trarre vantaggio dalla delocalizzazione delle prime. I distretti industriali, architrave dell’economia manifatturiera italiana, non potranno continuare ad essere sistemi chiusi, proiettati sull’estero soltanto dal lato delle vendite. Dovranno giocoforza divenire transnazionali anche nelle attività  che stanno a monte della catena del valore, seguendo le linee di un intreccio transnazionale tra diverse località  di cui si vedono i primi passi.

Perché le imprese possano riorganizzare le loro attività  su base transnazionale occorre che imparino in fretta a padroneggiare la distanza, comprimendola in due modi:

a) costruendo, con modalità  appropriate, modalità  di interazione tra i vari punti della propria rete che permettano di comunicare informazioni e di cooperare nelle decisioni operative in real time;

b) velocizzando le risposte di ciascun punto alle sollecitazioni provenienti dagli altri.

Una rete globale diventa governabile se le decisioni vengono prese interattivamente e se le informazioni sono accessibili in modo ubiquitario (da tutti i punti). In questo senso un ruolo strategico é giocato dalle tecnologie della comunicazione e dalla logistica.

Già  oggi il ciclo degli ordini (dal cliente all’impresa, dall’impresa alla catena di fornitura) é quasi sempre gestito telematicamente: lo sviluppo di Internet che banalizza il trasferimento dei dati a grandi distanze costituisce la garanzia che, anche per le piccole imprese, traguardi importanti potranno essere raggiunti in poco tempo. Tuttavia, su questo versante, rimangono importanti strozzature che andrebbero affrontate fin da ora (e non solo dalle imprese):

- le comunicazioni telematiche e l’automazione industriale hanno finora riguardato informazioni e conoscenze strettamente codificate, governabili autonomamente dalle macchine e dai computer. La sfida che la globalizzazione ci propone é quella di realizzare forme di comunicazione e interazione a distanza (tra uomo e uomo, tra uomo e macchina, tra macchina e macchina) che possano operare anche in presenza di conoscenze, situazioni, processi non codificati in anticipo o codificati solo per certi aspetti. Solo in questo modo, l’interazione a distanza potrà  essere ‘simile’ - anche se mai del tutto uguale - a quella realizzata tramite contatto diretto. Solo in questo modo questa modalità  di organizzare il lavoro potrà  coinvolgere problemi innovativi, non banalizzati in anticipo, e piccole imprese che sono abituate a lavorare in modo altamente informale. Si tratta di una sfida anche tecnologica, che rimette oggi al centro dell’attenzione gli utenti delle tecnologie dell’informazione e i loro bisogni (di informalità , di flessibilità , di sicurezza, ecc.), inducendo l’offerta di queste tecnologie ad essere meno autoreferenziale che in passato;

- la rete globale ha bisogno di sorreggere la sua interattività  con una logistica organizzata in modo corrispondente. Non si tratta cioé di spostare a basso costo grandi volumi che fanno lo stesso percorso, ma di muovere con modalità  rapide e sicure molti piccoli lotti che partono da luoghi differenziati e arrivano a destinazioni ugualmente differenziate. La logistica post fordista non si caratterizza solo per le lunghe distanze da percorrere (reti globali), ma per il suo essere al servizio del just in time internazionale, in un sistema produttivo in cui il ricorso all’outsourcing diventa il modo normale di rispondere ad una domanda sempre pi๠variabile e personalizzata. Occorre una rivoluzione logistica che punti verso l’informatizzazione, l’intermodalità , la costruzione di reti composte da diversi operatori, in modo da offrire un servizio che sia allo stesso tempo capillare e globale. E’ una rivoluzione da cui siamo ancora lontani, e che, soprattutto, le imprese non possono fare da sole;

- per velocizzare le risposte al mercato, occorre intervenire drasticamente sul lead time, riducendo la dimensione dei lotti, usando macchine polivalenti, appiattendo i livelli dell’organizzazione, in modo da poter lavorare non pi๠con modalità  push (produzione ‘spinta’ da un programma di lavorazione per magazzino, deciso in base a previsioni), ma in modalità  pull (produzione ‘trainata’ dalla domanda di mercato, man mano che questa si manifesta). Bisogna inoltre ricorrere ad una rete affidabile di outsourcing (lavorazioni, componenti, prodotti finiti) e organizzare linee parallele di progettazione e produzione, in modo da ridurre i tempi e guadagnare in flessibilità .

