Ripensando Taylor
e Ford

Patrizio Di Nicola

 

1. PREMESSA

Parlare, di questi tempi, di taylorismo e di fordismo potrebbe sembrare a prima vista un'operazione di archeologia sociolavorista.

Le società avanzate si trovano in una fase del proprio sviluppo economico che è stata definita, a secondo dei commentatori, "post industriale", "terziaria", "neo industriale dei servizi".

Tutto ciò, pur con alcune cautele, risponde al vero. La produzione industriale, da attività "labour intensive" è divenuta, grazie alla rivoluzione microelettronica ed alla progressiva sostituzione del lavoro umano con i robot, "machine intensive". Le figure che sempre più spesso si incontrano nelle linee di assemblaggio delle fabbriche hanno cambiato mansione: da operai massa si sono tramutati in "conduttori di macchine" e "manutentori". Ognuno di essi, come avvenne anche all'inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra allorquando vennero introdotti i telai meccanici per la tessitura, controlla più strumenti; spesso interagisce con essi tramite sofisticatissime reti di computers di processo.

In un sub sistema che perdendo la sua struttura a "castello" ne inaugura una, nuova, "a rete" (Butera, 1990), il concetto stesso della rilevazione individuale della produttività, dogma centrale e fondamento scientifico del taylorismo, tende a divenire obsoleto. In tempi di Total Quality Management il lavoro conta per la "qualità" che contiene, per l'armonia con cui si pone all'interno di un progetto globale dell'azienda. Dal taylorismo si trasla verso il toyotismo.

A ciò si affianca l'enorme importanza che assumono altri ambiti, esterni al primario ed al secondario. Seguendo le regole profetizzate da Clark (1940), il terziario ha rapidamente guadagnato la supremazia occupazionale sugli altri settori. Per padroneggiarlo meglio, gli studiosi di fenomeni sociali ed economici hanno dovuto segmentarlo: il terziario pubblico e quello privato, quello avanzato e quello tradizionale. La divisione ha poi toccato, come logico, la destinazione finale del prodotto. Ecco così che parliamo di servizi alla produzione, di rete, alle persone. Ad alcuni sono state attribuite valenze tutte positive, agli altri tutte negative, residuali.

Ma ragioniamo del lavoro. Su questo fronte la terziarizzazione ha inciso profondamente. Nuove professioni sono nate, altre sono scomparse; la gran parte si sono modificate. A volte in meglio, altre in peggio. L'office automation, ad esempio, ha creato poche figure ad alta specializzazione (il progettista di reti, il database administrator) mentre ha, di fatto, standardizzato il lavoro di milioni di impiegati molto più di quanto sia mai riuscito al vecchio Henry Ford. Calcolare un bilancio non è più una operazione di raffinata ragioneria: è sufficiente che, nel corso del tempo, il data entry sia stato fatto nel modo corretto ed il programma non abbia "bugs" per ottenere il risultato in pochi secondi.

Ma questo veramente libera l'uomo dalla parte più spiacevole del lavoro, come pensavano gli utopisti settecenteschi ?

A quali altre attività "creative" (almeno nell'ambito del proprio posto di lavoro) potrà dedicarsi il lavoratore "liberato" dalla schiavitù del lavoro ripetitivo? E siamo proprio certi che il lavoro negli uffici e nelle fabbriche informatizzate sia realmente molto più libero di "prima" ?

Ci permettiamo di dubitarne. O almeno di rigettare una assunzione, totalizzante, di benessere e soddisfazione generalizzata. Siamo assai lontani dalla "Città del Sole" vagheggiata da Tommaso Campanella. Una recente ricerca condotta sulla Fiat (Silveri e Pessa, 1990) ci fa notare che, nonostante l'automazione, ancora oggi il tempo medio di ciclo (l'indicatore privilegiato per la valutazione della varietà di un job) rimane della durata di pochi minuti. Non dissimile è la situazione in gran parte delle fabbriche automobilistiche europee. Certo, la parcellizzazione si è ridotta, ma è veramente scomparsa ?