Si tratta di trasformazioni che possono essere completate solo nel lungo termine, ma che occorre cominciare a sperimentare fin da ora.

Specialmente se devono essere intraprese da imprese di piccola dimensione, prive per ora di un terziario interno di qualche consistenza.

Usare la diversità  come risorsa

Nella rete, ciascun nodo comunica e coopera con una pluralità  di altri nodi, facendo in questo modo esperienza di molti luoghi, dotati di storia e cultura diversa.

Non é per niente facile dominare e dirigere la diversità  che l’impresa incontra nei vari ambienti che pratica. Per gestire attività  produttive (proprie o altrui) situate in pi๠paesi, per raccogliere e investire capitali in modo transnazionale, per utilizzare lavoro proveniente da altri paesi o ivi residente, per utilizzare società  costituite in ambiti giuridici e fiscali diversi bisogna apprendere rapidamente le norme, le consuetudini, i canali di comunicazione e i linguaggi che sono propri di ciascun luogo.

Non si tratta solo di acquisire abilità  tecniche o linguistiche, anche se inizialmente questo é il deficit che viene maggiormente avvertito. Si tratta di fare molto di pià¹.

In primo luogo, é necessario procedere a grandi passi verso un decentramento strategico che permetta alle nuove unità  costituite all’estero di operare in modo autonomo, capace di rispondere in modo appropriato sia ai problemi che alle opportunità  incontrate sul singolo mercato. Inoltre, l’impresa si trova, in ciascun punto della sua rete operativa transnazionale a dover integrare persone e culture diverse: e questa integrazione é possibile solo se tutti i dipendenti - dal vertice alle mansioni operative - acquisiscono una apertura culturale che renda possibile la comprensione interculturale, in modo da poter mutare le diversità  in ragioni che spingono verso la complementarità  e non verso il conflitto. L’impresa, grande o piccola, é destinata in questo senso a diventare multiculturale (Vaccà  1996) e ad avere esperienza delle relazioni multietniche anche a prescindere dal fenomeno dell’immigrazione, che é solo una delle vie attraverso cui l’impresa accede alla diversità  transnazionale.

In questa relazione non si tratta solo di rispettare ed utilizzare le diversità  altrui, ma anche di coltivare e mettere in valore la propria diversità . E’ indubbio infatti che uno dei problemi chiave posti dalla nuova economia globale alle imprese, ai sistemi locali e ai paesi é quello della riproduzione della propria identità  in un mondo che, proiettandosi continuamente verso l’esterno, é sottoposto ad una forte pressione evolutiva. Le imprese, i sistemi locali, i paesi devono insomma cambiare mantenendo la propria identità , e facendone il perno della loro originalità  competitiva.

La questione appare di importanza cruciale se si tiene conto del fatto che il ‘capitalismo molecolare’ - come é stato chiamato - ha bisogno di mettere ‘la società  al lavoro’ (Bonomi 1997), integrando cambiamenti economici e cambiamenti sociali (Brusco 1982, 1993). In molti distretti industriali italiani, ad esempio, il tessuto sociale che é stato ‘messo al lavoro’ ha preso forma nel corso di una esperienza durata decine di anni e qualche volta secoli, avvalendosi di sedimentazioni culturali e professionali lentamente prodotte, diffuse e conservate. Ora si tratta di fare tutto in fretta, muovendosi con i ritmi accelerati della propagazione globale.