Questa che viviamo è l'epoca terziaria. Gli operai e gli impiegati di fabbrica sono una minoranza della popolazione lavoratrice. E' tempo di managers, di nuovi professionisti, di lavori avanzati ed emergenti. Ma è anche tempo di lavori atipici, dequalificati, di inoccupazione, di persone che hanno con il proprio lavoro un rapporto "estraneo", che inseguono il miglioramento tra i lavori anzichè nel lavoro (Accornero, 1990). Non che ciò sia negativo, tutt'altro. Ma accanto ad un manager (od ad un aspirante emergente) vi è sempre più spesso l'ombra di una collaboratrice familiare. Nuove professioni che generano lavori antichi, ai più bassi gradini della considerazione sociale.

Tutto ciò rende attuale una rilettura del taylorismo e della sua applicazione pratica, il fordismo. Teoria che, non dimentichiamolo, fu alla base dell'industria moderna e della produzione di massa. Originata dall'esigenza di produrre in serie milioni di pezzi uguali utilizzando macchine così poco sofisticate da necessitare di operatori umani. I quali dovevano divenire parti di quelle macchine, correggerne la rozzezza. Ma anche una teoria che, al contempo, serviva ad affermare l'importanza socio-politica di una nuova classe di tecnici ed esperti, i moderni ingegneri industriali, che si candidavano al ruolo di managers. Ed ha creato una frattura storica tra lavoro e controllo della propria mansione, che sembra in parte essersi tramandata anche agli attuali lavoratori post-industriali. Siano essi impiegati che operai, industriali che terziari.

Un tempo il lavoro è stato parcellizzato ai fini della massima produttività. Ora viene ricomposto (almeno parzialmente), per ottenere il coinvolgimento del lavoratore nella qualità dell'output, sia esso un bene che un servizio. Ma l'autonomia del lavoratore sottoposto al controllo del processo produttivo rimane bassa e si esprime per lo più in forme collettive anzichè individuali.

E', per dirla con Accornero, "l'evoluzione dell'industria al di là dell'industria stessa" (1988, pag. 208).

2. I FONDAMENTI DEL TAYLORISMO

L'opera più "compiuta" di Taylor, quella in cui esprimeva in modo diretto il suo pensiero fu presentata giusto ottanta anni fa, durante la conferenza dell'American Society of Mechanical Engineering del 1911. Si tratta di The Principles of Scientific Management. ([1]) In tale "papers" Taylor individuava lucidamente il punto debole dell'industria americana del primo 900: non le macchine, tecnicamente idonee al lavoro in serie, ma il lavoro e la sua organizzazione. I capitalisti dell'epoca, infatti, conoscevano ben poco i limiti produttivi del proprio stabilimento. La produzione era, di fatto, affidata a pochi operai specializzati, i quali, contrattata la tariffa di cottimo, spesso assumevano direttamente i propri aiutanti e stavano ben attenti a che nessuno superasse la produzione stabilita all'interno del gruppo (Montgomery, 1980). Cosa, questa, che avrebbe invariabilmente portato al "taglio del cottimo". Contro queste due pratiche antagoniste si scagliava Taylor: sia lo "speed up" che il "soldiering" ([2]) erano a suo avviso retaggi del passato, a-storici ed a-scientifici.

Il sistema propugnato da Taylor affrontava invece la produzione da una angolazione diversa, manageriale. E al contempo fortemente anti-operaia. La sapienza della mansione lavorativa andava sottratta ai lavoratori, tutte le conoscenze circa il lavoro andavano accentrate nella direzione d'officina. Era qui che si doveva stabilire la velocità ottimale delle macchine e degli uomini, la procedura migliore per compiere un lavoro (la one best way), il flusso informativo, e tutti gli altri particolari della produzione, anche i più minuti. La direzione diveniva così il fulcro della fabbrica, intorno cui ruotava tutto, il cuore scientifico che avrebbe garantito ai capitalisti la massima produzione. Ma tali conoscenze andavano sottratte a chi ne sapeva di più: in quel momento erano gli operai. Per ottenere la loro collaborazione Taylor studiò un sistema di cottimo (definito "differenziale") ben diverso da quelli in vigore all'epoca. Basato su compensi e penalizzazioni "a gradini", legati al raggiungimento di determinati obiettivi, il cottimo differenziale avrebbe permesso ai migliori (gli uomini di prim'ordine, come li definiva Taylor) di migliorare i loro guadagni ([3]). Per contro, avrebbe portato all'espulsione di coloro che non si piegavano alla razionalizzazione.

Sin qui, con estrema concisione, la teoria, la parte più nota del taylorismo ([4]). La pratica era invece molto diversa. Anzitutto lo Scientific Management era applicato in pochissime aziende, che furono disponibili a fare da cavia. E creava moltissimi problemi, sia tra i dirigenti che tra gli operai. I primi, infatti, non vedevano di buon occhio il lavoro dei consulenti che li privava di una discreta fetta di potere; i secondi avversavano apertamente lo studio dei tempi, che ritenevano poco dignitoso: "Questo fatto di avere un tale che ti sta dietro le spalle e ti segna tutte le operazioni che tu vai facendo, questa è una cosa che noi respingiamo nel modo più assoluto." ([5]) Nonchè assai pericoloso, in quanto ledeva alla radice la base del potere dell'operaio professionalizzato: l'esclusività della conoscenza delle mansioni che si svolgevano in fabbrica ([6]).

Anche il cottimo "differenziale" fu uno strumento che, sebbene più scientifico nei presupposti che nell'applicazione, difficilmente fu introdotto nelle fabbriche "taylorizzate". Un pò perchè Taylor predicava che esso non andava imposto fin dall'inizio, ma soltanto dopo un accurato studio dei tempi di tutte la attività che si svolgevano in fabbrica e comunque su base individuale. ([7]) Soprattutto in quanto, non appena si tentava di applicarlo su larga scala, iniziavano gli scioperi ed i sabotaggi.

Così lo Scientific Management "vivacchiava"; le uniche parti largamente conosciute erano quelle legate agli studi di Taylor sul taglio dei metalli, sugli acciai "rapidi" e sulla manutenzione delle cinghie dei torni. Espedienti che, da soli, permettevano di incrementare senza tanti problemi la produttività delle macchine utensili esistenti negli stabilimenti.

3. OLTRE TAYLOR: IL FORDISMO

Il compito di superare i limiti del taylorismo se lo assunse un capitalista innovatore, dotato di una "pionieristica audacia del profitto" (Accornero, 1969, pag. 112): Henry Ford. Convinto che era finita l'era di considerare l'auto un bene di lusso, prodotto in pochi e costosissimi esemplari, Ford decise di lanciare sul mercato, nel 1908, una vettura per la gran massa, robusta e sicura, con un prezzo "così basso che ogni lavoratore ben salariato sarà nella possibilità di averne una" (Ford, 1928, pag. 87). Naturalmente il "Model T" fu un successo senza precedenti: in tre anni ne furono vendute oltre 36.000. Ciò portò con sè la necessità di riorganizzare la fabbrica. Il vecchio sistema, secondo cui la scocca della vettura era ferma e gli operai vi giravano intorno, montando i pezzi, creava nell'officina una confusione indescrivibile, con gruppi di operai che correvano di qua e di là alla ricerca del materiale giusto, dell'arnese adatto. Era giunto il momento di portare il lavoro agli operai e non viceversa.