Investire in conoscenza

La ricostruzione evolutiva della società  al lavoro si manifesta attraverso l’ultimo passaggio, il pi๠importante di tutti: quello che riguarda il conoscere, le capacità  sociali di sperimentare ed apprendere. L’economia delle reti globali non é solo un sistema pi๠competitivo, pi๠veloce, pi๠differenziato e interattivo; é anche un sistema che innova nelle modalità  di apprendere, dando vita a inedite forme di divisione del lavoro cognitivo. Cambiano in altre parole le modalità  di produzione, scambio e uso delle conoscenze (Rullani 1993). Innanzitutto, l’economia globale, incentiva in modo determinante la specializzazione delle competenze e dei ruoli. Non solo perché, nelle reti, é possibile ricorrere ai servizi esterni senza eccessive difficoltà . Ma anche per ragioni propriamente cognitive. Essa infatti:

- aumenta il rischio dell’investimento in conoscenza, perché, accrescendo il numero dei concorrenti e le loro diversità , destabilizza le posizioni acquisite sui mercati in cui le competenze vengono utilizzate;

- moltiplica il valore delle conoscenze di successo, perché offre loro un mercato molto ampio di potenziali acquirenti.

Le due condizioni sopra richiamate rendono conveniente:

- la focalizzazione di ciascuna impresa su una core competence molto specialistica;

- il ricorso all’outsourcing di rete per tutte le altre conoscenze di cui si manifesta la necessità , in rapporto alla domanda da servire;

- l’estensione massima possibile del bacino di vendita della competenza o del servizio offerto.

La rete di fornitura a monte e di distribuzione/assistenza clienti a valle, é dunque anche una rete cognitiva, che integra le competenze specialistiche di diversi produttori. Questi produttori usano la comunicazione e i contratti tipici della rete per governare la loro interdipendenza, in modo da rendere i rapporti affidabili e proficui (Benedetti e Di Bernardo 1997). Costruire reti non é tuttavia una attività  facile e scontata. Essa richiede, al contrario, investimenti che vanno a vantaggio di una collettività  (le imprese appartenenti alla rete): qual é il ritorno di tali investimenti, e in che modo possono essere incentivati? Si pensi ad esempio ai massicci investimenti in formazione che sarebbero oggi necessari per alimentare la necessaria evoluzione degli attuali distretti industriali. Se le imprese di un distretto spendono per formare nuove professionalità , l’esito pi๠probabile é che i nuovi professionisti finiscano per essere delle ‘economie esterne’ a vantaggio dei concorrenti già  esistenti o di nuovi entranti. Lo stesso vale per la ricerca. In tutte le situazioni di interazione troppo stretta, la conoscenza tende ad essere un bene collettivo (della rete) ed é difficilmente ascrivibile alla proprietà  della singola impresa. Ma se questo é vero, solo chi é in grado di fare e di trarre vantaggio da investimenti di natura collettiva puಠavere incentivo a produrre nuove conoscenze e nuove professionalità . Le grandi imprese, che pensano di usare la catena della subfornitura ai propri fini, mantenendovi una posizione dominante, hanno sicuramente convenienza a costruire reti che possano fornire vantaggi competitivi ad una miriade di piccoli fornitori di lavorazioni, componenti, servizi. Ma la convenienza é meno calcolabile, meno sicura, quando manca un’impresa in posizione dominante. In questi casi, le singole imprese possono essere scoraggiate a muoversi nella direzione di una organizzazione a rete perché temono di essere imitate, alimentando la crescita di concorrenti nel loro stesso mercato o di utilizzatori opportunistici del loro sapere e della loro reputazione. C’é, in questo campo, materia per una coraggiosa innovazione istituzionale che riconosca le reti della divisione cognitiva del valore come le unità  economiche di base della produzione del valore. E c’é anche pi๠di una ragione per sviluppare iniziative pubbliche o miste (pubblico-privato) che possano fornire alle imprese servizi capaci di facilitare la connessione e la comunicazione in rete. Partiamo da una esigenza di fondo: tutte le attuali reti di intermediazione (banca, commercio, assicurazioni, servizi vari) stanno per saltare, assediate come sono da diversi fattori di cambiamento. Da un lato, produttori e consumatori richiedono e possono realizzare un rapporto di interazione diretta, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione a distanza in tempo reale. Dall’altro, le reti in essere sono basate su principi obsoleti: il presidio del territorio con punti di vendita diretti, la natura proprietaria delle reti installate, la scarsa presenza di relazioni transnazionali. L’indebolimento delle attuali reti che stanno a monte e a valle della singola impresa promette di creare un vuoto, che non puಠessere riempito - se non in minima parte - da relazioni one-to-one, prive di intermediari. In realtà , una buona divisione del lavoro cognitivo richiede la presenza di intermediari che facilitino la comunicazione, garantiscano la sua sicurezza e affidabilità , offrano la copertura logistica necessaria a basso costo. Si tratta di funzioni che una politica industriale attenta alle reti e alle loro necessità  potrebbe incentivare, facilitando la formazione di quel capitale collettivo che oggi é carente soprattutto per le piccole imprese indipendenti.