Così, nel 1913, Ford ed i suoi ingegneri (nessuno dei quali, per inciso, era allievo di Taylor) svilupparono un sistema di trasporto simile a quello che era in funzione, anni prima, al mattatoio di Chicago. Gli chassis venivano attaccati ad una catena, lungo la quale si muovevano; il montaggio, diviso in 45 operazioni, veniva effettuato in altrettante "stazioni" ove l'autovettura si fermava per il tempo strettamente necessario. In più, ovunque fosse possibile e conveniente, le macchine andavano a sostituire gli operai specializzati.

In questo modo si superavano i limiti dello Scientific Management: il capitalista, nell'opera di riorganizzazione della fabbrica, non dipende dalla "sapienza" operaia e le norme standard per il massimo rendimento venivano imposte collettivamente alle maestranze. (Accornero, 1969). Nel metodo fordista, poi, non vi era necessità di raffinati cottimi: la produttività dipendeva soltanto dalla velocità del nastro trasportatore. Certo, per legare l'operaio alla catena era necessario offrire alte paghe in quanto, come ha arguito Antonio Gramsci, la Ford richiedeva un consumo di forza lavoro assai maggiore che non altrove. (Gramsci, 1975). Ma il "turn over" non era un problema, perchè la catena permetteva l'impiego di lavoratori privi di ogni esperienza di fabbrica. Anzi, come affermava un dirigente della compagnia, erano proprio questi i lavoratori che la Ford preferiva. (Arnod e Faurote, 1915).

La nuova era industriale che si apriva, caratterizzata dalla produzione di massa (ed accellerata dallo scoppio della prima guerra mondiale), si affermava dunque, come era logico prevedere, sulle ceneri di quella autonomia dell'operaio di mestiere che aveva caratterizzato, con alti e bassi, tutto l'Ottocento.

4. MESTIERI ED ABILITA' INTERSTIZIALI

Il taylorismo e, ancor di più il fordismo, hanno dunque distrutto il mestiere operaio, come afferma Braverman (1978)?

Ci sembra assai improbabile. E ciò sia considerando la ridottissima consistenza dei lavoratori "di mestiere" nel corso del'Ottocento (Hobsbawn, 1972) che l'origine della classe operaia americana, costituita per la maggior parte di immigrati provenienti dalle regioni europee più sottosviluppate (Montgomery, 1980). Questi uomini non possedevano, nella maggioranza dei casi, alcuna esperienza di lavoro industriale; la loro introduzione nelle fabbriche fu resa possibile dall'altro grado di macchinizzazione che, già all'epoca, caratterizzava le manifatture d'oltreoceano. Agli operai comuni e semispecializzati l'addestramento principale veniva impartito proprio dalle macchine. I cicli meccanici, già rigidi fin dalla seconda metà del secolo, plasmavano, con il loro svolgersi, le mansioni di chi vi era addetto. Il fatto che l'operaio fosse capace nella sua mansione non significava certo che possedesse l'arte meccanica o quella della tessitura, ma soltanto che, adoperando le sue conoscenze, anche ridotte, riusciva, in assenza di norme lavorative precise, ad autoregolarsi.

Ciononostante il fordismo ha effettivamente aumentato (e di parecchio) la pena nel lavoro industriale. Solo che questo non è accaduto a causa di una ipotetica distruzione del mestiere, che aveva già iniziato a disgregarsi con l'emergere della produzione di massa e con l'utilizzo di macchine utensili sempre più perfette, veloci e precise, molto superiori al più bravo degli artigiani. La "disumanizzazione" del lavoro è passata attraverso la negazione non delle capacità professionali, ma di quelle interstiziali ([8]), che nessuno, fino a Taylor e Ford, aveva mai pensato seriamente di mettere in discussione. La macchina, di fatto, imponeva all'operaio la mansione; ma il gesto, il modo di muovere gli arti, la modalità di svolgimento del lavoro, erano lasciati all'arbitrio del lavoratore. Con la direzione scientifica, viceversa, il lavoro perdeva parte della sua fisicità; la negazione del controllo operaio in fabbrica si incentrava sulla standardizzazione dei movimenti e l'oggetto di studio diveniva la mansione anzichè il mestiere. I prodotti di serie, sempre uguali a sè stessi, per esistere richiedevano macchine specializzate ed operatori altrettanto specializzati. Specializzati nel compiere sempre lo stesso movimento. Cioè parcellizzati.

5. CENNI CONCLUSIVI

Quella di Taylor, senza Ford, sarebbe probabilmente rimasta una teoria inapplicabile. Il lavoratore non si sarebbe fatto meccanizzare di sua spontanea volontà, come sperava il fondatore dello Scientific Management. Abbandonare i propri sistemi di lavoro, espropriarsi dei propri movimenti, è troppo duro perchè l'operaio lo accetti, anche in cambio degli alti salari promessi. Ma se contemporaneamente si impone un metodo tecnico di produzione che impone il ritmo, allora la teoria diviene realtà. Per rispettare lo standard produttivo deciso negli uffici della fabbrica l'operaio deve compiere solo ed unicamente quei gesti prefissati e non derogare assolutamente dal tempo standard. Lo scorrere della catena non permette all'operaio il "lusso" di decidere come muovere gli arti. Per "stare nel tempo" esiste un solo metodo. E quello va seguito; chi non si adegua in poche ore o, al massimo, in pochi giorni, non è adatto al lavoro industriale.

Ma il taylor-fordismo conteneva in sè anche alcuni limiti che in breve tempo sarebbero divenuti evidenti. Anzitutto il germe dell'estraneazione del lavoro e dal lavoro. Per l'operaio parcellizzato, a cui la fabbrica nega la possibilità di svolgere un lavoro, anche ripetitivo, secondo il suo individuale ciclo vitale, la sicurezza economica e la poca fatica divengono valori. Quando il lavoro diviene troppo penoso rispetto al compenso che se ne ricava, il lavoratore (se le condizioni del mercato del lavoro lo permettono) se ne va, alla ricerca di un altro impiego più vantaggioso. Questo atteggiamento, definito disaffection ([9]), è lo scotto che la razionalizzazione ha dovuto subire. L'astrazione del lavoro diviene così l'ostacolo stesso, intrinseco, all'aumento indiscriminato della produzione.

Una seconda limitazione del fordismo, viceversa, veniva "dall'esterno", dagli operai. Quando la catena di montaggio, simbolo della nuova esigenza di produrre (e guadagnare) in massa, divenne parte integrante di ogni medio-grande fabbrica statunitense, anche i modi di opporsi alla razionalità capitalistica cambiarono. L'operaio "senza abilità", non più subordinato al lavoro degli specializzati ed ai contratti d'appalto, mutuò delle forme individuali di resistenza ai ritmi imposti dal nastro completamente nuove, efficaci anche senza l'appoggio dei tradizionali sindacati di mestiere ([10]) (Brecher, 1976). E permise la diffusione, almeno per un breve lasso di tempo, di una organizzazione di rappresentanza di classe dei lavoratori americani, la IWW (Dubofsky, 1969).

Così la nuova organizzazione di fabbrica mutò, per alcuni versi, le modalità degli scioperi di massa e diede, sorprendentemente (almeno per gli "scienziati della direzione") all'operaio alla catena un'altissimo potere anti-produttivo. Che mai, prima di allora, aveva posseduto.

Un ultimo, e forse il più importante limite del taylor-fordismo, è possibile vederlo chiaramente soltanto oggi, nel momento in cui, faticosamente, esso esce di scena. Quella di spostare tutte le conoscenze dagli operai ai managers era soltanto una pia illusione: il ciclo produttivo può adeguarsi e migliorare (in qualità, ma anche in quantità) soltanto se escono dall'ombra "le conoscenze informali e i saperi concreti dei lavoratori" (Ambrosini, 1990, pag. 77). Conoscenze che la catena di montaggio può comprimere, ma non eliminare completamente; e che vengono sfruttate, sotterraneamente, dall'operaio quale "ultima spiaggia" per alleviare la fatica o per guadagnare pochi istanti di libertà dalla propria mansione.