Una via italiana?

Le esigenze cui occorre far fronte, quando si parte da una situazione caratterizzata da piccole imprese e da iniziative diffuse sul territorio, sono diverse da quelle che sono messe alla prova nelle grandi imprese e nelle grandi concentrazioni metropolitane. Pur volendo andare verso lo stesso traguardo - la rete post fordista - diverse risultano le strade da percorrere e le risorse che possono essere mobilitate allo scopo.

Negli altri paesi, il fordismo realizzato ha fornito una ottima base di relazioni, anche internazionali, che oggi - nella transizione al post fordismo - deve essere corretta, decentrando intelligenza e potere alle unità  periferiche. In Italia, invece, il fordismo é rimasto immaturo, lasciandoci in eredità  una base di relazioni ristretta e assai poco formalizzata; in compenso, proprio la mancata affermazione delle soluzioni fordiste ha favorito, nel tempo, la formazione di una società  policentrica e diffusa, con un ricco decentramento dell’intelligenza e del potere, almeno in molti settori (Rullani 1997).

Altrove, la transizione al post fordismo si traduce in una strategia di decentramento; da noi, invece, la transizione richiede la costruzione di un sistema relazionale esteso e formale, che tuttora manca. Si tratta dunque di investire nella costruzione di reti, nella formalizzazione dei processi, nella formazione del personale e nella ricerca. Cosଠfacendo, anche il nostro post fordismo sarà  differente da quello realizzato in altri paesi, pur essendo i modelli di arrivo convergenti: ma questa differenza non deve spaventare. Accettando la propria diversità , il nostro paese puಠcollocarsi come gli altri sulla frontiera dell’innovazione, contando sul fatto che la nostra sperimentazione - nella sua peculiarità  - abbia qualcosa di importante da dire e da fare.

NOTE:

Becattini G. (1997), "Prato nel mondo che cambia (1954-1993)",
in Prato: storia di una città , Le Monnier, Firenze, volume quarto;

Benedetti E., Di Bernardo B. (1997), "Reti: un nuovo paradigma?",
in: Benedetti E., Mistri M., Solari S., Teorie evolutive e trasformazioni economiche, Cedam, Padova;

Bonomi A. (1997), Il capitalismo molecolare. La società  al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino;

Brusco S. (1982), "The Emilian model: productive disintegration and social integration",
Cambridge Journal of Economics 6, 2, pp.167-184;

Brusco S. (1993), "Il modello emiliano rivisita il distretto. Regione e industria",
Politica ed Economia, nuova serie 1, luglio;

Grandinetti R., Rullani E. (1994), "Sunk internationalization: small firms and global knowledge",
Revue d’Economie Industrielle 67, 1¼ Trimestre, pp. 238-254;

Grandinetti R., Rullani E. (1996), Impresa transnazionale ed economia globale, NIS, La Nuova Italia Scientifica, Roma;

Rullani E. (1973), Lo sviluppo multinazionale delle imprese industriali, Milano, Etas Kompass;

Rullani E. (1993), "Networks and internationalization: Managing complexity through knowledge",
in: Zan A., Zambon S., Pettigrew A.M. (eds), Perspectives on Strategic Change, Kluwer, Dordrecht;

Rullani E. (1997), "L’evoluzione dei distretti industriali: un percorso di decostruzione e internazionalizzazione"
in: Varaldo R., Ferrucci L. (a cura di), Il distretto industriale tra logiche di impresa e logiche di sistema, Angeli, Milano;

Vaccà  S., Rullani E. (1983), "Oltre il modello classico di impresa multinazionale",
Finanza, Marketing e Produzione 2;

Vaccà  S. (1996), "L’internazionalizzazione del capitalismo occidentale e lo sviluppo delle economie emergenti dell’Estremo Oriente",
Economia e Politica Industriale, n. 91, settembre.



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