BIBLIOGRAFIA

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Accornero A. (1988), "Lavoro e impresa a vent'anni dal 1968: riflettendo sull'industria e su Torino", in P. Ceri (a cura di), Impresa e lavoro in trasformazione, Il Mulino, Bologna.

Accornero A. (1990), "Il lavoro che cambia", Politica ed Economia, n. 1-2.

Ambrosini M. (1990), "La ricerca del consenso dei lavoratori", Il Progetto, n. 60, Nov.-Dic.

Arnod H.L., Faurote F.L. (1915), Ford Method and Ford Shop, New York.

Braverman H. (1978), Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino.

Brecher, J. (1976), Sciopero !, La Salamandra, Milano, 1976,(2 Voll.)

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Clark C. (1940), The Condition of Economic Progress, McMillan, London.

Dubofsky, M. (1969), We Shall Be All. A History of the Industrial Workers of the World, Chicago, Quadrangle Books.

Ford H. (1928), La mia vita e la mia opera, Apollo, Bologna. (ora in Henry Ford, Autobiografia, Rizzoli, Milano, 1982).

Gramsci A. (1975), Quaderno 22. Americanismo e fordismo, Einaudi, Torino.

Hobsbawm E.J. (1972), Studi di storia del movimento operaio, Einaudi, Torino.

Montgomery D. (1980), Rapporti di classe nell'America del primo 900, Rosenberg & Sellier, Torino.

Nelson D. (1988), Taylor e la rivoluzione manageriale, Einaudi, Torino.

Silveri M., Pessa P. (a cura di), (1990), L'Europa delle automibili, Ediesse, Roma.

Taylor F.W. (1967), L'organizzazione scientifica del lavoro, Etas Kompass, Milano.

[1]) Tutte le opere maggiori di Taylor sono ora raccolte in traduzione italiana in (Taylor, 1967).

[2]) Cioè il cercare di accellerare il ritmo, tecnica padronale ed il "segnare il passo", metodo questo di autodifesa del lavoratore.

[3]) Ma il miglioramento economico non era certo proporzionale all'aumento di produttività: in Direzione d'Officina Taylor affermava che, "per il loro stesso bene, è importante che i lavoratori non siano pagati troppo, nè troppo poco. Se i salari sono troppo alti, molti lavorano irregolarmente e tendono a diventare più o meno fiacchi, irrequieti e dissipatori: non è bene, per moltissimi uomini, divenire ricchi." (Taylor, 1967, pag. 16)

[4]) Dopo il 1900 Taylor abbandonò definitivamente l'attività di consulenza diretta, che delegò ai suoi assistenti e si diede a pubblicizzare il suo sistema di gestione. (Nelson, 1988)

[5]) Si tratta di un brano della deposizione di Hugo Lueders, meccanico presso l'arsenale di Watertown, difronte alla Commissione di inchiesta governativa sui nuovi sistemi di direzione. Il brano è riportato in (Montgomery, 1980, pag. 143)

[6]) Anche se, vi è da dire, i sindacati di mestiere individuarono questo aspetto del taylorismo soltanto con grande ritardo.

[7]) "Nell'accingersi ad introdurre mutamenti, è della massima importanza che gli sforzi della direzione siano concentrati su di un singolo individuo; nessun ulteriore tentativo deve essere compiuto finchè non si sia arrivati ad un successo completo con quel soggetto." (Direzione d'officina, in Taylor, 1967, pag. 132)

[8]) Con questo termine intendiamo una particolare forma di abitudine manuale che permetteva all'operaio di adattarsi al lavoro, svolgendo la sua mansione nel modo che gli era, fisicamente ed antropologicamente, più congeniale.

[9]) Cioè il non riuscire ad amare un lavoro che, obiettivamente, non è possibile amare.

[10]) Il sindacato di mestiere, tra l'altro, mai si era realmente interessato della tutela degli operai comuni.




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